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mercoledì 3 agosto 2022

MARTIN MIETTO

V TORRE DEL TRICORNO

Via Martin-Mietto

E' estate, per la precisione l'estate del 2019 e ho voglia di arrampicare. 
Il Covid non è ancora arrivato; in quel momento nessuno immaginava ciò che sarebbe arrivato di lì a poco. 
Telefono al Bocia e gli propongo lo spigolo Soldà sul Cornetto, giusto per muoversi un po' e poi perché con quella via avevo un conto in sospeso. Lui accetta subito in quanto aveva già adocchiato l'itinerario e insieme ci dirigiamo al Pian delle Fugazze. 
Carichiamo il materiale sul groppone, niente pesi da schiavi questa volta e ci incamminiamo lungo il sentiero quando, d'un tratto, con la voce contrita di chi ha rotto la finestra e l'ha nascosta tirando la tenda, egli mi fa presente che ha un dolore ad un piede a causa di un'unghia incarnita. 
Per qualche breve istante sono perplesso, come qualcuno che inserisce i soldi nella macchinetta del caffè e riceve solo un bicchiere con lo zucchero, fisso a terra e poi mi guardo attorno: fa un caldo bestiale, neanche una nuvola e la via che dovremmo percorrere è esposta a sud. 
Non mi lamento, anzi mi sento sollevato perché il pensiero di non avere neanche un po' di nebbia a rinfrescarci mi rende un poco inquieto. Cambio velocemente programma e gli propongo la via nuova di un nostro amico sulle torri del Tricorno, con un avvicinamento decisamente più comodo e ombroso rispetto all'idea iniziale. 
Ci avviamo lentamente su per il canalone di attacco, che ovviamente non è né comodo e né ombroso, anzi è ripido, anzi potrei baciarlo se mi sporgessi un po' con le labbra, meglio: trasuda vapore dall'erba grassa. Dopo un'interminabile ora passata a sudare come reclute della Legione Straniera a causa dell'umidità penetrante, raggiungiamo la base della torre. 
L'amico Fritz guarda la torre dubbioso, non sa cosa fare, è bollito, si nasconde dietro l'unghia incarnita. Io la guardo, col pensiero di dover scendere lungo il canalone e di essere arrivato fin lì per nulla che mi punzecchia come una zanzara vicino all'orecchio, senza avere il coraggio di osare nemmeno qualche passaggio su roccia. 
Sono momenti in cui la nullafacenza si impadronisce di noi e mina fortemente la nostra volontà di agire.
Tutto d'un tratto, mentre confido nella contrazione dell'Universo per il ritorno alla macchina, noto che tra le vie esistenti su questa piccola torre c'è una porzione libera di roccia su una grande placca grigia e, visto che con me ho qualche chiodo, penso che si possa fare un tentativo di aprire una via nuova; la parete non è alta ma è molto estetica, piramidale, di roccia lavorata e verticale.
Convinco il socio con fatica, predicando come Gesù nel tempio, proprio ora che sta imitando alla perfezione Ramsete disteso tra i sassi;  mi lego e mi preparo a partire. 
I primi metri sono facili e non ho problemi a superarli. Subito dopo però il muro si impenna e mi ritrovo con la corda a penzoloni, completamente avvolto dalla nebbia, che nel frattempo è sopraggiunta, ai piedi di un camino gocciolante. Questo tratto è coperto da toppe erbose che con l'umidità sono diventate fangose e la roccia si presenta ovunque compatta. 
Con un po' di fatica riesco a piazzare un chiodo e a sbirciare un po' in avanti: non si vede nulla, a parte un unico e insondabile pallore grigiastro e, se la roccia della placca fosse troppo compatta, si necessiterebbe dei fix per assicurarci a dovere. 
Mi faccio calare fino al compare e torniamo verso il basse facendo il giro del gruppo di torri; in teoria la discesa sarebbe dovuta essere meglio, più percorsa, segnalata e veloce, rispetto al canalone salito all'andata. Ovviamente si rivela un incubo lungo un prato umido e spiovente da percorrere praticamente seduti, fatto che ci fa pensare che sia opportuno attrezzare una discesa lungo il canalone di andata e secondo, che l'autore della guida in cui ho trovato questa torre si diverta a mandare in malora le persone perché è giusto condividere le inchiappettate.

Passano due mesi e torniamo all'attacco: è Ottobre, il clima è più gradevole, la nebbia è più persistente ma perdura l'alta pressione e questa volta partiamo carichi di tutto il materiale necessario, ben decisi ad approfondire il tentativo. 
E' decisamente inutile dire che le bestemmie lungo il canalone di accesso escono dalle nostre fauci più volentieri della volta precedente ma sopportiamo stoicamente per la gloria. 
Arriviamo dopo una fatica da schiavi nella piantagione alla base della guglia e apparecchiamo il "campo base" e facciamo una piccola siesta. Mi riavvio lungo il pezzo percorso la volta precedente con l'artiglieria pesante già armata. 
Alla base del camino, che è bagnato e gocciolante anche questa volta se non di più, entra in azione un bel fix, poi mi innalzo lavorando bene di friend in una fessura e raggiungo un terrazzino alla base della grande placca. La roccia è compatta ovunque, dove pensavo ci fosse una bella clessidra ci sono invece solo due macchie nella roccia e mi sento contento di non aver insistito la volta precedente, perché avrei dovuto recuperare il Bocia e il materiale su un mughetto decisamente robusto, tanto da flettersi sotto il peso dei ragni. 
Piazzati due bei fix e apparecchiato il magro terrazzo recupero il Bocia che piano piano arriva, con calma, molta calma. 
Arriva, deposita il materiale e appollaia in posizione per farmi procedere oltre: la base della placca strapiomba, potrei traversare sulla destra lungo una cornice erbosa ma è un passaggio scomodo, oltre che umido. Sopra la sosta c'è una bella fessura perciò decido di affrontarla coi friend, compiendo un bel passaggio in artificiale, prima di piazzare un bel fix di sicurezza. Compare a questo punto una lama provvidenziale, invisibile dal basso, che mi porta verso destra con dei movimenti delicati (sono anche carico come un mulo) e mi fa scoprire una fessura che nella ricognizione precedente e nelle fotografie scattate non si vedeva affatto. E' una magnifica sorpresa!
Comincio a scalare la fessura, utilizzando i friend e le clessidre che vi trovo e innalzandomi lentamente; la roccia di fa sempre più umida e scivolosa a causa della nebbia, fino al punto di gocciolare; il lichene depositato sopra poi completa la goduria. 
Malgrado questo scalo la fessura un mezzo metro alla volta fino ad un magro gradino con una clessidra. La nebbia è talmente fitta da poter essere tangibile, addirittura mi palpa e la parete è completamente fradicia; a tratti pioviggina. Sono momentaneamente indeciso sul da farsi quando il Bocia mi chiama da sotto: è quasi notte! 
Non mi ero minimamente accorto dello scorrere del tempo, ho proceduto in avanti come una macchina, senza pensieri, concentrato solo sulla progressione. Piazzo un fix con l'intenzione di attrezzare una sosta assieme alla clessidra e mi faccio calare giù, poi entrambi rientriamo alla base della torre. Ci prendiamo una meritata pausa perché l'idea di scendere il vajo sottostante non è una di quello che ti mettono allegria, specie ora che è totalmente bagnato ma, dopo aver sgranocchiato qualche nocciolina che porta un po' di ristoro allo stomaco, mettiamo mano al trapano e ai fix residui e ci avventuriamo verso il basso in corda doppia. Il canalone, coperto d'erba, è talmente bagnato che anche da legati non riusciamo a stare in piedi, si scivola ad ogni passo e solo le corde ci impediscono di scivolare rovinosamente di sotto. Dopo cinque calate nel canale finalmente raggiungiamo il sentiero col buio pesto; io tiro fuori la pila frontale che naturalmente si scarica appena accesa, così sono costretto a fare il sentiero alla luce del telefono. Arriviamo giù alla macchina all'ora di cena, giusti per andare a mangiare qualcosa di caldo. Ovviamente una giornata da manuale come quella vissuta non poteva non avere uno strascico tragicomico e infatti, in modo decisamente inaspettato, una volta inserite le chiavi nel quadro esso si accende come un albero di Natale per poi lasciarci nel buio più completo.
Meglio mantenere un decoroso riserbo su tutto ciò che accade dopo e sul rocambolesco rientro a casa, si lascia all'immaginazione del lettore.

E' il 2020 e arriva il Covid con le conseguenze ben note. In estate la situazione migliora un po' e, al 20 di agosto sono abbastanza allenato per poter tornare a chiudere i conti sulla piccola torre che tanto ci ha dando da penare. Questa volta è con noi anche Piero che con animo nobile ci da una mano col trasporto del ferramenta. Partiamo così nuovamente all'attacco salendo il solito canalone, carichi sotto un enorme peso tanto che sembriamo orsi marsicani appena usciti da un trenino (no, non il treno che viaggia sui binari) ma, citando Tolkien, in tre si è in compagnia.
Dopo un'ora e mezza di interminabile fatica, in cui il socio prende pure uno strappo muscolare per un movimento un po' troppo brusco col carico, arriviamo finalmente alla base della via pregando che sia l'ultima volta. Parto sui tiri già aperti e recupero il Bocia, Piero invece ci aspetta alla base. Ripercorro tutta la fessura della volta precedente e proseguo, decidendo di spostare la scomoda sosta precedente un po' più in alto, su una cengetta. Isso poi il compagno e mi avventuro su terreno gradinato che, malgrado l'enorme peso che mi opprime, riesco a salire senza troppe difficoltà trascinandomi fino alla base della cuspide finale. 
Nel frattempo il cielo si annuvola e scende un'altra stramaledetta volta la nebbia, peggio della  precedente: a questo giro non aspetta nemmeno ad infittirsi, diventa subito buio e pioviggina. Mi trovo davanti a un rebus: i due camini che vedevo dal basso sono occupati da due vie, una a me nota e l'altra nuova e di cui non sapevo l'esistenza e ovviamente non voglio né sovrapporre le mie idee e né sfruttare il lavoro altrui. Noto che tra le due vie c'è un pilastrino rigato da delle crepe, mi armo di pazienza e lo scalo a suon di friend fino a che non mi trovo davanti ad una placca compatta, di circa due metri. Si sta facendo tardi e non ho intenzione di rimanere lì a studiare un metodo ortodosso per superarla, la buco senza pietà e salgo sulla cresta sommitale, dove ritrovo i chiodi della via accanto che mi guidano in cima alla guglia. Ridiscendo dal Bocia che mi guarda con aria sofferente ma soddisfatta e per agevolarlo mi carico il sacco sulle spalle, poi entrambi ci caliamo di sotto da Piero. Ancora una volta rientriamo col buio pesto e un'umidità tale da sentirla entrare nelle ossa. Differentemente dal passato però, ora siamo tutti e tre rilassati e andiamo a festeggiare.

La via è dedicata proprio all'amico Piero Martin, che ci ha aiutati a portare a termine l'ascensione offrendo in sacrificio le sue spalle alla causa ed a Gregorio Mietto, uno degli istruttori della scuola di alpinismo della sezione CAI di Dolo, purtroppo scomparso di recente.


Torre del Tricorno sul Cornetto
La Torre del Tricorno


partenza della via Martin Mietto
In apertura

partenza della Martin Mietto
I soci in preparazione

secondo tiro della via Martin Mietto
La placca del secondo tiro vista dall'alto

uscita della via Martin Mietto
Il pilastro finale

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