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mercoledì 17 maggio 2023

PICCOLI RACCONTI SOTTO AL CASTELLO - Episodio 1

 PICCOLI RACCONTI 

SOTTO AL CASTELLO

Ascensioni a Rocca Pendice

Ep. 1


In questo momento (Maggio 2023) in cui è ritornato "maggembre" e si intravede la fine della lunga siccità che ha attanagliato l'Italia fin dai tempi dalla pandemia, ripenso con affetto al monte di casa, il caro, vecchio Rocca, su cui ho vissuto veramente tanti momenti. Così mi è venuta voglia di ricordarli, anche perché, questa piccola fortezza situata al centro dei Colli Euganei in provincia di Padova, proprio al centro della Pianura Padana, è stata la salvezza di interi fine settimana per molta gente.
Rocca Pendice è un po' casa, un posto da cui magari si può stare lontani a lungo ma a cui prima o poi si torna sempre, anche con un po' di nostalgia e dove a volte vi si trovano delle novità, qualcuna simpatica e qualcun'altra meno.
Del mio primo approccio ho già parlato qui, quelli che seguono sono altri episodi non necessariamente in ordine cronologico, che si sono svolti negli anni successivi. Il Rocca Pendice è stata non sola la prima "montagna" ma anche un luogo per sperimentare e perfezionare l'uso del materiale, le manovre e i movimenti che poi sono venuti buoni in situazioni ben più stressanti.

LO SPIGOLONE

E' a mio avviso la più bella via del Pendice (la descrizione la si trova qua), percorsa sovente anche dai corsi CAI e riservata agli allievi più bravi, anche se per un periodo ha subito una forte decadenza.
La tentai subito la prima volta che misi piede a Rocca con Stefano, per provare l'ebbrezza di una via a più tiri, non ricordo esattamente il contesto, ma ricordo perfettamente che ero più una macchietta (o meglio uno scemo) che un rocciatore: pantaloncini corti riciclati da un ex costume da bagno, scarpette d'arrampicata larghe come ciabatte per cui assomigliavo più a Charlot, una manciata di rinvii e uno spezzone di corda regalatomi da mio padre, che a sua volta era stato infinocchiato dal venditore che gli aveva rifilato un inutile spezzone da neanche 20 m, e anche un friend (il BD rosso per l'esattezza, lo stesso che mi cavò fuori d'impaccio nel camino Carugati).
Conciato in questo modo grottesco mi avviai su per la ripida placca con cui inizia la via, sotto gli occhi dubbiosi di uno Stefano che già aveva subodorato cosa stesse per avvenire ma che comunque provava ad infondermi fiducia nel destino.
Risalii in modo elefantesco il primo balzo fino all'enorme anellone che sbuca dalla fessura che si doveva afferrare e poi mi avviai lungo un breve traverso a destra del tutto strapiombante, passaggio che mette tutt'ora alla prova le cordate che prendono lo Spigolone sottogamba. Infilai la mano dentro un buco con un rovo (a volte compare, altre volte lo estirpano), mi inarcai a destra ad afferrare una tacca per trovarmi a gambe divaricate spalmato sulla placca spanciante e abbandonato completamente alle braccia: oltre al dolore provocato dalle spine sentii anche una profonda ondata di calore pervadermi, con i tricipiti che erano in procinto di esplodere. Provai a buttare il bacino più a destra ma continuavo a sentirmi precario, provai ad allungare la mano ancora più a destra ma niente.
Mi portai di nuovo a sinistra sull'anellone, guardando in tono supplichevole Stefano ma senza avere il coraggio di cedergli il passo, dopo tutto ero io l'esperto, mentre lui mi guardava immobile con l'espressione di chi stia osservando i babbuini allo zoo.
Nel frattempo sopraggiunse un'altra cordata, due uomini di mezza età che ci guardarono come si guardano i sopravvissuti alla disfatta dell'Armir sul Don e ci offrirono il loro aiuto per superare la placca. Grazie ai loro rinvii e salendo come se fossi Tarzan potei raggiungere una stretta cengetta dove vi era una sosta posticcia con un cavetto metallico e decisi di fermarmi, anche perché il nostro spezzone di corda era fortemente limitante. Gli altri due intanto proseguirono a grande velocità e sparendo dopo un po' alla nostra vista. Recuperai Stefano che salì molto lentamente e ci appollaiammo sulla cengetta pensando al da farsi, in verità un po' scossi visto il battesimo del fuoco appena ricevuto. 
All'improvviso echeggiò un urlo selvaggio, di quelle urla che gelano il sangue nelle vene e che lasciano intendere perfettamente che sia successo qualcosa di grave: uno dei membri della cordata di prima era caduto dalla parte superiore della via ed era volato per l'intera lunghezza della corda disponibile arrivando a poca distanza da noi. Fortunatamente era caduto oltre il bordo dello spigolo finendo a penzolare nel vuoto (avrà fatto 50 m di volo!!!) e senza toccare la roccia, cavandosela solo con un gran spavento.
Fu chiaro a quel punto che non era cosa saggia insistere con la via e buttammo una corda doppia disarrampicando poi le ultime roccette perché lo spezzone non era sufficiente.

Io e Stefano tornammo l'anno successivo, dopo la salita della Carugati, con una corda degna di questo nome e più equipaggiamento e anche molta più motivazione. Era primavera, faceva caldo e mi ritrovai nuovamente alle prese con la famigerata placca. Ricordandomi più o meno cosa avevo fatto la volta precedente affrontai nuovamente lo strapiombo spostandomi a destra ma ancora una volta venni respinto. Riprovai ancora, questa volta senza usufruire della fessura con l'anello ma del solo buco e sfruttando un appoggio più giù: mi resi conto che avevo fatto una fatica del diavolo per nulla quando alla fine era sufficiente restare un po' più bassi. Raggiunsi la cengetta della volta precedente dopo una gran fatica e recuperai Stefano a cui cedetti ben volentieri il comando e che risolse il passaggio successivo con il suo proverbiale "colpo di anca" per poi sparire al di sopra di un doccione. Giunsi in sosta, la vera prima sosta e trovai l'amico bellamente al telefono intento a subire improperi da parte della propria ragazza, la quale trovava la nostra uscita del tutto inconcepibile. 
A me gli improperi della mia erano già arrivati la sera antecedente, con un promemoria di prima mattina!! Eh, a quel tempo eravamo giovani ma per fortuna dagli errori si impara.
Stefano riprese la via verso l'alto affrontando il bellissimo diedro del secondo tiro, bestemmiando giusto un poco nel superamento del tettino, poi lo raggiunsi con abbastanza disinvoltura. 
Mi toccò il tiro lungo il camino seguente, che richiedeva una scalata più da panzer nelle steppe russe che un'arrampicata ma lo superai e mi ritrovai su un terrazzino sotto il passo chiave della via: un corto diedro strapiombante che richiede aderenza su placche lisce, protetto solo da un chiodo resinato mal posizionato. Provai ad innalzarmi infilando le mani nella fessura di fondo ma, quasi alla sommità il piede mi scivolò sulla placca e restai incastrato solo coi pugni. Ritentai ancora la fessura provando a fare più forza col piede ma scivolai ancora, così mi sfilai uno dei soli tre friend che avevo (due in più rispetto al tentativo precedente) per notare, con orrore, come questo fosse troppo piccolo e che restasse a malapena appoggiato nella fessura, giusto nell'unico posto dove potevo piazzare le mani. 
Scesi al nuovamente al chiodo un po' scazzato e cercando un modo per superare l'ostacolo e provai a buttare l'occhio a sinistra, oltre lo spigolo e notando un altro diedro coperto dal fogliame e dai rami. Provai a raggiungerlo, muovendomi come una fata su una cengetta coperta di muschio ma venni inesorabilmente trattenuto dall'attrito pazzesco della corda contro lo spigolo.
E' necessario specificare che, anche allungando il chiodo con un cordino, la corda faceva il medesimo attrito? Ma certo che no, le disgrazie viaggiano sempre a coppie.
Non ci fu che una soluzione: recuperai Stefano sul chiodo e lo spedii ad esplorare il diedro nascosto, malgrado mi maledicesse in una lingua arcana e oscura (oggi la variante che evita il passo difficile è ben ripulita, ma allora non lo era). Io nel frattempo mi appollaiai comodo su un alberello, seguendo le sue mosse con attenzione e spiegandogli dove sarebbe dovuto andare quando mi accorsi di aver disturbato la quiete di un formicaio e vidi con orrore le legittime proprietarie dichiararmi guerra.
Quasi a vendicarsi dell'ulteriore fatica a cui lo sottoponevo, Stefano se la prese molto comoda, un passetto alla volta con molta calma; anche il recupero della corda alla sosta fu fatto con tutta tranquillità, mentre io combattevo la mia lotta personale contro l'Armata Rossa.
Quando finalmente mi diede l'ok a salire, lo raggiunsi come un razzo e con un "leggiero" prurito addosso. Scalai l'ultimo facile tiro e insieme sbucammo sulla cresta sommitale del Rocca, proprio sopra la falesia, con la soddisfazione di aver portato a casa una bella via.

2020

Riaperte momentaneamente le gabbie dalle clausure della pandemia di Covid, incontro Stefano mentre è di passaggio a casa, in riposo da una delle sue peregrinazioni. Insieme ricordiamo i vecchi tempi e notiamo come siano dieci anni esatti che arrampichiamo insieme, un po' a fasi alterne. Bisogna dunque festeggiare, e quale posto se non dove è tutto cominciato, ossia Rocca Pendice?
La scelta più ovvia sarebbe stata la Carugati ma Stefano ha un legame particolare con lo Spigolone e così la scelta cade su questo. L'amico non è in forma mentre io sono al massimo, dopo essermi sciroppato mostruosità come Dark Angels, la Zonta-Gnoato e altro perciò andrò io da primo su tutti i tiri.
Fa caldo, è pomeriggio inoltrato ma tutto sommato è ventilato e si riesce a scalare in scioltezza. La prima placca, che dieci anni prima ci aveva fatto penare ridimensionando grandemente il nostro ardimento, me la lascio alle spalle senza nemmeno accorgermene; l'amico mi segue senza fiatare ma ritrovando il piacere della roccia. Poco dopo anche il secondo tiro è passato e subito sono impegnato col terzo, quello col famigerato diedro. Arrivato sotto il punto incriminato risalgo la fessura e piazzo un friend per proteggere il passaggio, questa volta più grosso del tentativo precedente ma, quando lo carico per fare il passaggio, vedo inorridito l'aggeggio sfilarsi dalla fessura e per poco non finisco a disintegrarmi le gambe sul terrazzino. Niente da fare, ci vuole una camma ancora più grossa.
Nessun problema, aggiro nuovamente l'ostacolo a sinistra e recupero la corda in sosta. Quando alzo lo sguardo e faccio per chiamare l'amico vedo un muro opaco e grigiastro, dietro cui i colli svaniscono: sta arrivando un violento temporale estivo ed è appena dall'altra parte della valle. Urlo al compagno di darsi una mossa e di tirare tutto ciò che gli capita a tiro ma il poveretto è fuori allenamento e fa quello che può. Il temporale nel frattempo si avvicina e lambisce le case di Castelnuovo. 
Stefano finalmente raggiunge la sosta e vi si aggancia, io riparto senza nemmeno attendere che mi assicuri, tanto sono roccette facili e per di più le conosco e, nel giro di un paio di minuti sono già alla fine del tiro, mentre il vento alza turbini di polvere accecante. Recupero il compare ad ampie bracciate, quasi a tirarlo su di peso e, riunitici, ci sleghiamo. Con pochi balzi superiamo anche le ultime rocce che ci separano dal sentiero di discesa; intanto cominciano a cadere i primi goccioloni. Guardo il compagno leggermente spaesato e gli grido di seguirmi imperterrito, non abbiamo nulla per coprirci dalla pioggia (e forse dalla grandine) perciò bisogna correre; perciò via, lungo il sentiero della falesia mentre il muro d'acqua divora anche la vetta del Rocca. Corriamo senza voltarci indietro e sbuchiamo sulla strada di Castelnuovo dove avevo fatto sapientemente parcheggiare Stefano per accorciare la discesa.
Arriviamo alla macchina, apriamo il bagagliaio e immediatamente si scatena il finimondo; appena in tempo!! Sembra quasi di essere sotto un idrante da quanta acqua viene giù dal cielo in un colpo solo.
Torniamo a casa con l'anniversario del nostro sodalizio in tasca, contenti e soddisfatti.

2022

C'è brutto tempo in montagna e io e Bruno ripieghiamo su Rocca Pendice, dato che lui non ci ha mai arrampicato, una domenica con un affollamento pazzesco. Quel giorno decidiamo di concatenare più vie e partiamo dai Diedri delle Nebbie per passare poi allo Spigolone e ai Diedri Bettella. Questa volta porto il friend 3 BD, sapendo che ci toccherà il famigerato diedro. E' quello giusto e con una pressione su una piccola tacca che la volta prima non avevo visto finalmente anche il tratto chiave è passato, pulito!

Rocca Pendice Spigolone
Lo spigolone

lo Spigolone
Nel diedro del secondo tiro

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domenica 14 maggio 2023

FINO ALL'ULTIMO RESPIRO - via Zonta sul Col Molton

 FINO ALL'ULTIMO RESPIRO

La via Zonta-Gnoato-Bertan al Col Molton

Appena passata la scampagnata sul Monte Caliano, che malgrado tutto ci aveva regalato una bella giornata di vero alpinismo, viene il mio turno di lavare il cervello agli altri due. 
Cerco qualcosa che sia all'altezza delle aspettative e che soprattutto sia difficile fino all'esasperazione dato che sennò mi dicono dalla cabina di regia che non c'è il divertimento. Cerco quindi di coniugare la comodità alla bestialità e so che la Valsugana fa al caso in questione. 
Il diavolo che è in me mi fa tornare alla mente una via che avevo adocchiato anni addietro e  che si trova giusto alle spalle di Cismòn, su quell'altura brutta a vedersi che si chiama Col Moltòn (richiama qualcosa di fangoso, chissà perché eh, anche se avrò occasione di ricredermi) e che era da poco stata riattrezzata per poterne permettere la frequentazione (magre speranze).
Sapendo come far radicare un'idea nella testa dei miei sventurati compagni di viaggio manipolando le loro menti, scrivo a Moreno mandandogli uno schema della via un poco vago e disegnato con le linee tutte storte come un bimbo e nel mentre lo rassicuro mefistofelicamente sul fatto che la via sia chiodata ravvicinata, comoda e che sia l'occasione per fare valere l'allenamento accumulato fino a quel momento. 
L'entusiasmo si accende immediatamente, ho toccato le corde giuste e "l'amico fritz" coinvolge subito anche Bruno, il quale però fiuta che c'è qualcosa che non va. Non posso lasciarmi sfuggire l'occasione e così lo rassicuro prontamente sul fatto che conosco bene la zona e che per un po' di difficoltà possiamo invece apprezzare la comodità del rapido accesso e dell'ancora più comodo rientro in corda doppia. Questi fatti fugano immediatamente tutti i dubbi e la domenica siamo a Cismòn, con i due compari che già pregustano la salita pensando che si tratti di una vietta sportiva con giusto qualche passaggio che gli farà grattare il capo più del solito. Io, purtroppo, conosco la Valsugana e sento, anzi so che ci saranno delle sorprese di lì a poco ma non dico nulla, un po' perché ho voglia di misurarmi con la salita, un po' per non spegnere l'entusiasmo dei compagni che sono così carichi.

Dopo la solita colazione al bar, ci portiamo in breve all'attacco della via, un po' nascosto in un minuscolo boschetto: la partenza consiste in un camino verticale, un po' sporco di terra e foglie e che richiede i piedi di piombo. Moreno parte direttamente con la marcia innestata per poi rallentare bruscamente come un treno di fronte al capolinea appena arriva sotto uno strapiombo; qualche sbuffo, una bestemmia e tra larghe spaccate e un paio di bracciate, riesce ad intrufolarsi dentro il camino sgusciando poi sul lato opposto dello sperone che lo forma. Seguiamo io e Bruno, col sottoscritto che si incastra nello stretto camino a causa dello zaino e che è costretto ad uscirne strisciando come un verme.
Ci riuniamo alla prima sosta e malgrado la titubanza iniziale il proseguo dell'itinerario pare promettente; riparte Bruno per la prima lunghezza sulle placche nere (valgono da sole un giro in Valsugana), c'è ancora dell'esitazione a causa di un passaggio obbligato proprio alla partenza ma poi prende il ritmo e risale tutta la placca, poi seguiamo io e Moreno. Io tiro anche fuori le "scalette" per risparmiare energie preziose per la parte alta che, a prima vista, sembra mostrare una certa severità, sovrastandoci arcigna e possente, sento infatti una vocina che mi dice che da lì a poco ne vedremo delle belle.
Anche le due lunghezze successive scorrono via veloci e ben presto arriviamo sulla grande cengia mediana, ormai alti sopra le case di Cismòn: il posto è incantevole, sotto di noi le case del paese che sembrano dei modellini, il sole ci tocca di striscio perché la parete è rivolta a nordovest e siamo tranquillamente appollaiati sull'erba in una gigantesca nicchia mentre in lontananza scorrono placide la tangenziale e il Brenta, i cui rumori arrivano appena quassù.

Guardo verso gli enormi strapiombi che ci sovrastano e intuisco il passaggio successivo attraverso un diedro sbarrato da un tetto, poi osservo gli altri e mi rendo conto di cosa sta per accadere: sono l'unico ad avere le staffe (le famigerate scalette) e ovviamente non ho nessuna intenzione di dividerle; il primo di cordata sarà enormemente agevolato dai chiodi ravvicinati, potendo sfruttare la trazione esercitata dal secondo che lo mantiene in posizione, a guisa di carrucola e quindi può cavarsela a buon mercato. 
Ma il secondo di cordata? 
Non può usufruire della tensione della corda, anzi la sporgenza contribuisce a farlo penzolare nel vuoto, col rischio che si distacchi dalla roccia e non sia più in grado di toccarla. Uno stallo del genere, se non si è più che preparati a gestirlo, può finire male.
Guardo ancora verso il tetto, è piccolo e non sporge poi tanto, i chiodi poi sono molto vicini, dato che parte Moreno rinuncio a un po' di comodità e porgo a Bruno uno dei miei cordoni, così che possa mantenersi attaccato ai chiodi mentre sale.
Il tiro di corda si rivela assolutamente estenuante e Moreno lo vince con molta fatica, dapprima issandosi su chiodi che sembrano avanzati da una rapina in ferramenta, poi sbuffando e contorcendosi per scavalcare un naso sulla destra e immettendosi nel diedro con un passo elefantesco, sparendo in seguito alla nostra vista.
Dopo un po' arriva il fatidico richiamo e lascio partire Bruno che inizialmente si trova un po' impacciato a gestire il coordinamento cordone, moschettoni e salita; io lo seguo serratamente e lo correggo sulla manovra cosicché riesca a prendere il ritmo e a superare l'ostacolo del tetto. L'azione riesce e poco dopo si trova oltre l'ostacolo. 
Arrivo anche io, invero senza troppo sforzo fino a quando scavalco il nasetto e mi immetto nel diedro dove c'è un passaggio obbligato abbastanza burbero; lo faccio, mi parte giustamente l'appoggio da sotto il piede e resto appeso con le mani riuscendo poi a issarmi con la forza disperazione, impiegando notevoli risorse per vincere il diedro obliquo e strapiombante, raggiungendo poi la sosta senza fiato. 
Ci accomodiamo sulla stretta cornice di sosta guardando verso l'alto: il diedro strapiombante continua presentando un rigonfiamento molto marcato quasi al suo termine, si vedono dei chiodi un po' distanziati che seguono la linea dello stesso.
Mentre gli altri due sono indaffarati io studio il passaggio; ho come il sentore che questo sarà peggio di tutto quello che abbiamo trovato in precedenza. Guardo gli altri: Bruno è momentaneamente cotto dallo strapiombo precedente, Moreno conserva ancora delle energie o ci fa credere di averne ancora. 
Potrei andare io che sono quello messo meglio ma vengo preceduto ancora una volta  da Moreno che si butta a capofitto verso l'ignoto per il bene collettivo; inutile dire che non rivolgo nessuna obiezione, dato cotanto ardore.

Comincia a salire lentamente lungo il diedro, molto più lentamente di prima; questa volta non è più un'arrampicata ritmica e di ragionamento, ma forza bruta concentrata nella rotonda fessura che a mano a mano sporge sempre di più nel vuoto. Dà quasi un senso di protezione, di ambiente raccolto, che avvolge e isola dal mondo esterno nascondendone le insidie, almeno fino a quando qualcuno non guarda giù e si rende conto che si ritrova centinaia di metri di aria sotto i piedi.
Moreno guadagna il diedro centimetro dopo centimetro con grande sforzo, non ha nemmeno l'energia per bestemmiare; arriva sotto la pancia dove la fessura si allarga e ci si trova penzolanti verso l'esterno: il prossimo chiodo è lontano, le pareti del diedro lisce e la fessura molto arrotondata, troppo per fare ben forza con le mani. Prova a puntare i piedi e si lancia verso il chiodo ma non riesce, il piede scivola; prova ancora ma non si slancia abbastanza e si abbandona di peso all'ancoraggio sottostante. 
Io e Bruno lo guardiamo con una certa apprensione, il nostro guerriero che viene respinto così dalla rupe è un pessimo segno. Resta appeso in quella posizione per qualche istante, come arreso ad una forza più grande di lui, poi, in un ritorno di fiamma di italica virilità, adocchia un appoggio minuscolo sul labbro del diedro, ci appoggia il tallone e con una contorsione di braccia spalma il piede destro sotto lo strapiombo alzandosi poco a poco, fino ad arrivare a portata del chiodo. Rapidamente Moreno sfila un rinvio (moschettoni), si lancia sul chiodo e questi entra al volo, mentre mantiene saldamente la presa. E' fatta! Il durissimo passo nel cuore degli strapiombi è vinto. Arriva alla scomodissima sosta successiva e ci chiama guardandoci con aria sfinita, come di chi avesse trasceso la sua condizione umana di prigionia nella carne dando l'ultimo respiro nello sforzo per uscirne.
Adesso però viene il bello.

Dopo che "l'amico fritz" si è sistemato io e Bruno ci mettiamo in marcia. Gentilmente gli riporgo il cordone ma stavolta lo rifiuta e parte a razzo lungo il diedro compiendo ampie bracciate e senza curarsi dello sforzo fino a ritrovarsi a metà completamente appeso nel vuoto. Io lo seguo con un po' più di malizia, facendo ampio uso delle staffe perché so che di lì a un momento lo spettacolo si farà avvincente, però non posso neanche essere da meno e quindi velocizzo la marcia stando alle calcagna del compare.
D'un tratto Bruno tenta di superare di slancio la pancia che aveva sfibrato Moreno solo poco prima e, data la distanza degli ancoraggi, si ritrova catapultato in fuori non riuscendo minimamente a tenere la fessura di fondo. Prova alcune volte ma l'aggetto è eccessivo e non riesce a stare aggrappato, poi si arrende, si stacca dalla roccia e resta lì appeso con la rassegnazione di chi ha dato tutto. Io sono immediatamente sotto e assisto al concretizzarsi di quello che temevo, una situazione di stallo, in cui si è impossibilitati tanto a scendere quanto a salire.
Fortunatamente la nostra cordata è composta di tre persone ed è in casi come questo che il terzo gioca un ruolo fondamentale, conservando lo spirito, le forze e il raziocinio necessari a trarsi d'impaccio e infatti il mio ruolo risulta decisivo.
Mi si presentano due opzioni per risolvere la questione: una è quella di scavalcare Bruno e porgergli una delle mie staffe su cui possa issarsi con tranquillità ma vengo scoraggiato dal fatto che lo spazio è assai angusto e me lo ritroverei di peso addosso finendo per ingarbugliare la situazione già di per sé non facile. L'altra idea è quella che risulta vincente: egli ha appesi all'imbrago un paio di friend (camme meccaniche a incastro) e uno di questi è della misura giusta, così gli grido di infilarlo nella fessura e usarlo per tenersi quel che basta ad acchiappare il famigerato chiodo e dare modo a Moreno di recuperare la corda.
Bruno mi guarda con gli occhi di chi ha avuto un'epifania, sfila il friend, lo incastra nella fessura facendo attenzione che non gli scappi di mano e da uno strattone possente riuscendo nuovamente ad avvicinarsi alla roccia poi, con una mossa che non mi so spiegare, balza ad afferrare finalmente il chiodo risolutivo superando il passaggio e arrivando in sosta con la fierezza del fante sull'Isonzo. Io sopraggiungo con tutta tranquillità poco dopo. 
Sempre Bruno riparte immediatamente per togliersi dalla sosta stretta e scomodissima in cui siamo; seguono ancora dei camini stretti, strapiombanti prima di uscire su un minuscolo terrazzino sul ciglio della parete, fuori dalle difficoltà.
E' ormai sera e siamo allucinati dalla fatica e dalle difficoltà affrontate.
Ci apprestiamo a gettare le corde doppie lungo la via che giustamente riserbano ancora delle emozioni come l'enorme pendolo che fa Bruno quando leva un ancoraggio che serviva a direzionare le corde, volteggiando libero sopra i tetti di Cismòn.
Arriviamo alla macchina che è ormai notte, guardandoci negli occhi e pensando che mai, fino ad allora, avevamo affrontato una via tanto mostruosa.



Col Molton
Il Col Moltòn alle spalle del paese di Cismòn del Grappa

placche sulla Zonta

placche del Col Molton
Sequenza lungo le placche nere

tetto sulla Zonta
Il tetto dopo la grande cengia

diedro della via Zonta
Il famigerato diedro



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giovedì 20 aprile 2023

MONTE CALIANO - Ossia dell'arte di infognarsi in posti insignificanti

 MONTE CALIANO

Ossia dell'arte di infognarsi in posti insignificanti


Moreno si ritrova con del tempo libero a disposizione, forse un po' troppo tempo libero, così per passarlo comincia a scrivermi e mandarmi foto di questo sasso a forma di patata che s'appella Monte Caliano, una montagna che francamente non saprei nemmeno se appartiene alla Terra. Comincia prima in sordina, poi a menzionare più volte la parola "spigolo", poi inizia a mandarmi le foto di questa cresta, che non mi dicono poi molto ma che forse potrebbe avere un interesse, poi ancora mi tampina sempre più forte convincendomi che potrebbe avere sette o otto tiri belli di cresta e così finisce per lavarmi il cervello e convincermi ad andare a ficcanasare.
Moreno coinvolge anche il solito Bruno che viene, almeno in apparenza, ben convinto di quel che apprestiamo a fare (mmm, che fiducia cieca!), così la solita macchina alpinistica si mette in moto e, dopo la solita colazione a Valli del Pasubio, andiamo a Sella Novegno. 
C'è però una variante nella routine: a differenza delle altre uscite, questa volta non ho consultato le previsioni del tempo la sera prima, tanto siamo in tre e quindi almeno uno degli altri avrà controllato (ancora più fiducia!), poi il clima è secco, caldo e siamo a ridosso della pianura, cosa mai potrebbe andare storto?!

Dalla Sella Novegno imbocchiamo un bel sentiero riposante che taglia il versante passando sotto uno sperone del Monte Riòn e poi comincia a scendere in ripide svolte. Dopo un paio di queste, Moreno, al grido "conosco la strada" esce dal sentiero e comincia a tagliare il bosco in orizzontale, senza una méta ben precisa, l'importante è solo non perdere quota. 
Solo che il bosco è un pochettino ripido, il sottobosco folto e i rami, che sono cresciuti indisturbati per decine di anni, ostacolano l'incedere in modo un pochetto fastidioso. Siccome le disgrazie non vengono mai sole ecco che da valle monta anche la nebbia, una nebbia fitta e fredda che in pochi minuti infradicia tutto e tra i meandri della foresta si sentono anche i passi strascicati della Piramide di Silent Hill.
Moreno, come un fante d'Italia, procede petto in fuori con la sua scorciatoia fino a quando becca una traccia che risale in mezzo a tronchi bagnati e su un pendio di ortiche. Ovviamente mi pare superfluo dire che per superare i tronchi bisogna aggrapparsi proprio alle ortiche, con Bruno che brontola e io che sto seriamente pensando a un TSO. Inutile anche dire che ogni passo nella selva richiede anche un'attenta ispezione anti-zecche che rallenta di molto la marcia. 
Dopo un tempo indefinito passato in quell'incubo arriviamo a un ghiaione; piuttosto che ravanare ancora ancora selva meglio faticare sulla ghiaia perciò prendo il comando e comincio a risalirlo. Gli altri due mi urlano che sono fuori strada ma io continuo ad andare avanti e in cima al ghiaione raggiungo i resti di una vecchia mulattiera, ormai sepolta dall'erba. Finalmente un passaggio in cui tenere almeno i piedi orizzontali.
Bruno prende l'iniziativa e segue la strada fino ad una cresta, nella nebbia non capisce dove si trova e scende un po' in mezzo alla selva per trovarsi di punto in bianco sopra un burrone; niente da fare, si continua a seguire la mulattiera che poco oltre scompare in un prato. Seguiamo il prato che si mantiene a ridosso di una parete rocciosa, senza aver bene chiaro in che punto siamo, quando ad un tratto arriviamo su un crinale di mughi, al di sotto del quale si apre la valle: abbiamo attraversato praticamente tutto il Novegno per arrivare fin lì, dopo circa due ore di lotta con la natura primordiale infradiciata e fangosa. 
Un breve momento in cui le nubi si diradano e possiamo vedere come lo spigolo del Caliano si eriga esattamente sopra di noi, mentre sotto di noi si scorge un capanno con un comodo sentiero che vi arriva; vorrei coprire di insulti Moreno e le sue tagliate nel bosco ma sono momentaneamente concentrato su quello che ci sovrasta.

Ci sistemiamo alla bell'e meglio in cima al prato, dove un chiodo segna l'inizio della nostra via, mentre la nebbia torna a ricoprirci e a infittirsi ancora più di prima penetrando fino nelle ossa. 
Parte Moreno che scala un diedrino estremamente rotto, io e Bruno lo seguiamo cercando di indovinare qualcosa nel grigiore: sale con molta fatica perché le rocce sono instabili, specie un grosso spuntone a forma di incudine che invita un piede malaccorto a posarvisi sopra, poi sentiamo battere un chiodo, una bestemmia, un altro chiodo e infine un "bon, faccio sosta qui".
Altri chiodi tintinnano nella roccia e poi finalmente arriva il richiamo: parto io e lascio a Bruno il compito di levare i chiodi lungo il diedro, arrampicandomi come se fossi sulle uova per evitare di scaricargli sassi addosso quando all'improvviso risuona un fragoroso boato che probabilmente sarà stato udito anche a Sella Novegno: Bruno ha messo il piede sul pilastrino, che cadendo ha coinvolto un macigno, che rotolando ha cavato una crosta, che scendendo ha mosso dei sassi, che alla fiera dell'est mio padre comprò.
Guardiamo i sassi rotolare giù lungo il prato dove eravamo prima e scendere giù infondo fino al sentiero, il crepitio dovuto al loro rotolamento dura per alcuni secondi; "così ho fatto pulizia" mi dice Bruno.
Ci riuniamo alla stretta sosta su una specie di cornice sotto un pronunciato strapiombo, scomodissima. Parte Bruno, non avendo la più pallida idea di dove andare ma cogliendo il mio suggerimento di piegare verso sinistra dove s'intravedeva un buon terrazzo alla base di un altro salto. Bruno inizia chiodando arditamente lo strapiombo, uno, due, tre chiodi, poi qualche accidente e si trae d'impaccio e traversa a sinistra, ne esce un bel tiro su roccia buona e raggiunge il terrazzo dove ci fa un fischio che è presente una sosta a chiodi. Ripartiamo io e Moreno schiodando il passaggio appena fatto e arriviamo al terrazzo.
Nel mentre facciamo le manovre, sempre in una nebbia fittissima tanto da non vedere a quindici metri, sento una goccia. Lì per lì penso alla condensa, poi ne sento un'altra e ne sentono una ciascuno anche i compagni. Segue un tuono, molto sordo e in lontananza: "massì dai, te vedarè che el va zo par el Pasubio (vedrai che andrà giù verso il Pasubio)" dice Moreno cercando di farsi coraggio; io lo guardo preoccupato e Bruno già si riavvia su per la prossima paretina da cui sbuca un chiodo; non fa in tempo ad alzarsi quattro metri che rimbomba un altro tuono, questa volta molto vicino. 
Estraggo la mantella dallo zaino mentre Moreno mi rincuora "gavèm preso altre volte la piova su in montagna (abbiamo preso altre volte la pioggia in montagna)"; io lo guardo in modo compassionevole replicando un semplice "pure io" e intanto mi avvolgo nella mantella, mentre Bruno grugnisce qualcosa restando aggrappato alla roccia poco sopra. In un attimo, le gocce si trasformano in un torrente e dalla parete cominciano a scendere rivoli di acqua gelida: Bruno è sempre fermo nella stessa posizione, Moreno si chiude l'impermeabile e si rassegna alla lavata mentre io mi accosto alla parete cercando di coprirmi il più possibile, soprattutto lo zaino che altrimenti si trasformerebbe in un bidone in pochi istanti.
Passano i minuti e l'acqua continua a scendere copiosa, mentre i tuoni risuonano molto vicini; io e Moreno ci rannicchiamo come possiamo mentre Bruno sopporta nella sua ingrata posizione (lo so bene che vuol dire, avendo subito la medesima sorte sul campanile Dulfer, vedi qui). 
Dopo un po' i tuoni si allontanano e comincia a scemare anche la pioggia fino a scomparire del tutto; l'umidità risale rapidamente e ci troviamo ben presto nuovamente avvolti nella nebbia. 
Passa ancora qualche minuto e Bruno prova a ripartire, facendo attenzione a piazzare bene i piedi zuppi di acqua sulla roccia ancora umida ma riesce ad avere sorprendentemente una buona presa e guadagna terreno arrivando abbastanza in fretta, date le circostanze, ad un punto dove poter allestire una sosta. Ci chiama e lo raggiungiamo scalando la paretina a larghe bracciate (io per poco non mi tiro addosso un piastrone pericolante dato che la cresta continuava ad essere molto rotta).
Quando arriviamo da Bruno abbiamo un'amara sorpresa: siamo sull'erba, davanti a noi si stende uno stretto crinale di mughi e tra le ombre evanescenti create dalle nebbie si indovina la vetta del monte. Morale della favola: abbiamo fatto tutta questa fatica per una sessantina di metri di arrampicata su sfasciumi; l'abbaglio è totale!
Non perdo tempo, lascio agli altri l'incomodo di sbrigarsela con le corde e mi butto lungo la cresta, seguendo il filo di roccette in mezzo ai mughi e superando anche una profonda spaccatura, alla fine aggiro verso sinistra l'ultima paretina e mi isso sul terrazzo sovrastante trovandomi improvvisamente sotto la piccola croce di vetta del Caliano. E' fatta, la via è già finita. Pochi istanti dopo mi raggiungono anche i compagni che si guardano un po' increduli, incapaci di decidere se essere delusi o passare oltre e annotare un'altra salita fatta. Li incito a decidere qualcosa avviandomi verso la discesa, seguendo una piccola traccia ad ometti che mi permette di aggirare un ripido salto proprio sotto la cima. La nebbia comincia ad alzarsi ma ci perdiamo su una forcella, indecisi su quale traccia seguire; decido arbitrariamente di scendere dalla parte del versante da cui siamo saliti e, alcuni metri più in basso, intercetto nuovamente i resti della mulattiera militare incontrati all'andata.
Mi rilasso pensando che ormai sia finita e che la strada possa portarsi molto vicino al sentiero un poco più a monte ma la speranza viene brutalmente stroncata da un franamento. Superfluo dire che questo fatto ci obbliga all'ennesimo andirivieni nel bosco, dato che non lo avevamo già gustato abbastanza al mattino. Ancora una volta decido unilateralmente per tutti di ripercorrere esattamente la traccia fatta all'andata e dopo poco più di un'ora rientriamo a Sella Novegno che splende il sole, mentre cala dolcemente dietro la Catena delle Tre Croci.

spigolo del Monte Caliano
La partenza dello spigolo

strapiombo sullo spigolo del Caliano
Partenza brutale del secondo tiro

cresta del Monte Caliano
Sull'ultimo tratto di cresta

vetta del Monte Caliano
Vetta del Caliano

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martedì 18 aprile 2023

SASSOLUNGO DI CAMPETTO - Angeli e demoni sulle Tre Croci

 SASSOLUNGO DI CAMPETTO

Via Dark Angels 


Subito dopo il Fratòn è la volta di questa montagna dimenticata che sorge alle spalle della Gabiòla, nei pressi di Recoaro Mille. Qui Moreno e Bruno hanno aperto due vie sportive che salgono dritte la lavagna posta a sinistra del grande pilastro che la contraddistingue.
Vengo trascinato in questa faccenda con fraudolenza dal solito Moreno "massì, xe fazile, tanto basta che te zeri (basta che tiri i chiodi)" perché, dopo l'apertura della seconda via c'è bisogno di una ripetizione e di darle un grado, cavare qualche scheggia rimasta in bilico ed eventualmente mettere qualche cordino.

Il caldo è ancora opprimente ma anche in questo caso la parete è rivolta a nord e le previsioni meteo annunciano un po' di nuvolosità a mitigare la crudeltà delle radiazioni solari. Come di consueto c'è il ritrovo mattutino al bar per la colazione, in centro a Recoaro, poi partiamo alla volta della Gabiòla, un bar posto all'inizio del Sentiero dei Grandi Alberi donde parcheggiamo, ci ri-fermiamo a perdere tempo e solo in seguito ci incamminiamo verso la parete (tanto è vicina...!!).
"Massì, ghe xe vinti minuti par 'rivarghe" (ci vogliono 20 min. pe arrivarci), dice Moreno all'ignaro ospite, omettendo però di dire cosa si troverà in quei 20 minuti, ossia il riassunto di tutti i terreni di montagna e relative infestazioni, meno il ghiacciaio perché siamo in stagione inoltrata (altrimenti anche il ghiaccio sarebbe stata un'opzione), con tanto di lotta coi rami e fango e relativi accidenti a chi ha avuto l'idea malsana di cacciarsi in quei posti che era meglio restassero ai leoni. 

Dopo bestemmie su bestemmie per la lotta con le frasche e il ghiaino arriviamo in una bucolica conchetta alla base della parete, che si presenta come una lavagna giallastra e compatta e che ci aspetta già sapendo i numeri da circo che di lì a poco ci appresteremo a fare.
Parte Moreno che giustamente conosce già i movimenti sul primo e strapiombante muro giallo; io lo osservo cercando di memorizzare come concatenare la sequenza di prese ma poi più in alto mi perdo, ponendo più attenzione alla sicura che sto facendo e ai grovigli di corda (ne pagherò le conseguenze di lì a poco).
Quando Moreno arriva alla sosta, l'immancabile Bruno parte tirandosi baldanzosamente sui rinvii e sale su veloce, dopo viene il mio turno: la via parte con un pronunciato pancione che supero agevolmente avendo visto come fare, poi mi innalzo senza problemi sulla successiva placchetta liscia (passaggio atletico che, verrò a sapere in seguito, ha reso la vita difficile ai primi ripetitori) e comincio ad addentrarmi nel muro giallo. I muscoli sono ancora un po' freddi e la mente non è ancora al massimo della sua concentrazione ma mi innalzo piano piano, su tacchette minuscole che sono sfuggenti anche alle punte delle dita. 
Dopo circa cinque metri di movimenti delicati con ogni fibra in tensione arrivo sotto un tettino formato da una grande lama strapiombante, qui bisogna traversare a sinistra; la corda è tesa tanto da poterla suonare e tende a sbilanciarmi, le mie fibre muscolari sono ancora più tese ma tengo duro; allungo  il piede sinistro per poggiarlo su una rugosità ma scivolo; riprovo ancora ma niente e sto per avere un crampo alle braccia, se mi lasciassi andare andrei a sbattere lungo una sporgenza sulla sinistra e mi troverei poi in difficoltà a risalire la corda. Retrocedo un poco e riprovo, questa volta incrociando le braccia per essere in assetto quando riallungherò il piede sinistro; mi tengo alle piccole tacche con tutte le forze e finalmente riesco a spostarmi a sinistra e a traversare fino a prendere la grande lama. 

Mi blocco; lo sforzo mi ha messo in crisi e mi sento stanchissimo. 
Resto per qualche minuto appeso come un salame con una vocina in testa che mi suggerisce che potrei dire agli altri due di calarmi alla base della via e me ne starei lì spaparanzato ad attendere ma alla fine l'orgoglio prende il sopravvento e riparto aggrappandomi alla lama e raggiungendo la sosta dove i simpaticoni mi aspettano.
Quando arrivo in sosta Moreno mi guarda e mi dice: "ciò 'Sandro, questo l'è almeno un 6c!". Apperò!!! Ecco perché ho avuto un momento di crisi mentre procedevo!
Le lunghezze successive si svolgono molto più tranquillamente, anche perché decisamente più facili; a mano a mano prendo confidenza con la roccia, malgrado aumenti sempre più un certo dolore ai piedi nato a forza di stare sulle punte.
All'ultimo tiro arriva anche un temporale che per fortuna non scarica nulla e alza solo il vento tenendoci finalmente un po' al fresco.
Il resto della giornata non ha storia e trascorre tra i soliti scherzi nuovamente giù verso il mondo,  nell'attesa paradossale dell'alpinismo di poter tornare ancora una volta su, fuori dal mondo.


Sassolungo di Campetto
Il Sassolungo di Campetto

partenza di Dark Angel
La terribile placca iniziale

placche al Sassolungo di Campetto

parte superiore di Dark Angel
Lungo i tiri superiori

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mercoledì 12 aprile 2023

FRATON

 FRATON

Il gioiello del Pasubio

E' l'anno 2020. 
Un anno che rimarrà nella storia contemporanea come l'anno della pandemia di Covid, momento storico che costringe una cospicua fetta di umanità a restare in casa per mesi, durante tutta la primavera. Poco male per me perché per motivi di salute sarei comunque in una pausa forzata e quindi alla fine non perdo nulla, buona scusa per dedicarsi completamente allo studio.

Arriva l'estate, passano i problemi e si attenua anche la pandemia, al punto da poter andare a prendere una "boccata d'aria fresca". E' decisamente inutile dire che, dopo tutte le peripezie del tempo trascorso a casa, posso vantare un fisico da vero pensionato, di quelli che compiono un'impresa da eroi quotidiana per alzarsi dal divano! Però sono anche stufo di stare fermo e di sentirmi inflaccidito, ho bisogno di sentire un po' di forza fisica nei muscoli.
Arriva prontamente il messaggio di Moreno ruggente come il motore di un tank con le candele ammuffite che di colpo viene riacceso: inutile cincischiare, si ricomincia col botto, si va sul Fratòn; d'altronde cosa potrebbe esserci di meglio del ricominciare la vita sportiva se non con qualche bello strappo muscolare, carni matte in ogni centimetro del corpo e un sonno letargico per una settimana? Naturalmente c'è anche Bruno, sono in una botte ferro (ma col fondo di argilla).
Sono assai allettato all'idea perché il Fratòn lo sbirciavo in segreto da molto tempo però sono anche preoccupato dal mio stato psicofisico di uomo appena tratto dall'ibernazione, la cui ginnastica è consistita fino a poco prima nel cambiare i canali della televisione e nell'allenare gli avambracci sollevando una matita. Beh, al diavolo, questa volta arrischio il passo più lungo della gamba, tanto ormai so come trarmi fuori d'impaccio e nemmeno gli altri due aprono le noci coi bicipiti, quindi posso andare in totale relax.

Giusto per presentare un po' il posto, il Fratòn di Sorapache è una bellissima guglia di roccia solida nascosta in un anfratto piuttosto selvaggio del massiccio del Pasubio, visibile per poco solo dalla strada che sale al Passo Bòrcola o che fa capolino dalla vegetazione dall'alta Val Sorapache, lungo un vecchio sentiero militare che sale alle Porte del Pasubio. Pochi sono gli scalatori che si avventurano da queste parti, un po' per l'accesso disagevole e un po' per le zecche, anche se Tranquillo Balasso ha tracciato numerose belle vie sulle pareti della valle.

E' il 6 di Luglio e fa caldo; il tempo è ottimo, soleggiato e caldo, in particolare è umido e caldo (non l'avevo già detto?!) come si confà ad una vera estate padana ma per fortuna la via è esposta a nord. Partiamo la mattina presto con una frugale colazione al bar di Valli del Pasubio per anticipare i turisti che arriveranno per salire la Strada delle 52 Gallerie e ci avviamo tutti e tre a Bocchetta Campiglia scoprendo che siamo intelligenti come, se non meno (molto meno), la media delle persone sulla Terra, infatti siamo in coda per il parcheggio alle 8,00 del mattino. Dopo aver arricchito il mio rosario con i sacramenti fantasiosi dettati dall'impazienza degli altri due finalmente riusciamo a trovare un posto auto in bilico su un fosso, appena oltre il parcheggio e pure a pagamento per evitare che quei demoni chiamati "vigili urbani" puntino giusto alla nostra vettura per arrotondare le finanze comunali. 
Con sforzo stoico per non compiere una strage di ignari turisti con al seguito bimbi frignanti, ci avviamo per la strada degli Scarrubbi, sotto un sole feroce come il lampo di un'esplosione nucleare malgrado sia solo mattina.
Dopo circa 3 km di strada arsa come il deserto di Atacama arriviamo al tanto sospirato terzo tornante donde diparte una traccia ripida e angusta che tagliando il fianco del monte, valica una forcella e scende verso la Val Sorapache: ciò significa che passiamo dalla fonderia alle giungle del Vietnam in meno di 100 m.
Il problema è che noi non siamo Rambo con i Berretti Verdi, anzi siamo bolliti, anzi malediciamo questo posto per esistere, anzi meglio: speriamo in un asteroide che ci porti dritti al Giudizio Finale per aver avuto la splendida idea di venire quassù in estate senza avere una guerra da combattere ma per nostra scelta. Inoltre ci sono le zecche, in agguato tra le fronde dei mughi e l'erba alta, che aspettano solo sangue fresco e ricco di vitamine. 
Mentre gli altri avanzano io faccio una fermata ogni tot passi a controllarmi, sono in pantaloni corti e maniche corte e non penserei nemmeno un istante a coprirmi di più, tra il colpo di caldo e le zecche scelgo le seconde. Per fortuna non raccolgo ospiti lungo il sentiero.

Superata una stretta forcella il Fratòn appare ancora meglio di come lo avevo scorto quella volta dalla vicina Torre Gabrisa: un razzo pronto alla partenza, come il Saturno V della missione lunare Apollo 11, se non fosse per quell'incudine posta sulla sua sommità che gli conferisce l'aspetto di un frate in preghiera.
Ci portiamo sotto la parete nord attaccando la via El Duro, forse la linea più bella e logica della torre, su roccia fessurata magnifica e con una chiodatura parsimoniosa. 
La scalata procede senza interruzioni significative, liscia, grazie all'esposizione a nord e ad una leggera nebbia che mitiga la calura, anche se ho dovuto escogitare un razionamento "intelligente" per l'acqua in modo da distribuirla su tutta la giornata, così intelligente che in vetta mi rimane solamente un sorso per tutto il viaggio di ritorno, rimasuglio che custodisco gelosamente e difendo fino all'ultimo specie dalle zampe fameliche dei due compagni che sono rimasti a secco da un po'.
Infatti arriviamo in cima un po' stanchi, decisamente bolliti, assolutamente rinsecchiti: Moreno non sente più i piedi, ormai ridotti a due fuscelli ritorti, io ho le braccia e le gambe di legno e Bruno parla con San Pietro e gli Apostoli. Buttiamo le corde doppie lungo la via di salita che puntualmente si incastrano ma ormai siamo esperti (e soprattutto poco pazienti) e quindi non è un problema, poi risaliamo penosamente verso la forcella che adduce alla Strada degli Scarrubbi dove io vuoto anche l'ultimo e tanto racimolato sorso d'acqua. Moreno nel frattempo rimane ipnotizzato da una zecca che gli pascola tranquillamente sul braccio alla ricerca di una vena che non trova e che non può trovare perché ormai tutti i liquidi sono evaporati, poi la lancia via con uno schiocco restituendola a quel mondo vegetale infestante dove aspetterà un'altra vittima consapevole ma rassegnata con cui banchettare.
Arriviamo alla macchina con le tenebre, sognando cibo e birra.


Fraton
Il Fratòn

attacco di El Duro del Fraton
Partenza

strapiombo su El Duro del Fraton
Il grande diedro della parte superiore

fessura su El Duro del Fraton
La magnifica fessura al centro della parete nord

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mercoledì 3 agosto 2022

MARTIN MIETTO

V TORRE DEL TRICORNO

Via Martin-Mietto

E' estate, per la precisione l'estate del 2019 e ho voglia di arrampicare. 
Il Covid non è ancora arrivato; in quel momento nessuno immaginava ciò che sarebbe arrivato di lì a poco. 
Telefono al Bocia e gli propongo lo spigolo Soldà sul Cornetto, giusto per muoversi un po' e poi perché con quella via avevo un conto in sospeso. Lui accetta subito in quanto aveva già adocchiato l'itinerario e insieme ci dirigiamo al Pian delle Fugazze. 
Carichiamo il materiale sul groppone, niente pesi da schiavi questa volta e ci incamminiamo lungo il sentiero quando, d'un tratto, con la voce contrita di chi ha rotto la finestra e l'ha nascosta tirando la tenda, egli mi fa presente che ha un dolore ad un piede a causa di un'unghia incarnita. 
Per qualche breve istante sono perplesso, come qualcuno che inserisce i soldi nella macchinetta del caffè e riceve solo un bicchiere con lo zucchero, fisso a terra e poi mi guardo attorno: fa un caldo bestiale, neanche una nuvola e la via che dovremmo percorrere è esposta a sud. 
Non mi lamento, anzi mi sento sollevato perché il pensiero di non avere neanche un po' di nebbia a rinfrescarci mi rende un poco inquieto. Cambio velocemente programma e gli propongo la via nuova di un nostro amico sulle torri del Tricorno, con un avvicinamento decisamente più comodo e ombroso rispetto all'idea iniziale. 
Ci avviamo lentamente su per il canalone di attacco, che ovviamente non è né comodo e né ombroso, anzi è ripido, anzi potrei baciarlo se mi sporgessi un po' con le labbra, meglio: trasuda vapore dall'erba grassa. Dopo un'interminabile ora passata a sudare come reclute della Legione Straniera a causa dell'umidità penetrante, raggiungiamo la base della torre. 
L'amico Fritz guarda la torre dubbioso, non sa cosa fare, è bollito, si nasconde dietro l'unghia incarnita. Io la guardo, col pensiero di dover scendere lungo il canalone e di essere arrivato fin lì per nulla che mi punzecchia come una zanzara vicino all'orecchio, senza avere il coraggio di osare nemmeno qualche passaggio su roccia. 
Sono momenti in cui la nullafacenza si impadronisce di noi e mina fortemente la nostra volontà di agire.
Tutto d'un tratto, mentre confido nella contrazione dell'Universo per il ritorno alla macchina, noto che tra le vie esistenti su questa piccola torre c'è una porzione libera di roccia su una grande placca grigia e, visto che con me ho qualche chiodo, penso che si possa fare un tentativo di aprire una via nuova; la parete non è alta ma è molto estetica, piramidale, di roccia lavorata e verticale.
Convinco il socio con fatica, predicando come Gesù nel tempio, proprio ora che sta imitando alla perfezione Ramsete disteso tra i sassi;  mi lego e mi preparo a partire. 
I primi metri sono facili e non ho problemi a superarli. Subito dopo però il muro si impenna e mi ritrovo con la corda a penzoloni, completamente avvolto dalla nebbia, che nel frattempo è sopraggiunta, ai piedi di un camino gocciolante. Questo tratto è coperto da toppe erbose che con l'umidità sono diventate fangose e la roccia si presenta ovunque compatta. 
Con un po' di fatica riesco a piazzare un chiodo e a sbirciare un po' in avanti: non si vede nulla, a parte un unico e insondabile pallore grigiastro e, se la roccia della placca fosse troppo compatta, si necessiterebbe dei fix per assicurarci a dovere. 
Mi faccio calare fino al compare e torniamo verso il basse facendo il giro del gruppo di torri; in teoria la discesa sarebbe dovuta essere meglio, più percorsa, segnalata e veloce, rispetto al canalone salito all'andata. Ovviamente si rivela un incubo lungo un prato umido e spiovente da percorrere praticamente seduti, fatto che ci fa pensare che sia opportuno attrezzare una discesa lungo il canalone di andata e secondo, che l'autore della guida in cui ho trovato questa torre si diverta a mandare in malora le persone perché è giusto condividere le inchiappettate.

Passano due mesi e torniamo all'attacco: è Ottobre, il clima è più gradevole, la nebbia è più persistente ma perdura l'alta pressione e questa volta partiamo carichi di tutto il materiale necessario, ben decisi ad approfondire il tentativo. 
E' decisamente inutile dire che le bestemmie lungo il canalone di accesso escono dalle nostre fauci più volentieri della volta precedente ma sopportiamo stoicamente per la gloria. 
Arriviamo dopo una fatica da schiavi nella piantagione alla base della guglia e apparecchiamo il "campo base" e facciamo una piccola siesta. Mi riavvio lungo il pezzo percorso la volta precedente con l'artiglieria pesante già armata. 
Alla base del camino, che è bagnato e gocciolante anche questa volta se non di più, entra in azione un bel fix, poi mi innalzo lavorando bene di friend in una fessura e raggiungo un terrazzino alla base della grande placca. La roccia è compatta ovunque, dove pensavo ci fosse una bella clessidra ci sono invece solo due macchie nella roccia e mi sento contento di non aver insistito la volta precedente, perché avrei dovuto recuperare il Bocia e il materiale su un mughetto decisamente robusto, tanto da flettersi sotto il peso dei ragni. 
Piazzati due bei fix e apparecchiato il magro terrazzo recupero il Bocia che piano piano arriva, con calma, molta calma. 
Arriva, deposita il materiale e appollaia in posizione per farmi procedere oltre: la base della placca strapiomba, potrei traversare sulla destra lungo una cornice erbosa ma è un passaggio scomodo, oltre che umido. Sopra la sosta c'è una bella fessura perciò decido di affrontarla coi friend, compiendo un bel passaggio in artificiale, prima di piazzare un bel fix di sicurezza. Compare a questo punto una lama provvidenziale, invisibile dal basso, che mi porta verso destra con dei movimenti delicati (sono anche carico come un mulo) e mi fa scoprire una fessura che nella ricognizione precedente e nelle fotografie scattate non si vedeva affatto. E' una magnifica sorpresa!
Comincio a scalare la fessura, utilizzando i friend e le clessidre che vi trovo e innalzandomi lentamente; la roccia di fa sempre più umida e scivolosa a causa della nebbia, fino al punto di gocciolare; il lichene depositato sopra poi completa la goduria. 
Malgrado questo scalo la fessura un mezzo metro alla volta fino ad un magro gradino con una clessidra. La nebbia è talmente fitta da poter essere tangibile, addirittura mi palpa e la parete è completamente fradicia; a tratti pioviggina. Sono momentaneamente indeciso sul da farsi quando il Bocia mi chiama da sotto: è quasi notte! 
Non mi ero minimamente accorto dello scorrere del tempo, ho proceduto in avanti come una macchina, senza pensieri, concentrato solo sulla progressione. Piazzo un fix con l'intenzione di attrezzare una sosta assieme alla clessidra e mi faccio calare giù, poi entrambi rientriamo alla base della torre. Ci prendiamo una meritata pausa perché l'idea di scendere il vajo sottostante non è una di quello che ti mettono allegria, specie ora che è totalmente bagnato ma, dopo aver sgranocchiato qualche nocciolina che porta un po' di ristoro allo stomaco, mettiamo mano al trapano e ai fix residui e ci avventuriamo verso il basso in corda doppia. Il canalone, coperto d'erba, è talmente bagnato che anche da legati non riusciamo a stare in piedi, si scivola ad ogni passo e solo le corde ci impediscono di scivolare rovinosamente di sotto. Dopo cinque calate nel canale finalmente raggiungiamo il sentiero col buio pesto; io tiro fuori la pila frontale che naturalmente si scarica appena accesa, così sono costretto a fare il sentiero alla luce del telefono. Arriviamo giù alla macchina all'ora di cena, giusti per andare a mangiare qualcosa di caldo. Ovviamente una giornata da manuale come quella vissuta non poteva non avere uno strascico tragicomico e infatti, in modo decisamente inaspettato, una volta inserite le chiavi nel quadro esso si accende come un albero di Natale per poi lasciarci nel buio più completo.
Meglio mantenere un decoroso riserbo su tutto ciò che accade dopo e sul rocambolesco rientro a casa, si lascia all'immaginazione del lettore.

E' il 2020 e arriva il Covid con le conseguenze ben note. In estate la situazione migliora un po' e, al 20 di agosto sono abbastanza allenato per poter tornare a chiudere i conti sulla piccola torre che tanto ci ha dando da penare. Questa volta è con noi anche Piero che con animo nobile ci da una mano col trasporto del ferramenta. Partiamo così nuovamente all'attacco salendo il solito canalone, carichi sotto un enorme peso tanto che sembriamo orsi marsicani appena usciti da un trenino (no, non il treno che viaggia sui binari) ma, citando Tolkien, in tre si è in compagnia.
Dopo un'ora e mezza di interminabile fatica, in cui il socio prende pure uno strappo muscolare per un movimento un po' troppo brusco col carico, arriviamo finalmente alla base della via pregando che sia l'ultima volta. Parto sui tiri già aperti e recupero il Bocia, Piero invece ci aspetta alla base. Ripercorro tutta la fessura della volta precedente e proseguo, decidendo di spostare la scomoda sosta precedente un po' più in alto, su una cengetta. Isso poi il compagno e mi avventuro su terreno gradinato che, malgrado l'enorme peso che mi opprime, riesco a salire senza troppe difficoltà trascinandomi fino alla base della cuspide finale. 
Nel frattempo il cielo si annuvola e scende un'altra stramaledetta volta la nebbia, peggio della  precedente: a questo giro non aspetta nemmeno ad infittirsi, diventa subito buio e pioviggina. Mi trovo davanti a un rebus: i due camini che vedevo dal basso sono occupati da due vie, una a me nota e l'altra nuova e di cui non sapevo l'esistenza e ovviamente non voglio né sovrapporre le mie idee e né sfruttare il lavoro altrui. Noto che tra le due vie c'è un pilastrino rigato da delle crepe, mi armo di pazienza e lo scalo a suon di friend fino a che non mi trovo davanti ad una placca compatta, di circa due metri. Si sta facendo tardi e non ho intenzione di rimanere lì a studiare un metodo ortodosso per superarla, la buco senza pietà e salgo sulla cresta sommitale, dove ritrovo i chiodi della via accanto che mi guidano in cima alla guglia. Ridiscendo dal Bocia che mi guarda con aria sofferente ma soddisfatta e per agevolarlo mi carico il sacco sulle spalle, poi entrambi ci caliamo di sotto da Piero. Ancora una volta rientriamo col buio pesto e un'umidità tale da sentirla entrare nelle ossa. Differentemente dal passato però, ora siamo tutti e tre rilassati e andiamo a festeggiare.

La via è dedicata proprio all'amico Piero Martin, che ci ha aiutati a portare a termine l'ascensione offrendo in sacrificio le sue spalle alla causa ed a Gregorio Mietto, uno degli istruttori della scuola di alpinismo della sezione CAI di Dolo, purtroppo scomparso di recente.


Torre del Tricorno sul Cornetto
La Torre del Tricorno


partenza della via Martin Mietto
In apertura

partenza della Martin Mietto
I soci in preparazione

secondo tiro della via Martin Mietto
La placca del secondo tiro vista dall'alto

uscita della via Martin Mietto
Il pilastro finale

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UNA GITA DOMENICALE

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