- Comme le vent in la minore;
- En Rhytme Molossique in Re minore;
- Scherzo diabolico in Sol minore;
- Sinfonia, movimento I in Do minore;
- Sinfonia, movimento II in Fa minore, Marcia Funebre;
- Sinfonia, movimento III in Sib minore;
- Sinfonia, movimento IV in Mib minore;
- Concerto, movimento I, in Sol# minore;
- Concerto, movimento II, in Do# minore;
- Concerto, movimento III, in Fa# minore;
- Ouverture, in Si minore;
- Le Festin d’Aesope; in Mi minore.
Nel seguito ne darò una descrizione e un’analisi più qualitativa, senza soffermarmi più di tanto sull’armonia, ritmi, ecc., a causa delle imponenti dimensioni dei pezzi e del fatto che sia il Concerto che le Festin d’Aesope sarà bene trattarli a parte per la loro grande complessità. Sottolineo questo malgrado ci sia stato qualcuno che abbia cercato di sminuirli proponendo un’analisi schenkeriana di tali componimenti dimostrando di non aver capito assolutamente nulla di musica.
N.B. Per chi non lo sapesse, Schenker è stato un compositore e musicologo austriaco che ha proposto un tipo di analisi in più livelli di gerarchia dei brani musicali e basandosi sull'armonia, partendo dal livello più basso, le note stesse, fino alla suprema visione del pezzo intero che si può ridurre in linea di massima alla sequenza mi-re-do, vagamente I-V-I (Ursatz). Già uno che avanza una pretesa del genere, applicata a musica come la Nona di Beethoven, si qualifica da solo!
Da principio non avrebbe tutti i torti, almeno in teoria, ma tale analisi può dirsi adeguata solo a musica del XVIII secolo classica e a pochi lavori del Romanticismo e comunque tutti assolutamente nell’ambito tonale. Già Bach non sarebbe del tutto inquadrabile in tale tipo di analisi a causa dello sviluppo prevalentemente orizzontale della sua musica, figurarsi la musica dopo la metà del XIX secolo in cui si perde un po’ la centralità della tonalità come riferimento.
Un’altra nota va fatta riguardo ai famigerati metronomi, che forse è la cosa più importante da dover sottolineare e puntualizzare. Le indicazioni di tempo dei metronomi segnati a intestazione dei pezzi erano una moda dovuta all’invenzione del metronomo, nemmeno tanto antecedente ad Alkan, da parte di Maelzel (1816) e che ancora non aveva avuto larghissima diffusione, malgrado l’entusiasmo suscitato all’inizio. Beethoven per esempio dedicò un movimento della Sinfonia 8 (il secondo) proprio al metronomo, che finalmente poneva fine alle innumerevoli possibili interpretazioni delle agogiche “ad personam”. Dopo tale entusiasmo iniziale però i compositori tornarono alle vecchie abitudini di concedere libertà agli interpreti e di segnare le agogiche come da tradizione, anche perché si scatenò una corsa alla “tacca più alta” nella velocità dei pezzi (che continua ancora oggi in modo illogico e decisamente fastidioso, producendo effetti fisarmonica decisamente patetici quando il pezzo diviene insostenibile al pianista) culminante nei tempi irrealizzabili di Carl Czerny, specie se si considera che scrisse studi di tecnica per i principianti. Durante gli anni delle esibizioni, ossia grossomodo dall’op.1 all’op.33, Alkan non ha segnato metronomi, ad eccezione de “Le chemin de fer” op.27 che reca un tempo irrealizzabile e che il pianista Wolfgang Weller ha supposto essere frutto di un errore di stampa. I metronomi appaiono in tutte le composizioni pubblicate durante gli anni del ritiro per poi sparire gradualmente durante le riapparizioni in pubblico durante i Petits concerts alla sala Erard quando il maestro era ormai vecchio. Non sono giunti fino a noi manoscritti degli studi ma solo le prime (peraltro uniche) edizioni, le quali sono poi passate tra le mani di Delaborde, un pianista probabile figlio illegittimo di Alkan. Non sono quindi possibili confronti per capire quali fossero le reali intenzioni del compositore. Da questi fatti e dall’osservazione che tali velocità folli siano segnate anche in pezzi per organo e nella Grande Sonata per violoncello e pianoforte, con tutte le considerazioni relative, si può dedurre che esse abbiano poca attinenza con la musica e che possano tranquillamente essere ignorate senza rovinare la musica, che invece ne guadagna in comunicazione.
Fatte le necessarie premesse possiamo ora passare ad esaminare la suite di studi.
1) Comme le vent
E’ il primo studio, in La minore e il titolo, “come il vento” rimanda probabilmente all’effetto creato dal flusso di note rapidissimo e costante, effetto che dovrebbe rimandare al rumore che produce il vento quando soffia in spazi ristretti o viene tagliato dalla cresta di un'altura.
La misura del pezzo è di 2/16, decisamente originale, “Prestissimamente”, con le note del flusso scritte in terzine di biscrome (tre tagli) e semibiscrome (quattro tagli) che rimangono sempre molto veloci rispetto alla pulsazione di riferimento. Si tratta uno studio per le cinque dita, ovvero per mettere alla prova le proprie capacità di articolare bene le dita senza scomporre la mano, focalizzando tutta l’attenzione solo ed esclusivamente sul moto. Il tempo rapidissimo, quasi irrealizzabile di 160 la croma (6-8 note entro due battiti) vorrebbe spingere il pianista a cercare di raggiungere la velocità di 16 note al secondo per creare il cosiddetto effetto scia in cui l’orecchio non è più in grado di dividere i suoni e percepirli singolarmente. Purtroppo tale effetto era possibile sui pianoforti del XIX secolo a causa della minor corsa dei martelli e dello scarso abbassamento del tasto (questo ovviamente a scapito della potenza sonora dello strumento) ma al giorno d’oggi non è più possibile a causa del cambio di struttura (maggiore affondo, maggior tempo di corsa, cassa di risonanza più grande). L’effetto voluto però non è perduto, è possibile ricrearlo con una combinazione di buon legato, pedale e tocco leggero alla mano sinistra onde risaltare il flusso di note che mima il vento.
Lo studio è costruito in una forma molto libera, che vagamente ricalca quella di una romanza in tre grandi macro-sezioni A-B-A’ all’interno delle quali si succedono vari episodi, sporadici e senza soluzione di continuità. La scrittura è ridotta al minimo indispensabile per perseguire sia l’effetto inerente al titolo che quello di esercizio vero e proprio ed è formata da una melodia fioritissima di gradi della scala di La minore, accompagnata da accordi sincopati alla mano sinistra, staccati e molto leggeri che completano l’armonia. La suddivisione in episodi di ogni sezione della forma è data dai cambi del gesto che, come detto prima, sono sporadici, ossia compaiono una volta sola nel corso della composizione e poi non tornano più.
Lo studio è strutturato come segue:
A)Il tema viene enunciato nelle prime 16 battute, tutto in La minore e basato unicamente sui gradi della scala, a queste battute ne seguono altre 16 di risposta e poi ritornello. Questa fase di proposta del tema viene conclusa con una ripetizione del tema variato e concluso in dominante (totale 60 btt.). L’esposizione potrebbe dirsi conclusa qui anche se nel seguito entrerà un secondo tema, evoluto dall’accompagnamento che verrà riesposto anche nella breve ripresa finale.
Incipit dello studio
Ripetizione del tema appena variata
B)Sezione lunghissima, episodica, costruita a partire dai pochi elementi precedenti. Comincia con un inserto a brevi glissati, scritti in semibiscrome, che obbliga a chiudere le dita quasi insieme (btt. 81-84) a cui risponde una lunga sequenza di simil-trilli che sviluppa l’idea esposta nel tema ed esaurisce completamente le possibilità offerte dall’idea, terminando in Do maggiore (btt. 85-169) prima di lasciare il posto ad un nuovo episodio.
I glissati
Ingresso del secondo tema, ripreso alla fine
Questo trae spunto dall’accompagnamento in accordi del tema, contrasta con esso e passa le pulsazioni rapide alla mano sinistra, interrompendo il flusso ogni tanto con accordi potenti e staccati. Tra le btt. 257-292 viene presentata una lunga sospensione sul VI abbassato di Do (Lab) che verrà ripetuta anche nella ripresa e che costituisce una sorta di secondo tema del pezzo, anche se non ne svolge prettamente la funzione.
La sospensione
Ciò che accade da qui in avanti è un vero e proprio sviluppo nel senso stretto del termine, circa 200 battute in cui i gesti compiuti fino ad adesso vengono ricombinati tra di loro ottenendo episodi di grande virtuosismo, tra cui la comparsa di un ulteriore canto all’acuto, in mezzo al marasma (btt.354-408) degli arpeggi derivato dagli intervalli fondamentali del tema, ma del tutto estemporaneo. Tutta la sezione viene conclusa da una grande cadenza (btt. 464-495).
Comparsa della melodia
A’) Ripresa effettiva col ritorno del primo tema che, essendo stato ripetuto e sviscerato molte volte nel corso della sezione precedente non riappare come una vera novità. Infatti questa ripresa è molto corta e ripresenta il primo tema subito seguito dal secondo, quella lunga sospensione sul VI abbassato che ora è riportata in tonica e che conferisce alla sezione un’atmosfera di inesorabile conclusione prima della volata finale a mani riunite. Da notare che nelle ultime battute Alkan cerca di creare un effetto di rallentamento con accordi prima in rapida successione e poi sempre più diradati lasciando alla fine solo il silenzio.
Lo studio è un esempio di grande padronanza della tecnica del pianoforte ma anche dei suoi mezzi espressivi per poter accostare un linguaggio astratto come quello sonoro della musica, ad una immagine concreta come quella del vento che solleva mulinelli di polvere, questo in barba a quei sapientoni che affermano come questi pezzi abbiano scarso valore musicale, dimostrando una profonda e ben radicata ignoranza.
Esiste poi una possibile interpretazione teologica di questo studio, anche se sfortunatamente gli scritti del compositore riguardo i suoi studi delle Scritture sono andati irrimediabilmente perduti eccetto qualche frammento (tra cui Superflumina Babylonis) e quindi non è pervenuto nessun commento o spiegazione al riguardo. Nella gematria ebraica il n. 1 (Aleph) è associato a Dio che nelle sue manifestazioni, le Teofanie, si presenta come una serie di fenomeni che solitamente sono preceduti dal vento (celebre il caso di Elia che si copre il volto all’arrivo della brezza leggera perché in essa aveva riconosciuto il Signore). Dunque la raccolta dei 12 studi op. 39, che costituisce anche la suite più corposa composta da Alkan, si apre con l’arrivo di Dio come vento da cui poi scaturisce tutto il seguito. Infatti, guardando bene anche il seguito, gli altri studi sono il risultato di un processo iterativo che assomma di volta in volta tutti i gesti, le tecniche e le stesse sezioni che vengono via via introdotti, fino a convergere nella summa finale, Le festin d’Esope. Purtroppo altro non si può dire e tutto questo resta una speculazione perché, come detto prima, l’autore non ha lasciato nulla di scritto a spiegazione delle sue scelte (però da uno studioso ortodosso delle Scritture e della Qaballah mi aspetterei riferimenti di questo tipo).
2) En rhytme molossique
Il secondo pezzo, in Re minore, è uno studio più complesso del precedente che mira all’esercizio delle mani su accordi e ottave, senza però mettere da parte ciò che si era studiato in precedenza; infatti una lunga parte della composizione è accompagnata da un disegno di quartine di semicrome che altro non sono che gli stessi accordi arpeggiati, da eseguire ben sgranati, chiari e a tempo.
Il titolo dello studio è ambiguo, o meglio cela un doppio senso che permetterebbe di leggere il brano anche sotto una luce più ironica e divertente (anche se questo humor farebbe ridere solo il compositore). “En Rhytme molossique” può essere letto sia in modo colto, ossia come il riferimento alla metrica greca in cui il molosso è il piede di tre sillabe lunghe (- - -), il che descriverebbe la lampante scelta ritmica con cui il brano è scritto; oppure il titolo può essere un riferimento ironico ai molossoidi, ossia agli alani, quindi tutta la parte di accordi sarebbe una presa in giro dell’andatura di questi grandi cani. Un’interpretazione non esclude l’altra.
La struttura di questo brano è meno articolata rispetto al precedente e ricalca la forma-sonata con i classici due temi di cui il primo è quello massiccio (btt. 1-29), costituito da accordi e ottave in Re minore, il secondo è leggero in quartine all’acuto (btt.106-117).
Inizio e primo tema
Nel mezzo vi è una zona di sviluppo del primo tema in cui il compositore gioca sull’idea iniziale introducendo una melodia e obbligando il pianista a lavorare bene col 4° e 5° dito. Tale melodia è una sorta di anticipazione del vero secondo tema con le quartine di semicrome in cui il lavoro di articolazione diventa più difficile e faticoso.
Secondo tema
Segue un breve sviluppo (btt. 118-137) in cui i due gesti si sovrappongono e proseguono nella ripresa (btt. 138-175) a cui poi segue una lunga coda (btt.176-fine).
Il molosso a cui si fa riferimento nel titolo non è subito così evidente ed è costituito dai due gruppi di quattro crome con la fermata in semiminima nel mezzo (ritmo del pezzo: - > -) ma può essere letto anche all’interno della battuta come un insieme di 3 minime (il tempo usato è il 6/4). Il metronomo segnato nell’intestazione è del tutto fuorviante perché raggruppa le tre minime in una sola pulsazione peraltro molto veloce e non permette di mettere in chiaro rilievo il ritmo ternario incastrato in una suddivisione binaria (ambiguità che viene sfruttata più volte nel corso del brano). Ho sentito pianisti sforzarsi oltre ogni misura (in modo lodevole devo dire) per riuscire a mantenere rigoroso il tempo segnato col risultato che hanno mimato più la riscossa dei Russi contro Napoleone che un ritmo molosso (e ancora meno l’andatura del cane). Ritengo che questi sforzi, se anche abbiano un senso tecnico, siano del tutto inutili dal punto di vista della comunicazione musicale e della ricerca di un significato del pezzo. L’agogica segnata è “Risoluto”, il che significa che l’esecuzione deve essere agevole ma con moderazione e robustezza, quasi fosse un discorso accorato dal pulpito, con sonorità ben piena.
Per concludere, l’armonia del brano è, al contrario dello studio precedente, abbastanza convenzionale ed è basata su molte progressioni, fatto abbastanza insolito nel romanticismo (in verità, nella prefazione della Grande Sonata op. 33, Alkan stesso scrive di come il suo linguaggio sia di diretta derivazione dal classicismo e in particolare da Beethoven). Anche in questo studio ricompare squillante il Do maggiore (btt.90 e seguenti), estemporaneo, lontano dalla tonalità del momento (Re maggiore) e su accordi robusti, quasi a citazione dello studio n. 1 in cui tale tonalità creava un intero episodio (e qui il processo iterativo, questo Do maggiore così sfacciatamente dichiarato ricomparirà tante volte nel corso della suite) e nelle stesse progressioni si possono sentire le soluzioni armoniche già usate in precedenza, come a creare un ciclo che qui continua.
Alla fine di tutto lo studio, proprio alle ultime tre battute, Alkan scrive una chiusura che contrasta nettamente con tutta la storia della musica fino a quel momento: la lunga coda che segue la ripresa è in Re maggiore, come naturale conclusione “piccarda” della composizione, quasi a simboleggiare la conquista della luce come da tradizione. La Terza Piccarda, tipica del Barocco e di una buona parte del classicismo, consiste nell’alterare la conclusione di un pezzo in modo minore con un improvviso finale in maggiore, che era ritenuto più naturale e meglio risonante alla fine di tutto il marasma. Alkan, dopo aver fatto risuonare lungamente la triade maggiore, conclude il pezzo a sorpresa con tre accordi in Re minore che tra l’altro sono una citazione pura e lampante della sonata 17 (op. 31, n.2) di Beethoven “Tempesta”, il cui primo movimento termina appunto in modo etereo con questi accordi pieni e nella stessa tonalità. Si tratta di una soluzione originale che tornerà ancora nel corso degli studi ma che nessun altro compositore riproporrà negli anni successivi.
La peculiare conclusione dello studio
3) Scherzo diabolico
Studio in Sol minore, in ¾ e “Prestissimo”, nella tipica forma di Scherzo, proprio come reca il titolo: episodio A, trio B, ripresa episodio A (qui leggermente variato). Tecnicamente è uno studio di salti e di accordi, siano essi assieme o arpeggiati, che porta avanti in maniera rinnovata i gesti introdotti nei due studi precedenti (non mancano anche note bloccate per far lavorare le dita interne) aggiungendo quindi un’iterazione al percorso pianistico che si va tracciando nella suite.
Ciò che qui che fa la differenza è proprio l’aggettivo “Diabolico” che dà un senso ed un carattere all’intera composizione, una lisztianata perfettamente imitata da Alkan, il quale ha voluto scrivere un pezzo romantico in senso stretto sull’onda di Faust e simili (si può sentire, a livello sonoro, una certa affinità con lo Scherzo un marsch e Funerailles dell’ungherese, non trovo invece nessuna affinità con Chopin e i suoi celebri scherzi che sia nella struttura che nell’armonia restano molto diversi). L’esecuzione di questo studio dovrebbe essere assai svelta e brillante, accentuando i contrasti dinamici al suo interno però entro i limiti della chiarezza e del piacere di suonare, il 132 a battuta segnato in edizione è come al solito una follia che porterebbe a suonare tutti gli arpeggi quasi fossero accordi e a schiacciare tutto quanto, insomma un vero schifo, perciò veloce si, ma entro i limiti del buonsenso.
Lo scherzo inizia con una lunga anacrusi (btt. 1-17) in cui il diavolo e la sua tentazione sono suggeriti tramite dei disegni sfuggenti e bassi (regione grave della tastiera, verso gli inferi) di crome e ottave spezzate che imitano una risata; è il Diavolo che fa il suo ingresso sulla scena e che tenta l’alter-ego del compositore.
Anacrusi iniziale
A battuta 18 entra il vero e proprio tema dello scherzo che comincia su un IV di Sol minore (e con l’accordo ribattuto risaltato, anche questo così frequente in Liszt) con un concatenamento di ampi arpeggi e salti sulla tastiera, tutto fortissimo.
Ingresso del tema principale
A questa proposizione di 13 battute segue una risposta in piano e a 2 voci, tra parti estreme (basso-acuto) e ben risaltata sopra ad un tappeto sonoro per altre 27 battute.
Risposta
Segue una progressione in cui vengono ripetuti ancora questi due elementi prima di una brusca interruzione (bt. 93). Questa parte, se si vuole, può essere vista come una autocitazione dell’autore che riprende idealmente il secondo movimento della sua Grande Sonata “Les quatre ages”, in cui mima la storia di Faust che viene tentato da Mefistofele. In questo pezzo un personaggio sottinteso e immaginario sta venendo tentato dal diavolo che probabilmente gli promette cose mirabolanti in cambio dell’anima (la melodia più sommessa, le clausole del contratto) e, davanti a un tentennamento, gonfia ancora di più le sue proposte (è una mia idea suggeritami dalla musica).
Ciò che segue è una ripetizione variata di quanto suonato fin qui, con gli arpeggi acefali (manca la prima nota) e ribaltati per poi concludere con una lunga cadenza (btt. 129-192) culmine di questa prima parte, in cui Alkan gioca un po’ con le idee esposte e terminando in dominante (Re).
Cadenza conclusiva della parte A
Il Trio, ossia la parte centrale dello scherzo, è in Sol maggiore ed è interamente fortissima e accordale, in cui spicca già dopo tre pulsazioni una stridente V+ eccedente (Re#) sulla triade di Sol (tipico elemento lisztiano che compare sovente nelle opere dell’ungherese, come la Totentanz, i Mephistowaltz, ecc.).
Accordi del trio
Questo trio è l’arrivo salvifico di Dio, che annulla qualunque azione portata avanti dal Diavolo e porta la vera luce. Strutturalmente, il trio è formato dal breve inciso iniziale (btt. 193-196) che viene ripetuto molte volte e arricchito continuamente da sequenze di accordi che si spostano sul Si maggiore il quale, seppur lontano, è rispetto a Sol una tonica secondaria e che si incastra bene nel tessuto (Nota: concetto invero un po’ astruso, nel circolo delle quinte relative ad una certa tonalità, alcune scale hanno la funzione di tonica, altre di dominante; celebre è il Sib maggiore che compare nella sonata 21 Waldstein di Beethoven che ha la stessa funzione di tonica). Non mi soffermo sull’utilizzo degli accordi alterati che in questo pezzo sono più effetti coloristici e si limitano a "sporcare" le triadi in modo poco convenzionale, anziché svolgere una vera funzione armonica. Alla battuta 225 inizia una lunga progressione che collega la prima sezione accordale alla ripresa del tema del trio (bt. 267), molto breve e che conclude l’episodio.
A battuta 285 ritorna la parte A dello Scherzo, questa volta piano, sommessa e accorciata rispetto alla prima volta, un’eco quasi a rappresentare l’ultimo tentativo del Diavolo, o la sua reminiscenza, di volgere la situazione a proprio favore. Questa ripresa corrisponde grossomodo alle battute 95-193 inclusa la cadenza, che rimane sempre sottovoce, quasi evanescente. Alla fine, nelle ultime 6 battute, ritornano fortissimi e dirompenti gli accordi del trio a simboleggiare la definitiva vittoria di Dio contro il Diavolo e concludono luminosamente lo scherzo.
4) Sinfonia: Movimento I
Questo studio in Do minore è il primo di quattro che, nelle intenzioni dell'autore, va a formare una sinfonia o, meglio ancora, cerca di imitare una sinfonia. Qui la scrittura cambia, compaiono meno effetti pianistici (tipo scale, arpeggi, accordi alternati, ecc.), le parti che compongono il tessuto armonico (le classiche quattro voci più i raddoppi) sono sempre ben incolonnate e con la loro funzione ben evidente (la nota più grave, il basso da l’armonia e se prende l’iniziativa il resto accompagna, idem per le altre voci, mentre la più acuta canta) e compare uno stralcio di fraseggio (praticamente assente negli studi precedenti). In altre parole questo gruppo di studi sarebbe pronto per essere orchestrato e l’approccio ad essi, più che da pianisti dovrebbe essere da direttori, ossia quello di provare ad immaginarsi di essere davanti ad un’orchestra e provare a dirigerli.
Il pezzo è in 6/8 e “Allegro moderato”, recante la velocità di 108 per 3/8, ancora molto veloce ma che stranamente non comporta situazioni imbarazzanti nel corso dell’esecuzione e che, se preso con la dovuta libertà tipica di questo stile, per assecondare le melodie cantabili, conferisce un certo movimento all’insieme, risaltando le evidenti sincopi (azzarderei l’ipotesi che questo pezzo e il seguente fossero il progetto di un’opera più complessa che o non ha mai visto la luce o è andata perduta, il che spiegherebbe l’accuratezza delle indicazioni). Se lo Scherzo Diabolico era una specie di grande citazione di Liszt, questo pezzo è invece una reminiscenza di Chopin e le affinità sonore si possono notare ascoltando bene il primo tema in Do minore e confrontandolo con la sonata op. 4 del polacco, o con i notturni op. 48, la polacca op. 40 n. 2, ecc.
Dal punto di vista pianistico è uno studio del legato, sia di dita (con molto lavoro di 4° e 5°) che di pedale, e di utilizzo delle note bloccate; la scrittura di questo studio rimanda direttamente al pianismo del primo Beethoven, ad esempio della sonata n. 8 Pathetique o della n. 15 detta Pastorale (che non ha nulla a che vedere con la sinfonia n. 6); non aggiunge nulla a quanto fatto negli studi precedenti ma utilizza tutte le tecniche già viste e le combina insieme onde ottenere un miscuglio il più omogeneo possibile. Anche dal punto di vista formale il pezzo è molto regolare: trattasi di un perfetto movimento in forma-sonata, molto rigoroso, con il primo tema in tonica e il secondo al relativo maggiore (Mib); semmai il compositore articola un po’ più del solito i vari momenti di congiunzione e lo sviluppo ma in generale tutti gli elementi sono al loro posto. Piuttosto che uno studio di tecnica, questo pezzo è più uno studio di composizione in cui l’autore mostra a tutti come anche lui sia ben capace di scrivere qualcosa di accademico e formale, senza però rinunciare a giocare un po’ con l’armonia e la tecnica.
Inizio
Secondo tema
Finale con citazione di Chopin
La vera grande difficoltà di questo brano risiede nello scegliere come impostare una sua possibile esecuzione, ossia cercare di dare l’idea di avere a che fare con una sinfonia tramite la tastiera, facendo suonare un’orchestra immaginaria e comunicando tale idea anche all’ascoltatore. Questo richiede una buona dose di inventiva per caratterizzare bene ogni episodio e assecondare le dinamiche, piuttosto evocative direi, come “sordamente”, “dolce e cantabile”, “appassionatamente”, ecc. e anche di creare un fraseggio proprio a partire da quello scarno che è riportato.
Non mi dilungherò ad analizzare tutta la struttura dello studio, ormai si è capita, compreso il fatto che Alkan ha una passione per gli sviluppi di notevoli dimensioni, come nemmeno mi soffermerò a guardare la costruzione armonica, sebbene sia molto interessante e anche in questo caso poco convenzionale, altrimenti ne risulterebbe un lavoro mostruoso e pedante. Dico solo che in questo brano Alkan fa grande uso dei cromatismi, per accostare accordi e tonalità altrimenti lontani, e di settime secondarie per assecondare tali cromatismi, conferendo alla composizione una certa omogeneità sonora. Lascio quindi ai posteri il piacere di godere delle melodie di quello che forse è il pezzo più bello ed equilibrato della raccolta.
Da ultimo è bene notare come le ultime 7 battute siano una citazione da Chopin, dichiarata e sfacciata, per l'esattezza della chiusura dello studio n.12 op.10, a cui l’autore aggiunge, per la seconda volta nella suite, un accordo in minore che conclude in tonica tutto il movimento, quasi una sorta di parodia del polacco, soluzione mai più adottata nel resto della storia della musica (fatta forse eccezione per la rapsodia op.119 di Brahms che, dopo tante battute di maggiore, finisce con una cadenza al Mib minore).
5) Sinfonia: Movimento II, Marcia funebre
E’ il movimento lento della sinfonia, “Andantino” in 4/4 e in Fa minore. La didascalia “sulla morte d’un uomo da bene” è riportata solo sulla prima edizione per poi sparire nelle posteriori; essa è forse riferita alla morte del padre del compositore, occorsa qualche tempo prima della stesura. Il tempo indicato, 88 a semiminima, è abbastanza mosso per una marcia funebre ma anche in questo caso non genera preoccupazione nell’esecuzione.
La Marcia Funebre è uno studio per lo staccato, duale del precedente, a cui è collegata tramite il trio in cui gli accordi devono essere suonati legati e in qualche modo richiama anche le rapide discese di accordi del movimento di prima e quindi riprende quel procedimento iterativo di aggiungere sempre qualcosa di nuovo a mano a mano che si procede innanzi. Anche nel caso di questo movimento si è davanti a una composizione rigorosa e accademica, sempre con riferimenti alla musica del passato. Tanto per cominciare il tema al “baritono” (inteso come una voce intermedia medio- grave), così monolitico e solitario potrebbe essere accostato alla sonata op. 14 di Schumann, anch'essa in Fa minore e con le stesse note all’incipit e lo stesso passaggio al Sib minore dopo poche battute. Questa citazione nella Marcia Funebre però non sarebbe un omaggio al tedesco, quanto piuttosto un dispetto visto che questi aveva brutalmente stroncato la Grande Sonata op. 33 sulla sua rivista. Altra citazione è il trillo grave che compare alla fine, quasi a simboleggiare un rullo di tamburi (che riapparirà tra qualche brano) e che è un chiaro rimando alla marcia funebre della sonata n. 12 op. 26 di Beethoven, costruita proprio attorno a quella marcia.
Inizio della Marcia Funebre col tema in risalto
Sulla struttura della composizione non c’è molto da dire, è tripartita in A-B-A e poi coda, in cui B è il Trio, in Fa maggiore. Un fatto interessante è l’uso esplicito del modo Dorico per scrivere tutto il tema del pezzo, un rimando a della musica più antica, in cui la sensibile compare solo nella cadenza conclusiva.
Il Trio è invece costruito inizialmente su un pedale di tonica e poi prosegue con la sua naturale risoluzione V-I; lo stesso anche per la successiva ripetizione in Mi maggiore, cui segue un concatenamento che riporta in dominante, passaggio in cui emerge uno spiccato mi bemolle che interrompe il normale flusso dell’armonia e lasciando il momento senza risoluzione. Anzi, subito dopo si aggiunge un do diesis che permette il passaggio cromatico al Re maggiore della codetta del trio, passaggio che sembra naturalissimo ma che in realtà è abbastanza originale e ben condotto (Debussy utilizzerà spesso delle soluzioni di questo tipo nei suoi primi pezzi).
Inizio del Trio col tema in Fa maggiore
La forte dissonanza che porta alla codetta in Re maggiore e chiude il Trio
La marcia finisce con una breve rievocazione degli accordi del Trio finendo definitivamente in Fa maggiore, questa volta senza nessuna sorpresa.
Pianisticamente parlando questo studio è meno facile di quel che sembra perché richiede il legato di una linea melodica su alcune dita mentre le altre staccano, oltre ad un buon legato sulle parti estreme degli accordi del Trio che altrimenti risulterebbero insignificanti. Ci sono inoltre alcuni passaggi di accordi che richiedono la valorizzazione delle note interne e non di quelle estreme. Anche le dinamiche e l’uso del pedale devono essere ben pensati per mantenere la differenza tra le funzioni delle parti, sempre staccato l’accompagnamento e legato il canto. Questo è complicato dal fatto che deve essere “Andantino” e “sostenutissimo”, quindi abbastanza mosso per evitare che si appiattisca in una lagna; insomma, non consente troppa rilassatezza.
7) Sinfonia: Movimento III, Minuetto
Questo studio è il più facile della raccolta, senza uno scopo ben definito e probabilmente ha la funzione di intermezzo per riprendere fiato prima del difficile finale.
E’ lo studio in Sib minore, in forma di minuetto in ¾. Non reca nessuna indicazione agogica, sottintesa dal titolo. Il 66 a battuta indicato non è velocissimo tanto da rendere ineseguibile il pezzo ma non lo rende un minuetto, semmai uno scherzo, e quindi è del tutto fuorviante. Il minuetto è una danza barocca francese il cui nome significa “piccolo passo” ed è ballata in coppia, dai movimenti molto pudici e delicati, in cui le tre pulsazioni dei passi devono essere ben posate. Il fatto che l’agogica non sia riportata significa che l’autore da queste considerazioni per scontate (considerando anche che questa danza ebbe una nuova giovinezza proprio da metà ‘800 in poi), perciò seguire alla lettera l’indicazione di velocità sarebbe come entrare nella Galleria degli Specchi di Versailles con un panzer. Per farla breve tutto il pezzo è ben più cantabile e moderato di quello che si ascolta nella totalità delle esecuzioni.
Un altro problema di questo brano, dovuto più che altro all’edizione, è la grande confusione sui segni degli accenti riportata i quali, nel periodo in cui fu scritto (1857), si andavano delineando e differenziando sempre più in modo specifico rispetto alla scrittura precedente ma che ancora non erano intesi come li concepiamo noi oggi. Fino a Chopin circa il punto sopra la nota era un segno di accento che, nel tempo, è passato ad indicare uno staccato abbastanza secco; lo staccato di allora andava segnato con una nota di valore molto breve subito seguita dalla rispettiva pausa (vedi l’op. 26 di Beethoven). Prima del punto si trovava nelle edizioni anche una sorta di chiodo messo sopra la nota per indicare un suono ben secco e separato da quello successivo ma sempre senza esagerarne l’intensità che, nel caso di un rilievo importante, veniva marcato ulteriormente con “sf” sforzato. Nel pezzo in questione si trova un minestrone di tutto questo, unito ad altri segni che vengono aggiunti con intenti non troppo chiari.
Non viene riportato alcun fraseggio che viene demandato all’interprete con la solita indicazione implicita “si suona come si canta” anche se, fin dalla seconda battuta, alcuni accordi sono segnati con un segno di “marcato” (una A senza trattino messa sopra la nota). E’ la prima volta che compare nella scrittura di questo autore (ed anche una delle prime in assoluto) e bisogna capire che non può essere eseguito con l’idea moderna di accento che arriva a valle di Stravinsky, Bartòk, Ligeti, Berio, ecc., ma che qui assume un significato di “appoggiato”, ossia di una nota un poco in rilievo e separata dalla successiva ma non picchiata come un chiodo nel muro (avete notato che non campare da nessuna parte il trattino che indica le appoggiature?). Ho sentito esecuzioni del pezzo con questi poveri accordi menati come fossero dei ladri in fuga, ottenendo un effetto dilettantesco e volgare. La dinamica segnata alla partenza è un generico f forte, quindi non c’è bisogno di martellare chissà quali accenti, la musica segue il suo corso e le note importanti emergono già per natura, giusto non legate e appena in rilievo quelle segnate col “marcato”. Nel seguito compaiono anche accordi con lo sf e il chiodo, questi vanno staccati e ben accentati con un forte impulso (il chiodo è un po’ inutile ma rimarca lo staccato) e una serie di combinazioni varie di f e p che obbligano a pensare bene come rendere le dinamiche segnate (il vero senso di questo studio); se si stacca una velocità giusta di minuetto c’è tutto il tempo necessario per realizzare quanto scritto (mentre il 66 a battuta obbliga a correre).
Inizio
Strutturalmente questo pezzo è assolutamente un classico nel suo genere, tempo ternario, parte A con il suo tema e un po’ di trasformazioni; parte B, Trio in contrasto con la prima e di nuovo parte A con codetta finale. Dal punto di vista pianistico è uno studio ancora una volta per il 4° e il 5° dito, sia alla mano destra che sinistra, doppie terze e salti sugli accordi ma, tenendo conto di quale sarebbe il suo vero carattere, uno studio per le dinamiche, molto varie e mutevoli.
Passaggi per il 4° e 5° dito
Trio
8) Sinfonia: Movimento IV, Finale
Ultimo movimento della Sinfonia per pianoforte solo, vero e proprio finale col botto e tecnicamente il più difficile dei quattro. E’ lo studio in Mib minore, in 2/2 e “Presto”, in forma di Rondò; la sua scrittura è molto asciutta, sostanzialmente a due voci, un basso e un canto ma l’intreccio di queste due forma di volta in volta episodi assai vari in cui si riassume tutto quanto visto fino ad adesso, sia tecnicamente che musicalmente. Come ormai si è già ampiamente appurato, la velocità indicata di 96 a battuta è la solita esagerazione che finisce col rendere tutto il pezzo una ridicola galoppata, con alcuni tratti ai limiti del controllo. Per capire la velocità giusta di esecuzione bisognerebbe provare a dirigerlo facendo finta di essere davanti ad un’orchestra e di dover tenere sotto controllo tutti e dare gli attacchi ai vari strumenti, come nello spirito di una vera sinfonia; apparirà subito palese che battere in uno tutto il macello di roba che c’è dentro le battute può produrre solo un gran caos. E’ pur vero però che il pezzo è Presto e se si rallenta troppo si perdono alcune sincopi abbastanza briose che compaiono circa a metà, quindi è lecito pensarlo abbastanza veloce e un po’ libero nello spirito.
La costruzione di questo Rondò è abbastanza simile a quelli che scrive Beethoven, tipo il finale della sonata n. 8 Pathethique, in cui il tema costituisce il ritornello a cui fanno seguito degli episodi che introducono di volta in volta delle novità. Il tema in questo caso è formato da due frasi ben distinte, in Mib minore (btt. 1-50) di cui la prima è formata da ben tre elementi caratteristici e ben distinti che vengono via via sviluppati in modo sostanzioso nel corso del pezzo. Il primo elemento (btt. 1-5) è formato da un pedale di dominante su cui poggia la scala di Mib; parte in levare sull’ultimo quarto formando il ritmo - > - -, che raggruppato in due minime risulta - > dando così anche la scansione armonica degli accordi.
Prima cellula
Tale cellula però si perde a causa della velocità del pezzo perciò il ritmo andrebbe letto in un’ottica più ampia di frasi e semifrasi (di quattro battute in quattro) come suggerito dall’ingesso delle voci.
Data la prima idea, a battuta 5 entra la seconda, una semplice melodia sempre in Mib minore che fa eco al disegno del basso (il basso parte da Sib e arriva a Sib saltando sulla scala, poi ridiscende, il canto comincia subito con Sib->Sib) e per concludere il tutto avviene una discesa cromatica sulle crome, prendendo spunto sempre dalla prima idea (le due crome + semiminima che davano slancio alla discesa) e finendo in dominante (btt. 9- 13).
Seconda cellula
Segue una riconferma (btt. 14-25) di tutta questa parte, poi entra la seconda frase: un lunghissimo disegno virtuosistico di crome (che costituisce il vero e proprio elemento di studio) in tonica (btt. 26-49) e conclude con una 7°- sul Sib per lasciare il posto al primo episodio.
Sequenza virtuosistica
Il primo episodio è in Solb maggiore con il disegno saltellante della prima idea sempre al basso ove si innesta il canto su accordi pesanti (btt. 50-65) a cui segue poi una specie di sviluppo che porta avanti l’idea in maggiore sopra un tappeto sonoro fatto dagli accordi smembrati e divisi in quartine (btt. 66-81).
Episodio in Sol bemolle
L’armonia è molto semplice ed è solo un assecondare l’idea in Solb che, sostanzialmente è un rovescio del tema principale (non proprio così esplicito ma rende l’idea). Dopo questo breve episodio ritorna subito il tema (btt. 82-112), senza la seconda frase (le crome) e con la ripetizione in Mi maggiore che arriva improvvisa e per accostamento di accordi (btt. 97-112) e che lascia subito spazio al secondo episodio.
Brusco passaggio al Mi maggiore
Il secondo episodio è un fugato in cui la prima idea diventa il soggetto (btt. 113-120) che, dopo due ingressi, si capovolge (btt. 121-127) e si contrae (btt. 129-138) e lascia spazio ad una cadenza di ottave (btt. 139-150) che si innesta direttamente nel tema, che ora riappare senza la solita sequenza di basso e con la ricomparsa anche della seconda frase (btt. 151-178).
Fugato
Il terzo episodio (btt. 179-255) è un po’ il culmine del pezzo ed anche la parte più tecnicamente impegnativa. In esso si sviluppa la parte di arpeggi spezzati in crome che compare già nel tema, passando su diversi accordi connessi tra loro per cromatismo fino alla sequenza centrale, virtuosistica e in cui compare un disegno molto caratteristico (btt. 207-218), formato da una “rincorsa” di ottave e poi da accordi presi di salto, con una sincope udibile nel contesto delle cinque battute che formano questa proposta quando il tempo è stretto, e che conferisce al momento una sensazione di accelerazione e di strepito (è un passaggio molto difficile da rendere senza che diventi meccanico).
Punto culminante con lo sf che dà la sincope
Come il fugato precedente, dopo aver fatto risuonare per tre volte l’idea proposta, inizia la contrazione del disegno (compaiono solo le ottave dell’incipit) seguite da delle rapide discese di terze spezzate, dando la sensazione di stringere sempre di più il tempo fino al punto di arrivo (btt. 235-254), formato da salti di ottave, accordi uniti e spezzati, che preparano il ritorno del tema.
Cadenza virtuosistica
Questo si ripresenta (btt. 255-268) mutato, con il canto condensato in accordi pieni e che confluiscono in un ritorno del tema in maggiore (btt. 269-300), ora trasportato in dominante Sib maggiore. Dopo questa digressione, rientra la seconda frase col disegno in crome (btt. 301-324) prima di lasciare il posto ad una lunga coda del tutto virtuosistica sugli accordi (btt. 325-Fine) in cui compaiono anche delle terzine con la poliritmia 3 contro 2 (novità introdotta adesso che continua il processo di iterazione portato avanti negli studi). La fine resta drammatica e in Mib minore.
Altra cadenza virtuosistica con poliritmia
Pianisticamente parlando, questo è il movimento più difficile della sinfonia ed è uno studio di arpeggi, salti, accordi presi di salto, passaggi di posizione in posizione molto rapidi, che un po’ riassume tutto quanto visto fino ad adesso (vi si ritrova la tecnica dello studio 2, 3, 4, 6) a cui aggiunge gli arpeggi spezzati che sciolgono bene le dita e la poliritmia della coda finale. Come detto all’inizio, il tempo suggerito da Alkan è eccessivo, rende lo studio ridicolo e soffoca le varie trovate melodiche e ritmiche però non deve nemmeno essere troppo lento e meccanico, una giusta via di mezzo nell’ambito di un “Presto” da far suonare ad un’orchestra sempre mantenendone il controllo.
9) Concerto: Movimento I
Se il gruppo di quattro studi precedenti cerca di mimare una sinfonia classica, alla Beethoven, gli studi 8, 9 10 vanno a formare un concerto per solista e orchestra con tanto di suddivisione tra i “tutti” e il “solo” e le varie sezioni intermedie. Ovviamente l’orchestra è pensata ma lo scopo di tale pezzo è quello di spingere l’interprete a meditare sulla musica e a trovare una sua gamma sonora e timbrica che crei delle nette differenze tra i protagonisti, formando un dialogo chiaro durante lo svolgimento della composizione.
Il concerto per pianoforte solo di questa suite di studi è, in assoluto, il pezzo pianistico più difficile del XIX secolo, di tutta la musica per tastiera scritta nei secoli precedenti fino a quel momento e anche della maggioranza di quella che è venuta dopo (poche sono le composizioni per pianoforte che sono andate oltre, gli studi di Ligeti, le Opus di Sorabji, le sonate di Kapustin e qualcos’altro qui e là). Esso è difficile sotto ogni punto di vista: tecnico, perché assomma in lunghe, anzi lunghissime sequenze tutte le maniere di suonare già ampiamente trattate fino a questo punto e aggiungendo gli accordi alternati a due mani; fisico perché tutto il concerto dura poco meno di un’ora e solo il primo movimento, se suonato in velocità dura mezz’ora (i passaggi più difficili, che uno si trova davanti quando è ormai sfinito, sono quelli del finale); interpretativo, perché bisogna mimare un solista e un’orchestra assieme e valorizzare la grande ricchezza melodica che la composizione offre.
Purtroppo le dimensioni abnormi dell’opera richiedono un esame a parte in un post dedicato; il solo primo movimento, lo studio n. 8, ha più di 1200 battute (più della sonata n. 29 op. 106 di Beethoven). Qui nel seguito mi limito ad una breve descrizione.
Questo pezzo è l’effettivo primo movimento in forma-sonata di un concerto in cui la differenza tra solista e orchestra viene resa dal cambio di scrittura: verticale e rigorosamente armonica quella dell’orchestra, prevalentemente accordale e con pochi fronzoli; orizzontale e molto abbellita quella dello strumento solista.
Inizio dell'orchestra, rappresentata da una scrittura verticale
Ingresso del solista con una scrittura fittamente ornata
Questo concerto, per le dimensioni dei movimenti che lo compongono, è di derivazione beethoveniana (si pensi ai concerti per piano 3 e 5 del tedesco, con un primo movimento molto più lungo e sviluppato rispetto agli altri due) ma per suono, melodie e forma (il finale è un rondò in forma di polacca) si accosta molto a Chopin, specie al suo concerto n. 1 op. 11 in Mi minore. Anche la scrittura per la cosiddetta parte solista richiama molto quella molto abbellita del polacco e meno quella di Beethoven, da cui però si distanzia con la lunga e roboante cadenza sugli accordi alternati e le note ribattute che invece è assente nei concerti di Chopin. Al termine di tale cadenza poi, a differenza dei concerti classici che avevano solo una breve coda, Alkan inserisce un lungo episodio in maggiore che conclude in modo “eroico” l’intero movimento, in un tripudio di scale, accordi e arpeggi che tolgono anche le ultime energie al povero esecutore.
Inizio della grande cadenza
Questo movimento è lo studio in Sol# minore, in ¾ e “Allegro assai”. Il tempo indicato in partitura, 160 a semiminima, è veloce, molto veloce e, se all’inizio, nell’introduzione, sembra non creare eccessivi problemi, alla lunga finisce per diventare poco gestibile. Karl Klindworth ha proposto una versione orchestrata di questo pezzo, segnando 144 a semiminima, un po’ più verosimile considerando tutto ciò che un concerto con orchestra comporta. Di certo il tempo è assai mosso e molte sezioni devono essere eseguite con il giusto slancio ma dando ad ogni parte la sua giusta velocità; il tempo di questo pezzo è quindi da pensare abbastanza oscillante, assecondando molto i cantabili, enfatizzando un po’ i vari effetti pianistici, come da prassi in un concerto romantico, altrimenti il rischio è quello di farne un polpettone di una noia pazzesca. Alkan ha segnato sulla partitura anche un taglio che consente di ridurre considerevolmente la durata del brano ma, fino ad adesso, gli interpreti hanno lodevolmente preferito accettare la sfida dell’esecuzione integrale.
10) Concerto: Movimento II
E’ il movimento lento del concerto e, secondo la mia modesta opinione, lo studio più bello della raccolta. Si tratta di un “Adagio” in ¾ in Do# minore e non introduce nulla di nuovo dal punto di vista tecnico, a parte qualche poliritmia ma continua il lavoro iniziato nel pezzo precedente. Anche in questo studio bisogna cercare di capire quali sono le parti assegnate alla sola orchestra, al solista e miste (a differenza del movimento precedente esse non sono specificate, a parte un paio di punti, perciò sono a libera interpretazione; anche qui la scrittura aiuta, se sono accordali o polifoniche sono orchestrali, altrimenti è il solista). Anche questo pezzo verrà approfondito in apposita sede dedicata al concerto, perché, anche se all’apparenza semplice e lineare, è un movimento molto complesso nella gestione armonica e del materiale tematico.
A grandi linee anche questo movimento è in forma-sonata, con due temi molto articolati e ricchi di invenzione, solo che questa viene trattata molto liberamente e lo sviluppo è molto ridotto, come se esposizione e ripresa fossero attaccate in modo speculare (espediente già usato in alcune sonate da Muzio Clementi). La velocità segnata per una volta è umana e non obbliga a fare i salti mortali, 60 a semiminima, abbastanza larga da poter suonare tutto bene e con calma.
Inizio con chiaro riferimento all'orchestra
In fin dei conti, questo è più uno studio di composizione che di pianoforte, abbastanza ingannevole perché sembra semplice e melodioso ma in realtà è lungo, con molto fraseggio da dover rispettare, molte sonorità da dover inventare e molte polifonie che obbligano a mantenere alta la concentrazione onde dare il giusto rilievo alle parti, quindi l’impegno resta alto. Alla fine, dopo una lunga coda in pianissimo, in cui la musica svanisce come vapore nell’aria, compare un accordo con fff, stra-forte, che fa esplodere il cuore alla gente in prima fila e che è una specie di firma di Alkan, che la inserisce in molti pezzi e che apparentemente è una trovata abbastanza eccentrica; comparirà ancora nell’ultimo studio.
10) Concerto: Movimento III
Se con gli studi precedenti Alkan non avesse ancora spremuto il povero pianista fino all’osso, per estrarre il suo “olio di gomito”, con questo arriva il colpo di grazia. Lo studio 10, in Fa# minore, è un Rondò-sonata, ossia è un rondò con un ritornello che torna più volte nello svolgimento a cui viene affiancato un altro tema, di carattere contrastante e che poi dà corso a tutte le altre idee che vanno a formare gli episodi. Anche questo movimento del concerto per pianoforte solo verrà esaminato in dettaglio in un post dedicato perché, quello che all’apparenza è virtuosismo fine a se stesso o semmai uno scarno studio di un tecnicismo, è in verità un pezzo ricco di citazioni sia proprie che di altri autori, oltre che un banco di prova per uno stile di composizione che accosta le varie sezioni più a gesti e accostamenti accordali, piuttosto che seguire un disegno armonico-melodico, che pure è presente. Questo modo di procedere, qui ancora molto sperimentale e ancora legato al classicismo, diverrà assai caro a Debussy una cinquantina di anni dopo.
Tecnicamente parlando, questo pezzo è uno studio per gli abbellimenti, le linee melodiche sono qui fiorite fino all’inverosimile e in ogni modo possibile: gruppetti, acciaccature, note strappate, note ribattute, ecc.; qui occorre cercare l’effetto provando a isolare i suoni che compongono le linee melodiche e che tradotto significa dita veloci e di ferro.
Ingresso del tema sul chiaro ritmo di polacca e con gli abbellimenti
Passaggio molto abbellito
Dal punto di vista tecnico si riallaccia direttamente allo studio n. 1 e ne utilizza direttamente le figurazioni, inserendole in un contesto ben più ampio e arricchito anche da tutto quanto studiato in precedenza. Il tempo segnato, 100 a semiminima per un “Allegretto alla barbaresca”, è assai problematico e mal si adatta alle sezioni più cantabili, oltre a provocare seri problemi di controllo di tutta la roba che il compositore ficca nelle suddivisioni intermedie. Non bisogna dimenticare ancora una volta che questo pezzo deve mimare il dialogo tra un solista e un’orchestra e che il controllo e la precisione sono importanti. Come per il primo movimento anche qui occorrerebbe adottare un compromesso, optando per un tempo molto oscillante, in modo da assecondare bene il carattere selvaggio del tema principale e trattenere bene il secondo più cantabile e abbellito tema, onde non distruggere tutti i piccoli effetti dati dagli ornamenti. Ancora una volta è necessaria una paziente analisi per stabilire quali parti rappresentano l’orchestra e quali il solista (le indicazioni sono minimali); la logica resta la stessa, le parti più accordali e asciutte sono quelle che imitano l’orchestra, quelle più fiorite il solista e tra queste ci sono tutte le sfumature intermedie.
11) Ouverture
Studio n. 11, in Si minore, inizialmente in 4/4 e “Maestoso”. A discapito del titolo, questo pezzo non apre nulla e non ha una struttura ben precisa che si rifaccia ad un qualche modello; probabilmente il titolo indica semplicemente una libera composizione derivata dall’unione di tanti episodi diversi tra loro. E’ il pezzo più sconosciuto e snobbato dell’intera suite di studi (cioè capiamoci, non è che gli altri son così conosciuti eh!!), quello che viene qualche volta suonato solo perché c’è, esiste, è lì. Al contrario, questo studio è, come gli altri, molto ricco di inventiva e di belle melodie che risuonano come puramente romantiche, con quel romanticismo che noi nel XXI secolo ci aspettiamo e vogliamo sentire, con passaggi saturi di slanci molto eroici e altri più mesti e drammatici, così come è vario nelle agogiche e nel ritmo. Questa ouverture si distanzia dal genere che aveva preso piede nei cinquant’anni precedenti, ossia i padri di quelli che saranno poi i poemi sinfonici (basti pensare alle ouverture di Mendelssohn o Coriolano di Beethoven) e si ricollega direttamente alle ouverture barocche, come la celebre Ouverture Francese di Bach o alla Sinfonia introduttiva della partita n. 2 in Do minore. Non si faccia confusione in questo caso con le ouverture delle opere che sostanzialmente sono delle piccole anticipazioni di ciò che avverrà (erano le sigle di allora); le ouverture in questione erano semplicemente dei pezzi in forma più libera che potevano essere sia un mezzo (per introdurre qualcosa) che un fine (per riempire un concerto).
Per notare delle similitudini con le suite di Bach basti prendere la partitura e fare un confronto: già dopo i primi accordi compare uno spiccato ritmo “francese” (classico ritmo puntato con croma + semicroma, che si contrappone al lombardo che è scritto all’opposto); l’introduzione accordale si alterna con un adagio per poi lasciare il posto ad un contrappunto a 2 parti (trattato con una certa libertà) che porta alla conclusione. Detto questo, quindi, la struttura della composizione non rientra in nulla di simile a ciò che è stato utilizzato fino a questo momento, è molto libera ed episodica e tali episodi hanno un legame che può essere più o meno esplicito.
Come accennato in precedenza, questa ouverture si compone di: un’ouverture vera e propria, formata da due momenti contrastanti di cui uno fatto di accordi ribattuti, l’altro formato da un disegno ascendente in ritmo francese. Segue un breve adagio che funge da intermezzo prima che entri il movimento veloce che, come suddetto, è una sorta di contrappunto a due parti, molto libero e che vagamente ricalca una forma-sonata, il quale confluisce poi nell’”Allegro Vivace” finale, in Si maggiore, che conclude tutta la composizione.
Lo studio inizia con una lunga introduzione su accordi ribattuti di Si minore (btt. 1-16) in 4/4, che in parte può richiamare Invocation, ossia la prima delle Harmonies poétiques et religieuses (sono del 1852, anche se la tonalità è differente, l’armonia e il moto delle voci sono molto simili) e che, malgrado l’apparenza molto statica, è invece ricca di moti tra le parti interne ed esterne degli accordi che creano dei disegni melodici. A questa sezione contrasta improvvisamente una melodia grave e raddoppiata all’ottava (btt. 17-28) in cui emerge il ritmo francese (in questo caso richiamandosi a Bach) e che crea uno stacco prima della ripresa della parte accordale, portata a Fa# minore.
Ouverture vera e propria
Ricomincia così il ciclo di accordi con il movimento tra parti interne e si porta ad un culmine in dominante, sul Do# maggiore (btt. 29-43) per poi chiudere con una sospensione sul medesimo accordo prima di lasciare posto al ritorno della parte “francese” francese (btt. 51-68), ora sviluppata più ampiamente di prima e seguita da una piccola coda (btt. 69-76) col riecheggiare al basso della parte precedente. Qui si conclude la sezione che fa da ouverture vera e propria e comincia una sorta di lungo sviluppo delle idee dell’introduzione che si articola in vari episodi.
Da battuta 77 a 114 c’è un episodio “Adagio” in Fa# maggiore e in 6/8 basato su di un breve inciso ascendente contenuto entro una quinta e che è “stretto parente” di quello stacco che ha interrotto per ben due volte la lunga sequenza di accordi e richiama lontanamente le ultime sonate di Beethoven (si pensi al lungo adagio dell'op. 106). Tralasciando l’aspetto armonico che, sebbene all’apparenza semplice avrebbe un certo interesse, questo episodio è strutturato secondo uno schema di A-A’, ossia una piccola esposizione del tema seguita da una congiunzione (btt. 79-85) e da una variazione della stessa con una lunga fioritura nella parte acuta (btt. 96-114). Essendo in tonalità di Fa# maggiore, questo intermezzo non è altro che una lunga preparazione in dominante (di Si minore) di ciò che arriva subito dopo.
Inizio dell'Adagio
A battuta 115 inizia l’”Allegro”, il cuore di tutta la composizione, in Si minore e in 4/4 costruito come una sorta di contrappunto a due voci con molte libertà e che rielabora ancora una volta gli spunti sentiti nell’introduzione: si sentono i pesanti accordi di Si minore al basso che salgono mentre la voce acuta traccia una sorta di rovescio della melodia in ritmo francese. Questo episodio, molto lungo, è a sua volta formato da varie sezioni che sono unite a comporre un movimento di forma-sonata tri-tematico (quindi un A-B-A’). Il primo tema è lampante (btt. 131-144), in Si minore e arriva dopo una breve introduzione, il secondo (btt. 193-208) in Re maggiore, semplice ma seguito da una lunga cadenza virtuosistica che lo collega idealmente al terzo tema (btt. 257-294), in Sol minore (tonica di Re e VI abbassato di Si minore), di carattere completamente contrastante agli altri due.
Primo tema
A battuta 295, come segnalato anche da una doppia stanga, inizia uno sviluppo dove fanno una fugace apparizione tutti e tre i temi trasportati in varie tonalità assai lontane da quella di impianto, è il momento in cui la fantasia del compositore si sbizzarrisce un po’ nel modificare il materiale presentato. A battuta 369 comincia invece la ripresa in cui l’ordine e le tonalità dei temi vengono invertite: per primo compare il secondo tema, trasportato a Sol maggiore (VI di Si; btt. 369-384) ed è seguito dalla sua cadenza accorciata; segue il terzo tema (btt. 405-426) portato a Si maggiore, anche questo un po’ accorciato e seguito da una transizione (btt. 427-430) formata da una 7° di dominante senza però la sensibile che dia la tonalità (La#), lasciando quindi sospesa e indeterminata l’armonia. A battuta 431 torna per l’ultima volta il primo tema, ancora in Si minore e seguito da una lunga coda (btt. 450-473) in cui riecheggia per l’ultima volta il terzo tema, grave e piano, dando l’impressione che la concitazione finora suonata si allontani e svanisca nell’aria e preparando il successivo e ultimo episodio.
A battuta 474 inizia il finale “Allegro vivace”, in Si maggiore e nuovamente in 6/8, che richiama vagamente l’adagio e gli stacchi dell’introduzione. Complessivamente è una lunga cadenza sulla tonica in cui Alkan gioca un po’ sui gradi della scala formando delle sequenze estemporanee, quasi improvvisazioni (btt. 490-511) alternate a delle progressioni prima della lunga cadenza tecnica che rappresenta un po’ il culmine tanto atteso dell’intero pezzo e con cui tutto si conclude.
Inizio episodio finale
Dal punto di vista meramente pianistico questo pezzo è uno studio di ottave, terze e quarte e di scioltezza del polso, oltre che di resistenza vista la notevole lunghezza di tutto l’insieme. Le pulsazioni suggerite stranamente non sono mostruose, a parte l’ultima e si noti che alla comparsa del tema dell’Allegro vi sia l’agogica “Un peu moins vite”, proprio quando si entra nel vivo delle ottave, segno che questo studio fosse delicato anche per il compositore stesso. A differenza degli altri pezzi della suite questo studio è esattamente ciò che appare: una cattedrale che si regge su un linguaggio semplice e schietto e che si presta sia a risaltare la bravura dell’esecutore sia il suo lato più sentimentale con momenti molto espressivi, peccato solo che sia così trascurato.
12) Le Festin d'Aesope
Il dodicesimo studio, in Mi minore, che oltre ad oltre a essere il finale della suite è anche il riassunto della stessa ed è pure il pezzo più famoso di Alkan, la cui popolarità è in continua crescita.
Questo pezzo è un tema seguito da 25 variazioni, più una piccola coda e il cui titolo è fortemente evocativo di tutto ciò che vi si ritrova poi dentro. “Le festin d’Esope”, ossia la Cena di Esopo, è un chiaro riferimento al celebre scrittore di favole moralistiche della Grecia antica e ogni variazione cerca di imitare, o meglio di suggerire con i suoni gli animali delle storie e anche di suscitare una reazione emotiva nell’ascoltatore che riporti all’intento morale della favola. Ad esempio, se la favola ha un finale positivo e un carattere più “paternalistico”, la variazione corrispondente si conclude dolcemente e in modo evanescente, se invece è più ammonitrice e termina in tragedia, anche la variazione che vi si ispira termina con un finale brusco e violento. A questo fatto si aggiunge anche che ogni variazione esplora specificamente una tecnica usata per suonare la tastiera. L’interpretazione delle variazioni e il commento di tutto ciò che questa musica può offrire sia al pianista che al pubblico richiede un commento in un post a parte che altrimenti diverrebbe troppo pesante e pedante in questa sede ma che seguirà a breve.
Il tema semplice e quasi insignificante
Variazione V militaresca
La prima delle due variazioni sulle cinque dita
Bibliografia
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