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martedì 19 novembre 2019

LA PRIMA VOLTA

LA PRIMA VOLTA




Quest'anno 2019, e precisamente lo scorso ottobre, sono esattamente 10 anni che arrampico, il tempo è passato, a velocità soggettiva diseguale ma è passato (e già qui comincio il blog come un vecchio pescatore che fuma davanti all'oceano mentre gli attributi del lettore si allungano e puliscono terra).

Come da titolo l'episodio in questione tratta della mia prima via a più tiri percorsa in qualità di capocordata, nella goliardia di un evento affrontato immaginando per un momento di essere il Bonatti di turno e di vivere in piccolo le avventure lette nei libri (che poesia!!!!).

Quel giorno di ottobre 2009, una domenica ancora calda e umida, mi avventurai a Rocca Pendice, la parete "di casa" (diciamo la prima "erezione" che si incontra percorrendo i dintorni della mia piccola città, sita dove gli uccelli volano all'altezza dei pesci) con un amico che, dopo aver ascoltato le mie predicazioni neanche fossi Gesù nel tempio, riuscii a convincere a seguirmi nell'avventura.

Prima di andare oltre col racconto ci vuole una breve panoramica su questo colle chiamato Rocca Pendice: esso sorge presso il piccolo, panoramico e rustico paesello di Teolo, nel cuore dei Colli Euganei, in provincia di Padova. Verso est, ossia in direzione del mare, esso precipita nella valle sottostante con un muro compatto di trachite (una roccia metamorfica simile al granito) alto all'incirca 150 m e sulla sua sommità sorge un castello diruto su cui aleggia una leggenda di una principessa di nome Speronella, imprigionata dal perfido conte Pagano, storie sentimentali da pieno Medioevo. La prima conquista della parete fu una vera avventura: i coniugi Gino e Maria Carugati, accompagnati da Antonio Berti (per chi è un alpinista è l'autore di molte delle guide grige della CAI-TCI, detto il "cantore delle crode") e un tale Mariano Rossi, tutti provetti scalatori, attaccarono l'unico camino alla base della parete, piuttosto ostico a quei tempi (e pure oggi non scherza, come vedremo) e furono sorpresi da un temporale violento poco oltre. La tempesta li costrinse a passare la notte sulla parete, in pessime condizioni e si rese necessario un salvataggio da parte di coraggiosi volontari, contadini del posto, calando una corda dall'alto. Ritentarono pochi giorni dopo, con discrezione perché, a detta del Berti, dopo la passata esperienza "c'era di che farsi rinchiudere come i matti" e l'impresa riuscì. Correva l'anno 1909.

Tornando a me ed alla mia vitt...ahem, compagno di sventura, Stefano, era nostra intenzione cimentarci con la grande via storica perché, nella nostra mente vergine alla croda, doveva essere un'ascensione facile, con difficoltà moderate (si, ecco...!!!); così, forti di una relazione scaricata da internet che aveva l'unico pregio di essere gratis, di tre friend (specie di cunei ad espansione meccanici piuttosto costosi ma molto importanti e che soprattutto mi erano costati due sacche di sangue) e un paio di chiodi ci portammo all'attacco (aah, i tempi dell'alpinismo eroico...!).

L'ascensione del camino Carugati, una strombatura dalle pareti verticali e levigate che a metà si chiude con uno strapiombo a campana, mostrò già i primi indizi che la giornata sarebbe stata lunga. Nei primi 15 m tutto andò liscio ma, arrivato alla vistosa strozzatura dell'imbuto, ecco presentarsi il primo serio problema per le mie "innate" doti arrampicatorie: esso era spaccato in due da una liscia crepa che buttava fortemente all'infuori ed era troppo stretta per strisciarvi dentro (e no, non era una questiona di dieta, almeno allora). 
Prova, riprova, tenta all'esterno, spingi coi piedi ma nulla, la paura di volare prese il sopravvento e restai lì impalato per più di un'ora. Dopo molte titubanze, visto il venir meno dell'onore, mi venne un'idea: incastrai un friend dentro la crepa a mo' di leva e con uno strattone tentai una giravolta all'esterno per afferrare un appiglio promettente un po' a destra. La manovra riuscì in apnea e mi trovai su un terrazzino, sormontato da una liscia placca. Un altro ostacolo alla "naturale" sequenza degli aggraziati e gorilleschi movimenti. Questa però volta l'imbarazzo durò poco (si sa, la povertà "guzza" l'ingegno diceva qualcuno): dentro un chiodo a mo' di gradino e via, finalmente verso un decente punto di sosta su un minuscolo gradino.

Nel frattempo sopraggiunse un'altra cordata formata da tali Paolo e Nicola che, pur commentando affettuosamente il mio sopraffino operato (ma che cazzo fa il tuo amico? Pianta un chiodo a Rocca Pendice? A l'è mat...senti, ma l'è bon de nar su? Maial...), si aggrapparono famelici ai miei ancoraggi per salire.

Dopo questo semplice e "divertente" introito, così incoraggiati che già stavamo buttando le doppie per tornarcene a casa, i nuovi due arrivati provarono a ringalluzzirci puntando sull'onore (dopo tutta 'sta fadiga tornè anca indrè? Maial...) al punto che io e il socio (non so ancora perché) decidemmo di proseguire, ovviamente ignoranti (nel senso che ignoravamo...) ciò che stavamo facendo. Ricordo infatti di avere effettuato lunghezze di corda piuttosto corte onde sfruttare il più possibile gli anelli cementati presenti lungo la via, poco importava a due giovani masculi (specie a me) che la corda fosse di 70 m e ce ne fossero sempre 55 da recuperare, ovviamente lisci come la seta, su una roccia che sale "drittah" come un fuso (mannaggia). 
La via comunque si snodava attraverso magnifiche e solide placche di trachite (almeno quello) e il tratto più caratteristico dell'itinerario consisteva in un lungo diedro chiuso da un altro strapiombo atletico (scoprirò in seguito che si trattava di una variante, l'itinerario del 1909 si snodava più a destra lungo rocce appoggiate). 
Pian piano mi avvicinai al pancione che sbarrava la "natural burella", cominciavo già a pregustare il (dis-)piacere che il suo superamento mi avrebbe apportato: cm dopo cm piano piano eccolo avvicinarsi, potevo vederne le rughe, la radice che lo sormontava, la possibilità di muoversi in spaccata sulle pareti laterali, come un top climber nel passo più estetico. 
Risultato reale: crampi alle braccia e ad un anca, era meglio se andavo a guardare un cantiere. Fortunatamente i due che procedevano con noi e che nel frattempo erano passati in testa, ebbero la pietà di lanciarmi un capo della corda per potermi issare al di sopra del tratto fatidico e raggiungere il punto di sosta. Recuperai velocemente il compagno lasciandogli l'onore (o l'onere) di portarsi alla fine del diedro liscio onde uscire dalla parete una volta per tutte. 
Venne su e davanti alla gentile richiesta di un Duce al suo esercito cominciò titubante a muoversi lungo la fenditura, la fame e il calare del sole lo motivarono di più.
Arrivammo in vetta con l'ultima luce, giusto per fiondarci giù dal sentiero di discesa e rientrare alla macchina. I due che avevano percorso la via con noi gentilmente ci aspettarono e scambiammo due chiacchiere: ancora non sapevo che sarebbero divenuti miei compagni di cordata per i seguenti tre anni.

La prima volta fu movimentata, avventurosa e anche un po' scavezzacollo, se ci ripenso col senno di poi, ma fu la prima di una lunga serie.

immagine della est del Rocca Pendice

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