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giovedì 25 aprile 2024

UOMINI FRAGILI CONTRO IL TITANO - Nuova via a Collicello

 UOMINI FRAGILI CONTRO IL TITANO

Nuova via a Collicello


La conca di Cismòn del Grappa è dominata a ovest da una colossale parete a forma di anfiteatro che appare all'improvviso mentre si percorre la statale della Valsugana e che è così vicina ed aggettante alla strada che sembra voler schiacciare i passanti. I raggi del sole la toccano già dal primo mattino illuminandola di un fulgido colore dorato e inondando di riflesso anche la gelida vallata sottostante portando la speranza di un nuovo mattino.
Quando invece piove, le nuvole vi si accalcano sopra, malgrado la bassa quota, ciò a causa della corrente discendente del Canale del Brenta e l'acqua scurisce ancora di più le grigie rocce di cui è formata conferendole un aspetto assai tetro, quasi mortifero. 
Tale struttura rocciosa è la faccia più imponente di un'altura chiamata Col di Chiòr, un rilievo alquanto insignificante nella cerchia di gibbosità attorno a Enego, sul margine est dell'Altopiano di Asiago, ma circondata su tre lati da pareti che le attribuiscono una certa autonomia.
La parete in questione prende il nome da Collicello, un minuscolo paese che sorge ai suoi piedi e degno di nota nelle mappe solo grazie ad una cava di ghiaia e ad una centrale Enel. A prima vista il muro incute delle sensazioni contrastanti. Da un lato si provano la meraviglia e un senso di oppressione dovuto ai grandi strapiombi che la attraversano per tutta la sua lunghezza e che sembrano crollare da un momento all'altro (si vedrà in seguito che questa sensazione viene pienamente soddisfatta da Madre Natura, ironica e beffarda verso i comuni e flaccidi mortali). Dall'altro lato si ha una sensazione di bonarietà e di falsa sicurezza dovuta ai numerosi boschetti che la popolano e ne attenuano l'aspetto arcigno, regalando ai possibili avventori una sensazione di falsa pendenza e di facilità intrinseca che più che una realtà resta una pia illusione.

La Parete di Collicello (che per noi resta semplicemente IL Collicello) non poteva passare inosservata all'occhio avido del rocciatore nel corso della storia umana, data la sua vicinanza alla civiltà e il suo imporsi all'occhio dei viandanti che percorrono il Canale del Brenta, ma l'interesse per essa e, in generale per queste pareti di bassa quota, si svegliò solo tardivamente nell'alpinismo. Tali sfide infatti erano viste esclusivamente come allenamento in vista di imprese più degne di nota su montagne più alte e famose, anche se tanta tracotanza spesso finiva per schiantarsi come un treno al capolinea davanti alla nuda e cruda prova dei fatti. Infatti, mai sottovalutare una montagna giudicandola coi parametri puramente umani, inquinati dai nostri bisogni di riconoscimento, approvazione e prevaricazione di altri esseri umani; noi comuni mortali siamo solo dei fragili accidenti che camminano per un tempo troppo breve per poter giudicare qualcosa sensatamente e infatti spesso accade che le avventure più pazzesche le si vivano dietro casa (quando non proprio in casa), piuttosto che in qualche angolo sperduto del mondo.

Il primo tentativo di scalare la grande parete fu effettuato ormai quasi un secolo fa, nel 1935 o 1936, da parte di due coraggiosi alpinisti che segnalarono la loro presenza con delle bandierine. Allora tutto il paese si fermò e seguì l'impresa col fiato sospeso, compresi i bambini a scuola, tanto eccezionale fu l'avvenimento. Questi due impavidi uomini riuscirono nello sforzo di avere ragione del colosso tracciandovi un itinerario proprio al centro, dove la logica suggeriva di passare nella speranza di non trovare ostacoli insormontabili e così riuscirono a tracciare un itinerario così bello e grandioso che appena usciti dall'abisso corsero a nascondersi e della salita non se ne seppe più nulla!! 
Si venne a conoscenza solo in seguito che uno dei due probabilmente fu Ottorino Faccio, uno dei più attivi alpinisti vicentini dell'epoca, ma nulla emerse riguardo al compagno. La data precisa dell'ascensione e il tracciato restano tutt'ora ignoti (questa questione avrebbe dovuto essere un primo campanello d'allarme ma si sa, noi moderni, fighi e con le magliette tecniche e la tecnologia siamo meglio di quegli sgangherati del passato).
Passarono quasi trent'anni prima che qualcun altro tentasse nuovamente di scalare la bastionata e per un tracciato più indiretto ma più interessante dal punto di vista dell'arrampicata. Furono Carlo Zonta e Renzo Timillero a misurarsi col muro nel 1962 e scelsero il grande diedro che solca al centro la pala sinistra dell'anfiteatro, giallo e ben visibile dalla valle. Purtroppo al termine dello stesso si scontrarono contro una zona di grandi strapiombi friabili e vennero respinti ma da quel momento, intuite le enormi potenzialità della valle, cominciarono un'esplorazione sistematica delle pareti del Canale del Brenta e delle innumerevoli possibilità che esso poteva offrire. Zonta aprì infatti diverse vie nuove sulle pareti di Cismòn che tutt'oggi sono classiche molto apprezzate e Timillero tornò insieme ai fratelli Cappellari per una nuova ascensione sul Col Moltòn, molto impegnativa.
Trascorsero ancora degli anni prima di veder nascere finalmente una nuova e difficile via sul Collicello, questa volta ben documentata e divulgata anche sulle successive guide di arrampicata della zona. Ad aprirla furono Alberto Campanile ed Ezio Bassetto nel 1977 i quali scalarono la serie di diedri e camini che contornano una aguzza torre a destra del grande diedro sulla pala di sinistra, con un uso limitato di chiodi tradizionali e la battezzarono "Grande fessura-diedro". Sempre Campanile tornò due anni dopo con G. Brussa per salire anche la serie di diedri a destra del medesimo torrione realizzando "Putridi Liquami" (il nome chiarisce tutto e sarebbe dovuto essere il secondo campanello d'allarme ma anche qui la speranza è l'ultima a morire, magari sono stati sfortunati) che converge alla fine nella fessura-diedro. 
Dopo queste imprese notevoli per lo spirito d'iniziativa e per il coraggio richiesto calò nuovamente il silenzio dell'oblio fino al 1994 quando un giovane bassanese, Rinaldo Mion, cominciò ad esplorare da solo la grandiosa pala destra dell'anfiteatro. Andò avanti per quasi due anni a suon di tentativi, chiodi e chiodi a pressione, alla ricerca della roccia migliore e più sicura per arrampicare e spingendosi fino a due terzi di altezza quando, nell'estate del 1995, morì durante un'ascensione sul Piz di Sagròn. Furono gli amici a proseguire ciò che aveva iniziato calandosi dall'alto e ultimando la via fino alla cresta nel 1997, dando vita così alla "Via del Sol", lasciata completamente attrezzata per la ripetizione e la discesa a corde doppie.  Questo fu, per un po' di anni, l'unico itinerario discretamente ripetuto tanto da lasciare il ricordo agli abitanti di Collicello come di un'epoca d'oro, in cui delle cordate si avventuravano su per quei muri strapiombanti e lisci, spazzati dai sassi rotolanti oltre il bordo superiore. Dopo il boom iniziale però il pubblico cominciò ancora una volta a diminuire e l'oblio e il silenzio calarono di nuovo su Collicello e la sua parete, interrotti solo dalle scariche di sassi. Venni a sapere in seguito, conversando con altri frequentatori della valle che, oltre alla storia appena raccontata, diversi alpinisti provarono a scalare l'intero muro tramite degli itinerari più prettamente "sportivi", evitando lo sfacelo del grande imbuto centrale, ma vennero sistematicamente respinti da zone troppo compatte o troppo rotte al punto che la Parete di Collicello si guadagnò la dizione di "particolarmente insidiosa e temuta, con itinerari poco raccomandabili e molto friabili". Questo fino ad oggi.

La storia della nostra scalata è parecchio lunga e articolata e pertanto è divisa in capitoli a seconda dei momenti cui fanno riferimento:

CAPITOLO 1: L'INIZIO


L'inizio di questa epopea risale al 2017, anno in cui io e il Bocia cominciammo a frequentare più sistematicamente la Valsugana e ad arrampicare anche con Frank, personaggio di cui ho già parlato in precedenza. La tappa al Pescatore era d'obbligo (lo è tutt'ora) ad ogni visita in valle per riempire gli stomaci particolarmente vuoti e bisognosi, dopo una giornata di fatiche disumane che molto si avvicinavano (e si avvicinano tutt'ora) al sadomasochismo. Durante la permanenza sotto la tettoia del ristorante per la consueta siesta alla messicana, lo sguardo cadeva obbligatoriamente sulla grande muraglia a dirimpetto e fantasticavamo continuamente riguardo a come e dove poterci salire sopra, con lo stesso entusiasmo di coloro che oggi gridano "armiamoci per la libertà". Tale guizzo di giovanile baldanza veniva poi sistematicamente ucciso quando lo sguardo si posava inesorabilmente sulle zone più frantumate completando il motto in "armiamoci e partite!", così si finiva a parlare di svariati altri argomenti che oggi definiremmo "diversamente intelligenti", per nascondere la nostra codardia davanti al progetto. 
L'idea della via nuova venne definitivamente alla luce un pomeriggio per puro caso, come uno di quegli eventi sporadici e di poco conto, come trovarsi la fiancata della macchina rigata dal vicino di parcheggio ma a cui non si da peso perché i soldi li si vedono spesi meglio in alcol o in amor mercenario piuttosto che in riparazioni, fino al momento in cui il danno diviene catastrofico. Fu così che nacque il progetto, poco dopo aver bighellonato per un po' alla falesia del Covolo di Butistone ed esserci comodamente appollaiati nella veranda del bar. 
"Sai Bocia, se guardi quella striscia nera lassù tra i gialli, ecco là passa la Via del Sol, fa impressione - Si, proprio nel punto in cui dice 'roccia friabilissima, sabbia' - ma forse è più facile di quel che sembra, guarda le placche grigie a sinistra per esempio, sembrano belle compatte - sai che fatica chiodarle tutte? E dove le troviamo le corde da risalire? Già ci mettiamo delle ore a tirarci su per 10 m e tu vuoi andare su per quei grigi?! No, non ho voglia! - e che ne diresti invece di quell'avancorpo lì a destra? E' corto, lungo il giusto, breve avvicinamento, potrebbe avere successo - effettivamente questo è già più ragionevole, un giorno potremmo andare a guardare". 
Quel giorno arrivò poco tempo dopo con una telefonata del Bocia: "sai Vecio, ho telefonato a Frank per andare a vedere l'avancorpo del Collicello e ci sta, lui porta un po' di chiodi e poi vediamo il da farsi. Ci stai?" La mia risposta fu ovvia, dato che ero il genitore dell'idea. 
Era un Novembre assai caldo e col meteo stabile sul bello, io ero appena tornato da un lungo viaggio in Cina e quella era l'occasione per rimettere piede in montagna, tanto visti i ritmi che si avevano in apertura non c'era pericolo di incorrere in fatiche ingestibili.

Tutto cominciò il 13 Novembre. Ci trovammo tutti e tre al Pescatore di Cismòn e, dopo una comoda colazione, trangugiata con la calma di chi spera in un asteroide o nella separazione dei continenti per non avviarsi verso la fatica, ci avviammo a Collicello. Mentre eravamo intenti a preparare tutto il materiale per la scalata quasi avessimo svaligiato un negozio di ferramenta, una signora si appropinquò con fare supplichevole lasciandoci di stucco con una richiesta insolita: "non andate sulla parete, è friabilissima, cadono sempre sassi!! Noi qui del paese li sentiamo cadere giorno e notte. Fatemi la carità figlioli, non andate!" (terzo campanello d'allarme puntualmente ignorato!! D'altronde, LVI non torna indietro e sprattutto, molti nemici, molto onore!).
Noi ci guardammo inebetiti, completamente incapaci di rispondere tanto fu la sorpresa. "Va bene, grazie, adesso vediamo", fu l'unica frase politichese che uscì dalla bocca del Bocia mentre, quasi obbedendo ad un impulso tanto irrazionale quanto naturale, volgemmo le spalle alla povera donna e ci voltammo a contemplare il maestoso complesso roccioso che ci sovrastava, come se questo potesse dirci qualcosa, ah quali sciocchi! 
Continuammo i preparativi in silenzio, come se stessimo andando verso la forca e piano piano ci avviammo mesti alla ricerca di una traccia che attraversasse il bosco sopra il paese. Dopo un'ora di lotta coi rami, le spine e le ghiaie a grossi ciottoli che aspettano solo delle giovani caviglie da rompere e sgranocchiare, andando ovviamente tutti e tre per percorsi diversi perché ognuno riteneva di essere nel giusto e più furbo degli altri, arrivammo alla base delle rocce. Lì rinvenimmo un sentierino che portava dritto all'attacco della via di Rinaldo Mion, che ovviamente prima avevamo mancato finendo per fare una fatica del tutto inutile e insultando la Santissima Trinità ancora più inutilmente, e poco oltre esso conduceva all'avancorpo che avevamo visto dal ristorante.
La visione che ci si presentò innanzi era avvilente: ciò che da lontano sembrava roccia era invece un prato verticale, tutta la parete era completamente rivestita di erba, non c'era l'ombra di una fessura e i pochi punti di pietra nuda erano strapiombanti e di aspetto precario. Frank fece una smorfia schifata, il Bocia esibì la faccia di qualcuno a cui avevano rotto il giocattolo e tentò di prendere l'iniziativa provando a cercare un punto sano dove arrampicarsi, riuscendo solo ad assomigliare a un panda che rosicchia del bambù rinsecchito, mentre io li osservavo in silenzio. 
Frank girò i tacchi senza nemmeno pensare più di tanto, borbottando qualcosa riguardo al "prendere nel culo...soldi...macchina e benzina...secessione...", il Bocia tentò ancora invano di salvare la situazione buttando a terra lo zaino e facendo finta di arrampicare qualcosa mentre io mi incamminai deluso dietro il primo quando, volgendo lo sguardo verso destra venni come colpito da una folgore, anzi ebbi qualcosa come un'epifania ma senza i Re Magi e perciò sbottai: " e se invece di tornare cornuti e mazziati andassimo a vedere le placche grigie al centro della parete?". Frank si bloccò di colpo, mi guardò, poi guardò il Bocia e tornò a fissarmi, l'altro restò per un attimo interdetto, l'aria gelò all'istante e sentii che era un momento decisivo. Dopo alcuni secondi che sembrarono minuti, Frank aprì bocca per proferire la sua risposta, quasi come un vecchio pentium 1 al termine del tempo di caricamento: "dai, forse si può cavare fuori qualcosa di buono dalle grandi placche grigie, visto che siamo qui (le parole magiche) andiamo a vedere!". 
A volte le decisioni più importanti vengono prese nei momenti più innocenti e in preda alla più irresistibile irrazionalità, a sua volta sostenuta da un'ambizione di vanagloria alimentata unicamente da aspettative molto fantasiose, senza vere basi solide. E' un po' come l'effetto farfalla: un piccolo e insignificante evento mette in moto tutta una serie di fatti di dimensioni sempre più ampie e dalle conseguenze imprevedibili. Deve essere questo il motore delle azioni più significative dell'uomo o perlomeno lo fu quella volta: pur di salvare la giornata e di dare inizio ad un progetto che ci avrebbe, forse e in un lontano e ipotetico futuro, portato un po' di lustro mi inventai questa cosa delle placche senza minimamente curarmi di che cosa stavo cianciando e di che ci sarebbe toccato fare. Avrei avuto di che farci i conti in seguito.
Alla proposta uscitami in modo del tutto istintivo e solo ed esclusivamente per non sentirmi un essere inutile e attirare l'attenzione su me stesso, seguì una reazione del tutto inaspettata: senza battere ciglio sia il Bocia che Frank si avviarono verso l'alto nel bosco alla ricerca di un buon punto dove attaccare la parete, quasi fossero sotto ipnosi. Arrivati in vista del grande scivolo grigio al centro della pala destra la ricerca s'interruppe bruscamente davanti ad un impenetrabile muro di rovi. 
I rovi! I rovi, quanto odio quella specie di vegetali, hanno le spine più resistenti che si possa pretendere di avere in natura, si ergono a cancello naturale e notoriamente impenetrabile senza dover ricorrere a sistemi estremamente drastici, al limite del terrorismo, quali benzina, esplosivi, armi da taglio, ecc. Evidentemente l'Onnipotente deve averli progettati a difesa di territori particolarmente delicati e di specie darwinisticamente deboli, per porre un freno alle generali ambizioni della fauna, altrimenti non si spiega la loro tenacia ma anche la loro generosa produzione di frutti dolci e zuccherini come le more. Ma al di là dei progetti dell'Altissimo verso queste piante infestanti, io invece le detesto con tutto me stesso perché ogni volta significano solo alcol, bende, dolore e vestiti praticamente da buttare.
Ci fu un nuovo momento di esitazione e l'impresa era legata a un filo, anzi ad un fiato (nel senso di parola e non di rutto, che in questo momento così teso avrebbe svaccato l'ardimento ancora così fragile) che se fosse uscito in modo inopportuno avrebbe abortito l'impresa letteralmente strangolando l'infante nella culla. Ancora io intervenni a dare una svolta alla situazione: "attacchiamo per questo diedro qui, forse sopra c'è una cornicetta su cui traversare e aggirare tutta la foresta di rovi". Frank s'arrestò un attimo in religioso silenzio, anzi in elaborazione avanzata, scrutò il punto che avevo indicato e senza proferire parola posò a terra lo zaino. Era il segnale che la via nuova stava iniziando.

Con molta calma e pigrizia estraemmo tutto il materiale dallo zaino apparecchiando l'angolo di bosco in cui eravamo come se fosse un'officina e senza minimamente curarci di come l'avremmo rimesso nello zaino, confidando che ci rientrasse da solo con una canzoncina alla Mago Merlino, poi Frank esordì: "chi parte?". Silenzio di tomba. "Ho capito, parto io..." disse, seguito da qualche altro borbottio indecifrabile riguardo la carne da macello, la pavidità delle nuove generazioni e dei tempi andati in cui saltava i fossi con una gamba sola. Questa fu l'ultima discussione prima dell'esordio.
Frank cominciò a salire il diedro, un letamaio di terra ed erba impressionante ma che regalava qualche appiglio, al contrario dei muri lisci che lo circondavano su cui io e il Bocia ci specchiavamo per vedere i brufoli. A un paio di metri da terra passò un cordino attorno ad un arbusto e vi si appese un momento per pensare dove piazzare un buon chiodo. Mentre era indeciso sul da farsi, noi da sotto vedemmo della terra muoversi e colare piano piano: "Franco, occhio!!!!". In un attimo il povero arbusto si sfilò dalla sua misera sede, in silenzio, senza un rumore ne un addio ed egli capitombolò a terra seduto, con un tonfo sordo ma quasi soffice, come un sacco di patate. Dopo qualche istante in cui non sapemmo scegliere se ridere come dei cretini o preoccuparci seriamente, il Bocia ruppe il silenzio: "Franco, tutto bene? - ...Si!", per fortuna il voletto non ebbe conseguenze e l'uomo atterrò sul morbido. Frank ripartì più convinto "gorillando" il diedro e questa volta, senza nessuna esitazione, estrasse il trapano e piantò un chiodo a pressione, il primo di quella che sarebbe stata una lunga serie. 
Piantato il primo serio ancoraggio, Frank borbottò qualcosa di incomprensibile, una specie di grammelot circa lo schifo su cui stava salendo, il fatto che stesse rischiando l'osso sacro e che al diavolo l'alpinismo, adesso si buca, ma non si perse d'animo e continuò verso l'alto.
Chiodo dopo chiodo egli scalò tutto il diedro ed approntò una sosta su una cengetta erbosa oltre le cime degli alberi, in un punto in cui si poteva ben ammirare ciò che ci stava davanti: da questo punto, spostato a destra rispetto al centro, si poteva ammirare tutto l'anfiteatro come qualcosa di grandioso e con varie forme geometriche, sormontato da enormi strapiombi gialli friabili. Io e il Bocia ci arrampicammo lungo la corda e recuperammo in modo ignominioso il materiale (cacciato nei sacchi in modo randomico). Dopo che ci riunimmo tutti e tre sulla misera sosta, Frank ricominciò la salita lungo un diedro inclinato che presentava una faccia molto liscia: piantò un chiodo a pressione, poi un chiodo normale, poi un altro pressione e alla fine un fix e fu oltre l'ostacolo, sparendo poi alla nostra visuale. 
Il giorno volse rapidamente al termine e con la sua fine arrivò anche il freddo intenso (d'altronde era pur sempre Novembre), Frank fissò la corda fissa e ridiscese fino a noi, poi tutti insieme raccogliemmo gli stracci lasciando in loco il chiodame e scendemmo alla base. Il rientro nel bosco alla luce delle pile frontali fu veloce ma per un percorso diverso da quelli seguiti per salire ove non mancarono scivoloni, incertezze e un muro di sassi da saltare, giusto per non farsi mancare la suspense.
Come scrisse qualcuno vari millenni fa: fu sera e fu mattina, primo giro (la serie sarebbe stata incredibilmente lunga).

La parete di Collicello
Collicello

Primo diedro
Il primo orripilante diedro

Placche del Collicello
Proseguendo lungo la placca

CAPITOLO 2: AMBIZIONE E DISILLUSIONE


Passò una settimana e, visto il perdurare del bel tempo, io e Frank tornammo alla carica, questa volta il Bocia non poté essere dei nostri ma sarebbe venuto con noi in seguito. Arrivammo alla base molto più velocemente grazie al rinvenimento della vecchia traccia più battuta piuttosto che la lotto contro la verdura della volta precedente. Risalimmo la corda fissa alla prima sosta e proseguimmo lungo il tiro seguente. 
Per risalire la corda utilizzavo un metodo insegnatomi dagli speleologi che consisteva in una maniglia jumar e in un bloccante ventrale. Tale metodo l'ho descritto anche in un'altra occasione, ossia su Nostalgia dei Rossi Tramonti e consente di risparmiare una notevole fatica (vedi) se ben impiegato ma ricordo che a quel tempo, essendo troppo principiante, non avevo ben chiaro che la corda dovesse anche rimanere ben tesa per consentire al kroll, ossia tale ventrale, di scorrere adeguatamente; per di più non avevo chiuso l'attrezzo col moschettone di sicurezza onde evitare di rimanere incastrato in qualche giunzione, giustamente le stupidaggini bisogna farle fino infondo. 
A causa della natura obliqua della placca oltre la prima sosta, la corda su cui risalivo non voleva saperne di scorrere attraverso il kroll e per di più, appena oltre uno spigolo, essa uscì dal suo alloggiamento lasciandomi a dondolare unicamente sulla jumar, che fortunatamente avevo avuto il buon senso di chiudere in modo sicuro proprio in previsione di un'eventualità simile. Inutile dire che la salita fu dunque assai lenta e penosa e arrivai alla sosta sotto lo sguardo inquisitorio di Frank che mi aveva atteso spazientito su un terrazzo così pietoso che praticamente si era appesi come salami a stagionare. Non serve riportare tutte le critiche e i  punzecchiamenti vari che mi sono sciroppato durante questo momento, frutto avvelenato delle mie varie risatine della volta precedente e di cui subivo l'impietosa vendetta, tra cui l'ormai leggendario "dai, fai qualcosa!!!" dettomi dall'infingardo mentre fissavo inebetito l'ammasso di ferraglia da preparare prima della sua ripartenza. 
Frank ricominciò l'opera di chiodatura bifonchiando nel consueto modo ignoto ai più circa la nostra lentezza, il fatto che così ci metteremo anni, ecc., e si avviò forando lungo delle lisce torrette ammantate di erba al punto da sembrare bonarie ma su roccia che continuava a presentarsi compattissima, senza l'ombra di una crepa decente dove progredire più velocemente con attrezzatura tradizionale. Il suo progredire era estremamente lento e piano piano calò su di noi il buio della sera e con esso anche il freddo. Come la volta prima fissammo le corde e scendemmo alla base per tornare alla macchina con la pila frontale. Durante la discesa però, per l'urgenza di andare ad urinare, il socio legò le corde talmente strette da non permettermi di attarmici con nessun tipo di discensore e lasciandomi di fatto bloccato alla sosta, così si dovette cuccare anche la risalita fino alla giunzione per allentare un poco la morsa fatale e consentirmi di arrivare a terra possibilmente intero.
Non c'è due senza tre: passò un'altra settimana in cui il bel tempo permase e questa volta tornarono su in parete gli altri due soci, ossia Frank e il Bocia, io non potei essere della partita per motivi che assolutamente non mi ricordo. Scalarono la cresta oltre le torrette e cominciarono la lunga traversata sulle cornici che evita a sinistra dei grandi strapiombi gialli e porta verso il centro della parete, fermandosi in una conchetta erbosa. Dai racconti che mi giunsero so che cominciarono anche un lavoro di pulizia dei tiri appena aperti e che Frank decise di ritirare le corde in vista dell'inverno in quanto potevano essere utili da altre parti e che saremmo andati a rimetterle su in primavera. O almeno così credeva. E fu sera e fu mattina.

Si concluse così quella prima serie di tentativi portati avanti più con l'entusiasmo dei bambini davanti ad un mondo nuovo, invece che con il sano e dovuto pragmatismo, lasciando al futuro le eventuali decisioni da prendere, giusto perché nessuno voleva essere quello che ci faceva per primo la figura del disfattista. Durante l'inverno cominciarono a presentarsi anche i primi dubbi su ciò che stavamo facendo: la risalita sulle corde si allungava ad ogni ripresa e tutti e tre eravamo ben consci che sarebbe prima o poi arrivato il momento in cui essa sarebbe divenuta insostenibile, sia per la fatica che per i tempi richiesti, inoltre la parete era sempre e costantemente compatta e sporca di erba e terra in modo veramente vomitevole, il che avrebbe richiesto sempre tempi di attrezzatura molto lunghi, con progressi sempre più miseri fino ad arrivare ai bivacchi, inevitabili quando il tempo a disposizione è troppo poco. 
Venne infine la vita, con i suoi alti e bassi fatti di gioie e dolori, la volontà scomparve e le ambizioni si fusero coi sogni, con gli alibi dei "vorrei ma non posso", col disprezzo del "c'è di meglio da fare" come la volpe con l'uva. Fu così che il nostro tentativo cadde nel dimenticatoio. 
E' il destino che riserba questa parete: all'inizio il contatto con la sua roccia monolitica e squadrata infiamma l'animo e regala l'illusione di potervi tracciare sopra qualcosa di artistico, poi il terreno mostra la sua vera natura infida, fatta di frane, terra e fatiche disumane, il sogno si infrange come un'onda contro il frangiflutti e si esaurisce come un fuoco di paglia. Questo fu esattamente ciò che accadde anche a noi e infatti arrivammo a decidere di lasciare perdere il progetto senza mai ammetterlo sul serio, voltandoci dall'altra parte ogni volta che passavamo attraverso la Valsugana. Solo allora compresi come mai solo tre itinerari erano stati portati a termine là sopra (escludendo il primissimo di cui non si sa nulla) e poi tanti tentativi finirono in un nulla di fatto.
Era finita!
Non avevamo ancora iniziato a fare sul serio che era già finita!
Quel giorno di primavera che avevamo preventivato di ricominciare non arrivò mai e non ne parlammo più. Solo io ogni tanto facevo vagare il pensiero ancora lungo quei muri lisci immaginando come sarebbe stato l'ipotetico proseguimento dell'itinerario e se alla fine avrebbe potuto portare qualche soddisfazione ma lasciai stare di dirlo ai compagni. Passarono gli anni e la vita continuò come prima; venne anche la pandemia di Covid e poi il lento ritorno alla quotidianità, fino ad arrivare al presente.
Non so dire se ci sia del determinismo nel Cosmo tale da poterlo chiamare destino, o se sia semplicemente il rifiuto del caos da parte dell'uomo, che cerca schemi ovunque, fatto sta che una piccola serie di eventi rimisero in moto il meccanismo e si tornò improvvisamente a parlare della Parete di Collicello.

Furono due gli eventi scatenanti la ripresa del cantiere. Il primo fu frutto di una circostanza fortuita: mi trovavo a Cismòn con Moreno che in quell'occasione aveva portato con sé il drone e ci mettemmo a fare una ripresa amatoriale della parete percorrendo la Via del Sol quando mi venne in mente del tentativo che quattro anni prima avevo effettuato con Frank e il Bocia e pensai di illustrarlo al compare. Fu allora che l'occhio volante del drone cadde su una robusta cornice erbosa che proveniva dal cuore della parete e vi si inoltrava fino ad una quota abbastanza sopraelevata rispetto al punto massimo raggiunto. Sopra di essa si levava un grande pilastro grigio fatto di diedri che portava dritto al centro del muro, abbastanza vicino all'uscita della via adiacente, che avrebbe potuto costituire una buona conclusione del nostro progetto. Per un po' non dissi nulla e mi limitai a studiare le foto scattate dal velivolo.
Il secondo evento fu una conversazione che ebbi con l'accademico Francesco Leardi, chiodatore di numerose belle vie in valle che mi confidò che si stavano facendo avanti dei pretendenti per la parete tra cui uno che aveva già cominciato a chiodare un tratto nuovo ma che stava procedendo molto lentamente. 
Eh no! Passi far fronte a grandi difficoltà logistiche ma farci soffiare anche il progetto proprio no!! Se esiste davvero qualcuno disposto a fare tutta quella fatica, anche noi dobbiamo "uscire" gli attributi!!
Mandai le foto con le mie considerazioni a Frank e gli dissi che adesso non eravamo più soli ad interessarci a quel posto ma ottenni una risposta assai vaga. Passò altro tempo la vita andò avanti come prima fino all'autunno quando ricevetti una telefonata: "Andiamo al Collicello a vedere la cengia?". Il dado era tratto, si ricominciava e questa volta con l'intenzione di portare a termine l'impresa, costasse quel che costasse. Era Ottobre 2021 e ne avremmo affrontate delle belle da lì in avanti.

CAPITOLO 3: TERRA IGNOTA

E' il 16 Ottobre ed io e Frank ci troviamo al parcheggio ampio e deserto a Collicello, la Valsugana è immersa nell'ombra del primo mattino e fa freddo, anche se non così tanto da essere insopportabile. Ci prepariamo in silenzio e carichiamo sulle spalle il pesante fardello, poi ci incamminiamo su per il bosco. Procediamo lentamente arrancando su per quel ripido e maledetto bosco disseminato di ciottoli ammazza-caviglie che si stende alla base della parete, incespicando continuamente anche in rifiuti di ogni genere che mi fanno dubitare del futuro della razza umana, compresa una bomba rimasta lì dalla Grande Guerra. Alcune bestemmie e circa un'ora dopo, ci accostiamo alla parete alla ricerca di un punto d'accesso alla famosa cornice. Sfortunatamente la parete al di sotto della stessa è verticale e compatta. Non ci diamo per vinti e proseguiamo nella ricerca quando Frank si imbatte in un cono di deiezione molto grosso, formato di ghiaia finissima; ci tocca risalirlo con le mani nella terra per non franare giù ad ogni passo e con fatica ne guadagniamo la cima, alla base di un canale a forma di imbuto, nessuno ha una seppur vaga idea di quanta roba riesca a scaricare la parete, sembra quasi che produca detriti con una catena di montaggio.
Ovviamente, quando si tratta di queste lande, la visione che ci si presenta innanzi non è affatto delle più convincenti: il canale è molto ripido e formato da un paio di ampi balzi levigati che mostrano i segni di un mitragliamento di sassi continuo, come testimoniato dal conoide. Le pareti laterali sono invece completamente rivestite di terra e rami, giusto per non farsi mancare nulla e sotto i rami ci sono possenti strapiombi. Il lato positivo è che accanto alla canaletta c'è una piccola alcova riparata in cui ci si può appostare a riprendere fiato e dove si può lasciare la roba inutile per il proseguimento della salita. 
Tiriamo fuori le corde e Frank si lega pronto a partire e carico come un Antonov al decollo all'aeroporto di Vladivostok, si alza lungo il primo salto per circa un metro e si blocca, barcollando pericolosamente sotto l'enorme peso del sacco: "mi sono incrodato! - Sai, forse potresti dare a me il saccone mentre io ti do il mio zaino più leggero - Non è una cattiva idea, solo che non riesco a scendere! - Tieniti stretto e metti il piede qui, su questa sporgenza a forma di zoccolo di gnu (cit.) - ...!". Mentre la celebre scena di Aldo, Giovanni e Giacomo era palesemente un'invenzione comica con la sguaiatezza tipica del teatro, la nostra è invece assolutamente genuina.
Con qualche patema d'animo, soprattutto per la mia colonna vertebrale dato che mi sarebbe piombato addosso come un sacco di patate, l'amico riguadagna il terreno, ci scambiamo gli zaini e ricomincia a salire, inerpicandosi bestemmiando nella verdura molto fitta. 
Qualche minuto dopo, superato il primo balzo roccioso, Frank commette l'ingenuità di appoggiare il piede in una specie di polla proprio al centro della condotta, quello che provoca è addirittura sproporzionato rispetto alla piccolezza di tale gesto innocente: al primo contatto, pure leggiero, della suola della scarpa col terreno, si solleva un'onda di sassi che andavano da una briciola di pane a un pugno, di tali proporzioni che con la tavola adatta si sarebbe potuta surfare e che precipita a cascata proprio nella mia direzione. Fortunatamente, io mi trovo riparato nell'alcova ma qualche briciola dal rimbalzo creativo non manca di farmi il solletico. 
Questo è il primo assaggio della nuda e cruda verità e si disvela ciò che prima era celato sotto l'apparenza di quei bonari boschetti che adornano il muro: ognuno di questi è un enorme cumulo di macerie, tenute insieme dalle radici degli alberi e pronte a franare al minimo disturbo. Solo adesso capisco perché novant'anni prima gli scalatori si guardarono bene dal divulgare la loro impresa: essi salirono in un punto ben peggiore del nostro, dove il naturale scivolamento degli strati rocciosi e boscosi porta a valle di tutto. Con le attrezzature dell'epoca la loro impresa doveva essere stata quasi suicida.
Frank raggiunge una specie di pianoro in cui mi recupera cercando di fare meno danni possibile mentre io salendo, carico come uno sherpa, smuovo così tanto terreno da arrivare a toccare lo strato geologico dei dinosauri. Riprendiamo la salita su un pendio di erba verticale, lottando contro la terra smossa che vuole portarci inesorabilmente giù, i rami secchi e traditori e ancora stramaledetti sassi, finché raggiungiamo la tanto agognata cornice che poi è un boschetto talmente pendente che gli alberi abbarbicativi sopra hanno avuto un condono per occupazione abusiva di suolo.
Pausa per tirare fiato. 
Cominciamo la traversata verso destra portandoci a ridosso delle rocce e varcando diverse colate di fango e detriti, di cui una in particolare costituisce lo scarico principale della parete superiore; ovunque intorno a noi si sentono i rumori di pietre rotolanti ma la nostra cengia rimane abbastanza indenne dal bombardamento grazie a grandi strapiombi. Al volgere del sole a ponente e con l'ombra avanzante sulla parete arriviamo ad una splendida e piatta cornice di soffice erba che costituisce una piccola oasi nel bel mezzo di un mare di placche grigie e verticali, in posizione panoramica esattamente davanti a Cismòn. Siamo ben al di sopra del punto massimo raggiunto anni prima e alla base del grande pilastro che si eleva rassicurante sopra le nostre teste. 
A questo punto bisogna fare una precisazione: sebbene tutta la parete sia ben visibile da sotto e si possa fare un'accurata stima della sua lunghezza, delle difficoltà e della qualità della roccia, quando ci si trova impegnati in un qualche punto di essa tutto appare distorto e si stenta a riconoscere il luogo, salvo aiutarsi con pochi punti di riferimento. La prospettiva, quando un muro roccioso cambia spesso pendenza, è poi un altro grave problema che può indurre ad errori grossolani. Dal nostro punto di vista il pilastro sembra decisamente più corto che dal basso, nulla di più che una sessantina di metri e lo si potrebbe scalare tutto con un paio di filate di corda. Questa visione mi lascia quasi un senso di delusione, dal basso sembrava chissà che e invece questa scalata si sta rivelando normale amministrazione; meglio, faremo in sveltezza a finire il lavoro. Questo abbaglio è così mendace in tutti e due che anche nelle riprese successive continueremo ad illuderci di essere quasi arrivati, ci vorranno infatti mesi prima di arrivare sulla cima di quel pilastro ma per il momento preferiamo far finta di non vedere. Frank piazza la sosta, deposita il materiale e torniamo da dove siamo venuti fissando le corde per agevolarci il passaggio nelle risalite successive.
Fu sera e fu mattina, comincia il vero assedio.

Durante la settimana Frank ha un giorno libero e così ne approfitta per andare a tirare altre corde fisse ed assicurare bene il nostro passaggio in cengia, poi si cala in esplorazione nel tratto sottostante la cornice alla ricerca del punto massimo raggiunto nei tentativi precedenti. Lo trova e recupera il materiale abbandonato anni prima ancora in buono stato. Il fine settimana entrambi siamo nuovamente sul Collicello e questa volta calo il socio oltre il bordo a chiodare la placca stratificata strapiombante. Lo recupero e poi cominciamo a studiare un modo per salire la parete difronte a noi. Sulla destra si intravede un diedro dove potrebbero andare dei chiodi e dove la roccia è un po' più pulita, tutt'intorno sembra di scalare in un prato. Frank comincia lentamente a salire, un chiodo qua, un friend là, poi re-inizia la solita sequenza di buchi. Niente da fare, di salire in modo tradizionale non se ne parla proprio, ovunque la roccia è compatta e la terra copre completamente ogni buco o fessura, così la progressione resta molto lenta. La prospettiva della montagna è così falsata da questo punto che nessuno dei due si accorge di quanta strada effettivamente stiamo coprendo e infatti poco dopo ci troviamo a litigare per il passaggio del materiale in quanto il nostro cordino di collegamento si sfila completamente; nemmeno ci siamo resi conto di aver coperto già quaranta metri, eppure pare di essere a portata di mano. Scende la nebbia e con essa il freddo, Frank fissa la corda e scende da me dove aveva lasciato il vestiario, con il moccio gelato penzolante dal naso. Caliamo rapidamente lungo le corde fisse mentre ormai sopraggiunge la notte.
Nei giorni seguenti passa una perturbazione che porta la neve e rovina i nostri piani, però mi lascio convincere dall'uomo che si potrebbe andare a fare un po' di pulizia dei tiri appena aperti. Non mi sento del tutto convinto però non ho di meglio da fare e così vado. Quando arrivo mi sembra di essere sull'Eiger: tutte le cenge sono coperte da un soffice manto nevoso che rende tutto molto natalizio. L'incanto svanisce quando le suole degli scarponi si riempiono di fango e non riescono a fare presa su niente, è un vero supplizio muovercisi sopra. Come se non bastasse il tempo è splendido e caldo e la neve inizia a sciogliersi rapidamente aumentando di molto il ritmo e il volume delle scariche. Mentre attraverso la cengia sento fischiare dei bolidi non lontano da me ma che per fortuna rimbalzano lontano dalla parete, poi guardo verso la fine della cornice dove il compagno è indaffarato a sistemare gli attrezzi senza nessun turbamento d'animo, non vede una pietra squadrata delle dimensioni di un comodino che rimbalza sulla destra e si perde nell'abisso senza il benché minimo rumore, salvo poi produrre un fragoroso schianto una volta arrivata a terra. Lo raggiungo, lo ragguaglio circa la mia esperienza mistica che viene accolta con scetticismo e mi preparo alla pulizia mentre lui prosegue verso l'alto sistemando le corde fisse. Ad un tratto, mentre sono lì che mi sto legando addosso gli attrezzi da disgaggio, mi si presenta una visione apocalittica: l'intero impluvio che si apre tra gli strapiombi collassa travolgendo anche la cengia superiore e precipita formando una gigantesca cascata di neve che si dirige proprio verso di noi.
"Francoooo, valangaaaaaa!!" grido al compare mentre mi acquatto contro la roccia, "ma dove vedi la valanga?" mi risponde laconico mentre prosegue imperturbabile con i suoi mestieri. Passano alcuni istanti ed effettivamente non succede nulla, alzo la testa e vedo che la cascata di neve e roccia si è ridotta ad una nuvola di minuscoli cristalli di ghiaccio evanescente, seguita dal solito crepitio nei canali che ci circondano adesso fattosi molto intenso; noi ci troviamo fortunatamente su uno spigolo e questo fende il flusso di detriti che precipitano a valle. Verrò a sapere solo in seguito che il socio aveva ben visto tutto ma si era ineluttabilmente arreso al suo destino, quindi perché preoccuparsi?
L'ora è tarda e il terreno è umido così andiamo avanti nella pulizia dei tratti appena chiodati, zappata dopo zappata, uscendone fuori completamente ricoperti di fango e con alcune zolle che non vogliono saperne di staccarsi. Rientriamo alla macchina quando è ormai notte e il freddo penetra decisamente nelle ossa facendoci sbattere violentemente i denti. 
Quando andiamo a sgranocchiare qualcosa al ristorante, spaventando i presenti al nostro ingresso per le orrende e mefitiche condizioni in cui ci presentiamo, discutiamo sul da farsi: la via sta procedendo lentamente ma con continuità, dal punto in cui siamo sembra che la parete sia un po' più corta di come appare dal Pescatore e Frank è addirittura galvanizzato, pensa che sia conveniente a questo punto calarsi dall'alto e preparare l'uscita per poi risalire chiodando dal basso, bivaccare e finire la via in due giorni. Io mi sento molto meno ottimista perché ogni volta che mettiamo le mani sulla roccia la prospettiva ci trae in inganno e ci troviamo a compiere filate su filate di corda per coprire un tratto all'apparenza ridicolo.
Ad ogni modo è durante questa serata, dopo una dose opportuna di birra perché in condizioni di sanità mentale un'idea tanto balzana non mi sarebbe venuta nemmeno con impegno, che mi viene in mente di suggerire l'uscita dalla parete per il grande camino che si apre un po' a sinistra, in quanto, sebbene lo guardassi con orrore le prime volte che ci avventuravamo lungo il muro, durante tutta la giornata non ci avevo visto cadere nulla  e potevo scrutarne la roccia abbastanza compatta che ne formava le pareti. Frank mi ascolta attentamente e poi esce con "mah, si può andare a vedere!", quindi ci avviamo rispettivamente alle nostre dimore rimuginando su quanto avevo suggerito e a quanto lavoro ci aspettasse ancora per poter raggiungere l'uscita e lasciarci finalmente alle spalle quel postaccio, dopo tutta la fatica che ci stava costando.

Esplorazione della cengia del Collicello
Durante l'esplorazione della cengia che si immette nella parete

Fine della parte bassa della via
Terminando la parte bassa della via

Primo tiro del pilastro
Comincia la salita del Grande Pilastro

Diedro sul pilastro
Dopo rocce facili lo spigolo si raddrizza formando un lungo diedro

Eiger in Valsugana
L'Eiger in Valsugana

CAPITOLO 4: IL CERCHIO SI STRINGE

Passano le festività natalizie e anche il Covid che nel frattempo mi busco e che mi costringe a stare un mese in casa tra febbre e mal di gola. Appena le energie mi consentono movimenti un po' più articolati dell'alzata di penna dalla scrivania, perché l'alzata di "bandiera" è un'ambizione momentaneamente arrognate, accompagno Frank al Collicello per andare ad esplorare l'uscita. Sono convinto che questa sortita sia decisamente prematura perché il nostro punto massimo raggiungo è ancora molto basso ma il compagno insiste e perciò andiamo in avanscoperta. Esaminando le vedute del satellite su Google riesco ad individuare il punto in cui dobbiamo parcheggiare la macchina e cominciare la discesa e, dopo qualche peripezia dovuta al ghiaccio lungo la strada raggiungiamo tale posto. E' un angolino soleggiato e panoramico, quasi idilliaco, il boschetto che fiancheggia la strada non lascia minimamente presagire quale abisso si spalanchi solo qualche metro più in basso. Ci prepariamo per la discesa, il sole ci scalda leggermente quando, intirizziti dal freddo, ci avviamo giù lungo un crinale boscoso. All'improvviso Frank gira a destra saltando come un gazzellone tra un albero e un altro con la stessa fiducia che si ripone nell'aspirina come rimedio universale, mentre io arranco lottando con le frasche e scivolando nel fango fino a una provvidenziale cornice di radici che si affaccia su un orrido canale melmoso. 
Fidandomi del sesto senso del compare, srotolo la corda e comincio a calarlo da un gruppo di alberi ben robusti. Durante la discesa mi giungono solo grugniti e imprecazioni a causa di una certa paretina rotta e friabile che tende a frantumarsi sotto le scarpe del socio, poi segue il silenzio e la sua definitiva sparizione alla vista. Dopo qualche istante mi giunge un urlo selvaggio che mi richiama verso il basso: "è quiiiii! Beccata al primo colpooooo!". Scendo di gran carriera per raggiungerlo e appena oltre la paretina mi si spalanca davanti al naso l'ennesima visione apocalittica: siamo giusti sul ciglio dei grandi strapiombi gialli, sotto di noi si spalanca la conca di Cismòn ancora immersa nell'ombra del mattino mentre una corrente d'aria gelida fa vorticare delle foglie secche nel vuoto, così vuoto e profondo da spaventare Satana in persona. Frank prepara la sosta e blocca le corde, io sistemo il materiale da scalata in ordine di utilizzo, poi ricomincio a calarlo oltre l'orlo della parete e subito sento ricominciare le imprecazioni mentre partono i primi tonfi di materiale fragile che si stacca dalla sua millenaria sede. La pulizia va avanti per un po' mentre io manovro la corda scaldandomi al sole come una lucertola. Mentre sono tranquillo e appollaiato sul mio trespolo, sento una bestemmia abbastanza chiara e sonora: la corda è finita e non arriva a toccare una cornice comoda che offre un misero approdo sopra un abisso nauseante. Non abbiamo altre corde, non pensavamo di avere tanta fortuna già al primo colpo e il canale che abbiamo disceso ce l'ha mangiata quasi tutta perché non siamo stati abbastanza parsimoniosi. Frank finisce di armeggiare le lastre rotte e pianta qualche chiodo, poi risale, insieme facciamo pulizia nella nicchia e ci avviamo a tornare indietro. Ricomincia tutta la trafila dell'andirivieni, con la differenza che questa volta il rientro è tutto in salita.
Passano alcuni giorni e il tempo si mantiene al bello, quindi torniamo nella parte alta e ci caliamo nuovamente per la corda lasciata, io porto una corda da 80 m che do a Frank che si cala prima di me, stende meglio quella che avevamo già piazzato e prosegue nella discesa. Con la corda risparmiata riesce a scendere fino alla cornicetta individuata la volta precedente e mi gracchia di pulire la paretina della volta scorsa.
Scendo anche io, armato di spazzola e togliendo la terra secca dalle impronte delle lastre appena mollate verso il vuoto. L'accademico ovviamente ha da ridire sulla mia pulizia, malgrado stia mangiando la polvere a fette con tanto di vermi ricchi di proteine, ma lui vuole specchiarsi sulla roccia; io protesto ma poi abbandono l'intento e mi limito a fare lo yes-man lasciando a lui l'incombenza di spazzolare ancora quando torneremo su. Ricomincio a calare l'uomo dalla sosta, il quale si avvia con circospezione lungo una stretta cengetta verso lo sbocco del camino, pianta un chiodo a pressione e ricomincia la calata nell'imbuto. 
E' a questo punto che entrambi, concentrati sulle nostre semplici ma importanti azioni, commettiamo un errore fatale che avrebbe potuto potenzialmente essere il nostro ultimo sbaglio, ma non ce ne rendiamo conto perché le conseguenze si sarebbero manifestate solo in un futuro ancora lontano. Quando scendiamo non prendiamo troppo seriamente il disgaggio dei camini che apparentemente non presentano inconvenienti troppo gravi, a parte un paio di lastre che il socio provvede a buttare di sotto con un certo chiasso. Questa leggerezza si ripercuoterà sulla conclusione della via perché la conformazione della roccia a lamelle e strati molto sottili di questa parte alta fa si che ciò che appare solido in verità non lo sia affatto e dopo qualche colpetto si distacchi rovinosamente (ovviamente vale anche l'opposto, zone completamente frantumate che però resistono ad ogni tentativo di disgaggio).
Per il momento non ce ne curiamo e proseguiamo nei lavori e grazie alla mia corda di 80 m possiamo tranquillamente dividerci i settori da chiodare. Io mi dedico ad attrezzare il grande camino giallo e strapiombante mentre Frank scende a quello sottostante. A parte un certo stress ricavato dalla sensazione di muovermi sulle uova e dalla presa di coscienza di un paio di blocchi di grosse dimensioni attaccati alla parete non si sa bene come, la giornata prosegue senza intoppi, eccetto le enormi frane provocate dal compagno che più in basso cercava di liberare un orrendo imbuto dai sassi ammucchiati.
Al termine della giornata ci re-issiamo sulle corde e le recuperiamo, Frank è convinto che la via si finirà salendo dal basso e che per ora sia sufficiente quanto fatto per consentirci l'uscita. Io protesto ancora perché vista la fatica sarebbe conveniente scendere ancora un po' e cercare di capire come sia la situazione più in basso sulla cengia rossa ma è inutile. I miei timori si riveleranno invece più che fondati.
E fu sera e fu mattina, altra sezione terminata.

Nel frattempo passa l'estate e il caldo soffocante che rende impossibile anche solo pensare di avvicinarsi a Collicello e arriva un nuovo autunno. Io e Frank siamo nuovamente alla base della parete e attacchiamo le vecchie corde fisse, sembrano in buono stato e ci portiamo nuovamente al punto massimo raggiunto dal basso l'anno precedente. Raggiungo il socio alla sosta, piuttosto stretta e scomoda e riordino il bagaglio prima di lasciarlo proseguire. Per fortuna dal punto in cui siamo la parete perde un po' di verticalità e ci portiamo sotto una grande lama dopo una discreta lotta con l'erba. Alla partenza avevo portato un friend grosso pensando proprio alla fessura di quella lama ma l'amico fritz ha insistito per lasciarlo giù: "occupa solo spazio ed è anche un peso. Io non lo uso quasi mai quel friend!". Al momento di attaccare la crepa Frank mi guarda e mi chiede: "non è che hai portato quel friend, vero? - Mi hai detto che non lo usi quasi mai!!! - Eh, boh, uff, sempre colpa mia adesso...(segue una serie di altre bifonchiate incomprensibili circa i giovani che non sono mai pronti e tocca agli anziani sobbarcarsi tutti gli oneri)" e si alza grazie ad una pianta secca che offre l'appoggio giusto giusto per piantare un chiodo. Poco sopra raggiunge la cima della lama triangolare e prosegue in una specie di svasatura piena di erba sparendo alla mia vista. Il tempo peggiora, scende la nebbia e il rumore del Brenta, tumultuoso in questo tratto, unito a quello della tangenziale della Valsugana, mi impedisce di sentire qualunque suono proveniente dal compagno. Ogni tanto vedo un breve avanzamento della corda che mantengo ragionevolmente tesa per ogni evenienza, testimonianza dell'avanzamento della via. All'improvviso, mentre sono immerso nei miei pensieri, impegnato a lottare contro l'umidità che mi penetra profondamente nelle ossa, un urlo disperato riecheggia tutto intorno a me. Sento un leggero strattone alla corda e istintivamente mi abbasso per fare da contrappeso, poi torna la calma. Alzo lo sguardo a destra e vedo i piedi di Frank a penzoloni poco oltre la lama, apparentemente immobili. Lo chiamo per capire cosa sia successo e per fortuna mi risponde subito con una bestemmia. 
Va tutto bene! Il volo è stato corto e provocato da un ciuffetto d'erba scivoloso, il chiodo che lo sorreggeva ha tenuto ma nella caduta ha perso il martello. Poco male, gli invio su il mazzotto che teniamo di scorta e riprende la salita. 
Dopo un po' comincia ad imbrunire e sento il richiamo di partenza. Gli grido che convenga che leghi la corda e mi raggiunga perché ora che salgo si fa notte fonda, ma lui insiste. Lo avviso che ci vorrà un po' e che sicuramente verrà buio, nel tentativo di far prevalere la ragione e il pragmatismo, oltre che la mia pigrizia, ma insiste ancora. Risalgo la corda compiendo alcune acrobazie per superare un tratto molto liscio e raggiungo il compagno in una nicchia talmente stretta che un individuo è già una folla e tale incontinenza irrita i padroni a otto zampe del pagliaio che la ostruisce, i quali cercano rifugio tra le pieghe dei nostri abiti. Quando arrivo Frank è nervoso, comprensibilmente per il suo martello nuovo che è finito per sempre nel dirupo e perché ci ho messo troppo nel risalire il "corto" e "facile" tiretto di corda appena fatto, poco importa se arrampico con 20 kg di roba sul groppone. Non so che altre intenzioni avesse visto che il tratto che ci sovrasta è letteralmente uno sfacelo e siamo in ottobre ma, contagiato dalla concitazione, lo mando allegramente a quel paese, gli mollo la roba e me ne torno di sotto. 
Arrivo alla macchina nel buio più completo e poco dopo, mentre mi sto cambiando, sono raggiunto anche da Frank, il quale fa bellamente finta di nulla di quanto appena successo. Meglio così, non ho intenzione di litigare per futili motivi e mi dimentico l'episodio, così andiamo a cena a discutere su come proseguire la via. 
I nostri progressi sono continui ma molto lenti, in totale abbiamo superato nemmeno una cinquantina di metri in un intero giorno in parete e la strada davanti a noi è ancora molta. Capisco che così non può andare avanti e allora adotto una soluzione ingegneristica al problema. D'ora in avanti ci suddivideremo rigidamente il lavoro da fare e porteremo avanti la via con un piano industriale: Frank abita vicino ed è sempre il primo ad arrivare e perciò si porterà trapano e batterie per proseguire la chiodatura, io arrivo per secondo e mi dedico alla pulizia e al disgaggio, poi coinvolgiamo ancora una volta il Bocia perché faccia la sicura e si dedichi alla bassa manovalanza della sosta.

La settimana successiva il tempo è splendido e siamo tutti e tre in parete. Frank è già alto quando io e il Bocia arriviamo e ci avviamo lungo il sentiero che porta alle corde fisse. Arrivati alla grande cengia, estraggo il mio materiale da giardinaggio estremo e lascio che il compare raggiunga il primo di cordata in attesa al punto massimo raggiunto la volta precedente, mentre io lo seguo lentamente. Molto lentamente, infatti il Bocia risale le corde fisse così piano che non c'è pericolo che si stanchi. Per ammazzare il tempo comincio il disgaggio delle placche erbose appena sopra la cengia.
Dopo un bel po' di lavoro in cui il tratto di parete passato ha mutato d'aspetto, finalmente i due compagni sono riuniti nella piccola nicchia del pilastro ed io posso dedicarmi maggiormente alla pulizia con tranquillità. Tutto fila liscio fino al termine della giornata ed ho ripulito, diserbato e spazzolato una settantina di metri che adesso sembrano diventati una parete di montagna, contrariamente a quando li abbiamo saliti la prima volta. In cambio io sembro uscito da una miniera di carbone e a casa devo bruscarmi anche posti che non immaginavo di avere a causa della terra secca che è penetrata ovunque.
Le riprese successive funzionano esattamente alla stessa maniera, Frank procede verso l'alto di chiodo in chiodo, io lo segue e disgaggio e spazzolo anche i tiri già fatti per mantenere il pulito, il Bocia ci fornisce la corda per continuare ad attrezzare la parete. 
Al termine di un estenuante cantiere in cui ormai abbiamo raggiunto i limiti della sopportazione, finalmente riusciamo a terminare tutto il grande pilastro e una parte del grande specchio di placche grigie, ripulendo tutto il percorso da sassi, erba e terra e rendendolo una bellissima arrampicata su roccia spettacolare, eccezionalmente solida e lavorata.
Resta da ripulire i vecchi tiri al di sotto della grande cengia, perciò io e Frank riposizioniamo le corde al di sotto della stessa e cominciamo il lavoro di disgaggio. Nelle nostre previsioni dovrebbe essere un affare abbastanza veloce in quanto parte della pulizia era stata effettuata già qualche anno prima. Inutile dire che invece richiede ben quattro riprese in cui buttiamo di sotto delle vere e proprie lavatrici nascoste dall'erba, senza contare l'industriale quantità di erba presente. In una di queste, tra l'altro, una sassata danneggia seriamente una delle corde fisse e per calarmi sono costretto a passare lo spezzone di corda ancora buono negli ancoraggi e a scendere con molta circospezione. Giunto in sosta dopo una discesa eterna estraggo il coltello e moltiplico la corda in tre cordicine più corte.
Al termine dell'impressionante lavoro di pulizia, finalmente possiamo dire di aver chiuso il conto con la parte bassa e che ormai la parete aveva i giorni contati, ne avremo sicuramente avuto ragione in autunno.

Guardando dalla cima del Collicello verso Cismon
Affacciandosi sulla grande parete

Scorcio dal grande camino terminale
Il grande camino terminale

Il grande camino
Sempre nel grande camino

La lama triangolare
Scalando la lama triangolare

CAPITOLO 5: LA FINE

Ritorna l'autunno e siamo ormai nel 2023, sei anni dopo l'inizio del cantiere sul Collicello. E' un giorno di ottobre ancora caldo e io e il Bocia ci caliamo a portare il materiale alla base del grande camino terminale e a posizionare le corde fisse che ci consentiranno la ripresa dei lavori. La grande sfida adesso è trovare un percorso che vinca la grande fascia stratificata posta esattamente al centro del muro, a sostegno dei grandi strapiombi gialli.
La giornata procede senza intoppi fino al momento della risalita delle corde fisse quando, per un mio errore di valutazione, ci troviamo a risalire la fune che sfrega paurosamente contro uno spigolo molto tagliente, di selce viva. 
Sale per primo il Bocia ed è quando si dondola nello strapiombo che mi accorgo del problema perché avrei dovuto fare un passaggio in più nei chiodi. Lo guardo risalire sudando freddo ma tutto fila liscio, per fortuna. Viene il mio turno e salgo trattenendo il fiato, a piccole bracciate, osservando come la corda si comporta nel punto in cui tocca la parete; sono molto delicato nei movimento e, alla prima occasione, punto i piedi contro la parete rocciosa per cercare di allontanare la fune da quel maledetto spigolo. Raggiungo il punto incriminato e vedo con mio grande sollievo che il danno è minimo, fortunatamente ho posizionato una corda dinamica che è molto più resistente di quelle statiche da speleologia, in situazioni di questo tipo, anche se più faticosa da risalire e così tutto fila liscio.
Arrivato a casa avverto Frank del problema e gli dico di sacrificare un fix per frazionare la corda proprio in quel punto ed evitare il ripresentarsi del problema. In quel periodo l'amico ha parecchio tempo a disposizione, così concordiamo che andrà a continuare la via calandosi dall'alto. Io invece, a parte il classico fine settimana, non riesco a raggiungerlo e, ma chissà perché, è proprio il momento in cui lui non può (o non vuole). 
Frank continua la discesa oltre il punto massimo raggiunto nel 2022 e ingaggia una lotta senza quartiere con una quantità spropositata di macigni di dimensioni che variano da comodini ad utilitarie, al punto che al paese di Collicello gli abitanti cominciano a domandarsi se sulla montagna non si stia per staccare qualcosa di veramente grosso e tendono le orecchie allarmati. Fortunatamente la pulizia finisce giusto prima che qualcuno cominci a pensare di ficcanasare più seriamente. La parete rivela dunque la vera e più grave insidia che ha respinto tutti i tentativi precedenti al nostro e che ha spinto anche Ottorino Faccio a tenere la bocca chiusa sulla scalata appena fatta: il basamento dei grandi gialli è una sorta di castello di blocchi enormi pronti a cadere al minimo disturbo, al punto di rendere la parete inscalabile senza un consistente lavoro di disgaggio. Tutti gli altri si sono tenuti infatti dove gli alberi e le piante abbondano ma dove siamo noi siamo in aperta parete.
Malgrado ciò, dopo un po' di scavatura, emerge un substrato solido e la via può continuare ad avere uno sviluppo. 

Arriva il giorno fatidico, il 17 Dicembre 2023, un giorno che resterà nella storia alpinistica della Valsugana. Per l'occasione riesco a mettere nuovamente insieme tutti e tre i componenti di questa avventura e alla mattina presto, malgrado il freddo invernale, siamo in discesa lungo le corde fisse; il primo a scendere è Frank che ci precede di circa una mezz'ora abitando più vicino, io sono il secondo e da ultimo scende il Bocia; tutti e tre ci siamo suddivisi i compiti e le zone di pulizia. Dopo un po' raggiungo Frank che sta armeggiando le corde lungo una cengia e mi do da fare a ripulire i diedri che l'ultima volta ha sgombrato dai macigni; il Bocia resta più in alto a ripulire l'uscita. 
Scendo lungo i diedri e arrivo sopra il più basso di noi tre che vedo indaffarato ad armeggiare qualcosa e a parlare a se stesso facendosi dei discorsi di un certo spessore filosofico ma che a me restano oscuri. Mentre mi sto dando da fare rimuovendo i soliti quintali di fango ed erba sento Frank che bifonchia qualcosa: la sua corda si è incagliata e deve ripercorrere tutta la cengia per liberarla per poi tornare indietro a tappe in modo che la corda non si impigli ancora. Mi dice che forse la corda basterà a effettuare la congiunzione ma sarà un lavoro lungo. Io gli do la mia benedizione e proseguo col lavoro fiducioso che questa volta riesca a fare un miracolo.
Durante la pulizia le ore volano senza che me ne accorga e in men che non si dica arriva il momento di rientrare, anche perché adesso bisogna rifare tutto il percorso in salita ed è lunga, oltre alla stanchezza accumulata durante il giorno. Telefono al Bocia e gli dico di avviarsi mentre io completo la pulizia dell'ultimo diedro poi chiedo a Frank come sta andando la chiodatura; sulle prime non mi risponde e così percorro un tratto di cengia sgombrandola dai sassi e dall'erba e mi avvicino alla sua verticale. Quando gli sono sopra sento un grido. Rispondo gridando a mia volta ma mi giungono solo dei suoni indistinti. Mi intestardisco e telefono al socio più in basso: la via è finita, la congiunzione è stata fatta!!!
Mi sento esaltato, la grande via è finita finalmente, il Collicello ha finalmente ceduto ed ora sulla grande parete c'è una nuova via moderna, ripulita e arrampicabile, la più lunga dell'intera valle. Frank mi dice che userà fino all'ultima luce e l'ultimo sussulto delle batterie per completare la chiodatura del tiro di congiunzione, il quale si rivela ancora una volta assai difficile e su placche lisce; io lo avviso che comincio la risalita, in quanto più lento e intanto ho ripulito tutto quello che mi spettava. Così mi avvio con lena lungo le funi, lui mi raggiungerà dopo.
Risalgo faticosamente ma con ritmo costante le corde fisse fino a tornare alla cengia rossa sotto i grandi strapiombi gialli. Quando comincio ad inerpicarmi sul tratto successivo vengo mancato per un pelo da una grossa scarica di sassi che mi rimbalza davanti al naso e sparisce nell'abisso; mi sporgo e vedo che il Bocia deve ancora cominciare la risalita del grande camino e che, come al solito, sta anche arrivando il buio. Cosa diavolo ci fa ancora lì?! Finché non si butta nel vuoto non posso risalire il tratto sovrastante o correrei il rischio di beccarmi qualcosa sulla testa così mi appiattisco alla parete e aspetto, aspetto e aspetto ancora. Ormai l'oscurità sta avanzando e scrutando verso l'alto vedo il compagno che finalmente è alla giunzione delle corde all'inizio del tratto nel vuoto. Mi rendo conto in quei momenti di quanto fessi siamo stati a non aver ripulito in modo certosino i tratti rotti e sassosi che restano una minaccia costante durante la risalita. Ricomincio finalmente a salire di buona lena, cercando di recuperare un po' del tempo perduto ma, quando sono a metà della placca sottostante i camini, sento improvvisamente un crepitio che mi avvisa che sta per arrivare una scarica di detriti. 
Sono in trappola!!! 
Mi rendo conto che non ho scampo ma per fortuna sono ad un frazionamento e mi aggancio ad un chiodo. Arrivano i sassi saltando dal bordo della placca e mi centrano in pieno. All'inizio sono piccoli frammenti ma la scarica è lunga e aumenta di intensità. 
Mentre sono sotto i detriti mi salgono istantaneamente le parole di Heinrich Harrer da "il ragno bianco", quando lui si trovò in una situazione simile e raccontò di essersi gettato a terra rannicchiato e con lo zaino sulla testa cercando di cogliere la pressione esercitata dalla frana su di lui per poi spostarsi. Faccio altrettanto, esponendo il casco ai sassi e rimanendo piatto. Per fortuna i ciottoli che mi colpiscono sono piuttosto piccoli e mi danno solo dei pizzicotti, un solo frammento delle dimensioni di un cellulare rimbalza lontano da me. 
Sono scosso, mi tremano le mani ma reagisco velocemente e riprendo a salire con foga per cavarmi da quella brutta posizione e nel frattempo avverto il sopraggiunto Frank che sta proprio sotto di me di aspettare che passi il punto incriminato.
Mentre sono a metà strada tra due frazionamenti arriva all'improvviso una seconda scarica, più forte della prima. Sono in una situazione ben peggiore di prima in quanto non ho nessun ancoraggio vicino e se la corda si tranciasse sarebbe la fine. Fortunatamente sono coi piedi su un gradino e trovo una bella presa sotto le mani, così mi aggrappo con forza e mi rannicchio a palla esponendo nuovamente il casco e stando col corpo totalmente adagiato alla parete. Questa volta sento dei bei tonfi sulla testa, regalatimi da dei sassi delle dimensioni di pugni che però arrivano con poca forza, avendo rimbalzato più volte contro la roccia. Uno di questi mi procura un bel bozzo sul casco ma senza nessun altro danno e per fortuna la corda non viene nemmeno sfiorata. Ho così tanta adrenalina che il cuore quasi mi scoppia e risalgo quasi a braccia il pezzo di corda rimanente che mi porta proprio sotto il camino; sfortunatamente Frank non è fausto come il sottoscritto e un sasso mosso dalle corde lo centra dritto sulla gamba. A parte un urlo e un accidente però se la cava senza danni. Io lo lascio passare perché è più veloce e leggiero di noialtri e col Bocia ancora incastrato nell'apertura del camino devo attendere ancora. Estraggo la pila frontale e comincio la risalita del tratto strapiombante che supero momentaneamente senza incidenti, poi, mentre sono incastrato nel camino aspettando che il Bocia si ristabilisca sul terrazzo soprastante, questi fa cadere un sasso delle dimensioni di un libro di matematica con un movimento poco accorto e mi colpisce la gamba procurandomi un profondo taglio. Brucia tantissimo e sanguina ma stringo i denti e proseguo la risalita uscendo finalmente fuori da quell'inferno traballante. Quando arrivo sulla cengetta sotto l'ultimo salto il Bocia mi dice che ha avuto un sacco di problemi nella risalita perché le maniglie scorrevano poco sulla corda e aveva continui incagliamenti delle staffe sotto i piedi; non gli presto tanta attenzione, l'unica cosa che mi preme è di arrivare alla macchina posta sopra di noi.
Ormai è notte e l'unica cosa che si vede è ciò che entra nel fascio della mia pila frontale, Frank è già uscito dalla via e si è avviato a cena, il Bocia procede davanti a me nella mia luce perché ha dimenticato la sua torcia, così continuiamo a salire lentamente nel canalone finale nel buio più completo, con altre scariche di sassi ma per fortuna senza incidenti troppo seri.
Arriviamo alla macchina a notte ormai inoltrata, sporchi, affamati e gelati fino alle ossa ma abbiamo portato a termine una grande impresa, su una parete difficile, pericolosa, immensa e particolarmente sporca di terra ed erba ma siamo finalmente felici di aver chiuso i conti. Abbiamo deciso di chiamare questa grande via "gli eroi di Chernobyl" in quanto siamo stati un po' liquidatori nel salirla, dopo l'immane disgaggio che ci è costata, e siamo stati anche eroici a cacciarci in quell'incubo verticale di sassi rotolanti e scaglie malferme, dedicandola al contempo a tutti quelli che hanno svolto il loro lavoro in situazioni ben più critiche della nostra (che alla fine siamo andati a cercarci).
Mentre ci stiamo cambiando alla macchina, ancora increduli di esserne usciti vivi arriva una telefonata di Frank: "ma ci siete? Io avrei una certa fame...!"


Lo specchio dall'alto
L'ultimo tratto della grande placca

Diedro dei macigni
Il famigerato diedro coi macigni

Camini finali
I camini finali

Camino strapiombante
Risalendo il camino strapiombante


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