FRATON
Il gioiello del Pasubio
E' l'anno 2020.
Un anno che rimarrà nella storia contemporanea come l'anno della pandemia di Covid, momento storico che costringe una cospicua fetta di umanità a restare in casa per mesi, durante tutta la primavera. Poco male per me perché per motivi di salute sarei comunque in una pausa forzata e quindi alla fine non perdo nulla, buona scusa per dedicarsi completamente allo studio.
Arriva l'estate, passano i problemi e si attenua anche la pandemia, al punto da poter andare a prendere una "boccata d'aria fresca". E' decisamente inutile dire che, dopo tutte le peripezie del tempo trascorso a casa, posso vantare un fisico da vero pensionato, di quelli che compiono un'impresa da eroi quotidiana per alzarsi dal divano! Però sono anche stufo di stare fermo e di sentirmi inflaccidito, ho bisogno di sentire un po' di forza fisica nei muscoli.
Arriva prontamente il messaggio di Moreno ruggente come il motore di un tank con le candele ammuffite che di colpo viene riacceso: inutile cincischiare, si ricomincia col botto, si va sul Fratòn; d'altronde cosa potrebbe esserci di meglio del ricominciare la vita sportiva se non con qualche bello strappo muscolare, carni matte in ogni centimetro del corpo e un sonno letargico per una settimana? Naturalmente c'è anche Bruno, sono in una botte ferro (ma col fondo di argilla).
Sono assai allettato all'idea perché il Fratòn lo sbirciavo in segreto da molto tempo però sono anche preoccupato dal mio stato psicofisico di uomo appena tratto dall'ibernazione, la cui ginnastica è consistita fino a poco prima nel cambiare i canali della televisione e nell'allenare gli avambracci sollevando una matita. Beh, al diavolo, questa volta arrischio il passo più lungo della gamba, tanto ormai so come trarmi fuori d'impaccio e nemmeno gli altri due aprono le noci coi bicipiti, quindi posso andare in totale relax.
Giusto per presentare un po' il posto, il Fratòn di Sorapache è una bellissima guglia di roccia solida nascosta in un anfratto piuttosto selvaggio del massiccio del Pasubio, visibile per poco solo dalla strada che sale al Passo Bòrcola o che fa capolino dalla vegetazione dall'alta Val Sorapache, lungo un vecchio sentiero militare che sale alle Porte del Pasubio. Pochi sono gli scalatori che si avventurano da queste parti, un po' per l'accesso disagevole e un po' per le zecche, anche se Tranquillo Balasso ha tracciato numerose belle vie sulle pareti della valle.
E' il 6 di Luglio e fa caldo; il tempo è ottimo, soleggiato e caldo, in particolare è umido e caldo (non l'avevo già detto?!) come si confà ad una vera estate padana ma per fortuna la via è esposta a nord. Partiamo la mattina presto con una frugale colazione al bar di Valli del Pasubio per anticipare i turisti che arriveranno per salire la Strada delle 52 Gallerie e ci avviamo tutti e tre a Bocchetta Campiglia scoprendo che siamo intelligenti come, se non meno (molto meno), la media delle persone sulla Terra, infatti siamo in coda per il parcheggio alle 8,00 del mattino. Dopo aver arricchito il mio rosario con i sacramenti fantasiosi dettati dall'impazienza degli altri due finalmente riusciamo a trovare un posto auto in bilico su un fosso, appena oltre il parcheggio e pure a pagamento per evitare che quei demoni chiamati "vigili urbani" puntino giusto alla nostra vettura per arrotondare le finanze comunali.
Con sforzo stoico per non compiere una strage di ignari turisti con al seguito bimbi frignanti, ci avviamo per la strada degli Scarrubbi, sotto un sole feroce come il lampo di un'esplosione nucleare malgrado sia solo mattina.
Dopo circa 3 km di strada arsa come il deserto di Atacama arriviamo al tanto sospirato terzo tornante donde diparte una traccia ripida e angusta che tagliando il fianco del monte, valica una forcella e scende verso la Val Sorapache: ciò significa che passiamo dalla fonderia alle giungle del Vietnam in meno di 100 m.
Il problema è che noi non siamo Rambo con i Berretti Verdi, anzi siamo bolliti, anzi malediciamo questo posto per esistere, anzi meglio: speriamo in un asteroide che ci porti dritti al Giudizio Finale per aver avuto la splendida idea di venire quassù in estate senza avere una guerra da combattere ma per nostra scelta. Inoltre ci sono le zecche, in agguato tra le fronde dei mughi e l'erba alta, che aspettano solo sangue fresco e ricco di vitamine.
Mentre gli altri avanzano io faccio una fermata ogni tot passi a controllarmi, sono in pantaloni corti e maniche corte e non penserei nemmeno un istante a coprirmi di più, tra il colpo di caldo e le zecche scelgo le seconde. Per fortuna non raccolgo ospiti lungo il sentiero.
Superata una stretta forcella il Fratòn appare ancora meglio di come lo avevo scorto quella volta dalla vicina Torre Gabrisa: un razzo pronto alla partenza, come il Saturno V della missione lunare Apollo 11, se non fosse per quell'incudine posta sulla sua sommità che gli conferisce l'aspetto di un frate in preghiera.
Ci portiamo sotto la parete nord attaccando la via El Duro, forse la linea più bella e logica della torre, su roccia fessurata magnifica e con una chiodatura parsimoniosa.
La scalata procede senza interruzioni significative, liscia, grazie all'esposizione a nord e ad una leggera nebbia che mitiga la calura, anche se ho dovuto escogitare un razionamento "intelligente" per l'acqua in modo da distribuirla su tutta la giornata, così intelligente che in vetta mi rimane solamente un sorso per tutto il viaggio di ritorno, rimasuglio che custodisco gelosamente e difendo fino all'ultimo specie dalle zampe fameliche dei due compagni che sono rimasti a secco da un po'.
Infatti arriviamo in cima un po' stanchi, decisamente bolliti, assolutamente rinsecchiti: Moreno non sente più i piedi, ormai ridotti a due fuscelli ritorti, io ho le braccia e le gambe di legno e Bruno parla con San Pietro e gli Apostoli. Buttiamo le corde doppie lungo la via di salita che puntualmente si incastrano ma ormai siamo esperti (e soprattutto poco pazienti) e quindi non è un problema, poi risaliamo penosamente verso la forcella che adduce alla Strada degli Scarrubbi dove io vuoto anche l'ultimo e tanto racimolato sorso d'acqua. Moreno nel frattempo rimane ipnotizzato da una zecca che gli pascola tranquillamente sul braccio alla ricerca di una vena che non trova e che non può trovare perché ormai tutti i liquidi sono evaporati, poi la lancia via con uno schiocco restituendola a quel mondo vegetale infestante dove aspetterà un'altra vittima consapevole ma rassegnata con cui banchettare.
Arriviamo alla macchina con le tenebre, sognando cibo e birra.
Il Fratòn
Partenza
Il grande diedro della parte superiore
La magnifica fessura al centro della parete nord
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