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venerdì 22 agosto 2025

LA SCALA IMPOSSIBILE DI PENROSE - Nuotando tra le croste del Lefre

LA SCALA IMPOSSIBILE DI PENROSE

Nuotando tra le croste del Monte Lefre


Nella vita si possono fare mille progetti ma quelli che poi andranno in porto sono sempre quelli a cui non si era minimamente pensato. Infatti l'idea di questa nuova e difficile via, nasce pensando a tutt'altra cosa, da tutt'altra parte. E' estate 2024 quando, mentre scendiamo dai Lagorai, il socio Moreno mi fa notare una grande parete grigia che emerge dai colli sovrastanti Ospedaletto. Sulle prime non ci faccio tanto caso, è brutta, è alta e remota ma scatto una fotografia perché non si sa mai. Tornato a casa comincio subito ad informarmi su che montagna sia quella che ho visto ottenendo di sapere solo una quota topografica e una vaga immagine satellitare, sapendo che dovrebbe trovarsi nei pressi di uno sgarrupato sentiero. Studio attentamente la foto che ho fatto e sembra che questa parete grigia abbia un certo interesse, almeno lo credo per sentirmi virile per qualche minuto, così la passo a Frank per sentire il responso, il quale arriva puntuale con un appuntamento a Villa Agnedo per vedere il farsi. Per essere sicuro di trovarci entrambi nello stesso posto stabilisco che ci si troverà l'indomani davanti al cimitero. E' un ottimo posto per cominciare i lavori, soprattutto di buon auspicio, il quale diventa assai desiderato nei momenti di maggiore fatica, in cui si rimpiange di essere nati e si chiede a sé stessi "perché non mi unisco anche io ai giusti?!". Il compare non è immune al fascino del camposanto e mi replica: "bene, almeno se qualcosa andrà storto, avremo già il posto per riposare!".
La mattina seguente ci troviamo al camposanto di Villa Agnedo: la giornata parte deprimente, a parte la vicinanza di coloro che riposano in pace, il meteo è instabile, ha appena smesso di piovere e la nostra parete è avvolta nelle nubi. Io e Frank ci guardiamo dubbiosi, chiacchieriamo di qualche stupidaggine, poi lui se ne esce di punto in bianco con un "andiamo!". Conosco le bizzarrie del socio e mi viene da ridere amaramente pensando alla benzina sprecata per il viaggio a vuoto, però mi allieta l'idea del bar e della birra: "forza, anche gli attrezzi devono andare a passeggio! Ma dove c***o andiamo che è tutto fradicio? - Beh, là!", si gira e mi indica la parete alle mie spalle. Io guardo dove mi indica e poi guardo lui perplesso, la risata mi passa di colpo: "mica sono venuto là per quella, ma per quella là!" e indico dall'altra parte della valle. Frank si gira, guarda l'orrida parete grigia, che adesso è nera e arcigna, accenna una smorfia decisamente schifata e afferma: "bah, là oggi non combiniamo nulla! A parte il fatto che è tutta bagnata, ma è anche bene in su, e mi sembra anche erbosa". Estrae il binocolo e scruta la parete, poi me lo passa e osservo con attenzione cosa ci aspetterebbe: si ha ragione, la parete ha un bell'aspetto se vista da lontano ma è completamente corazzata di cenge e toppe d'erba, segno anche di scarsa inclinazione. A differenza del Collicello, che era comodo vicino alla macchina, questa è pure lontana e l'unico punto promettente è un grande camino con un sinistro conoide ghiaioso alla base. Lasciamo perdere e mi giro a guardare la parete alle mie spalle: dalla nostra prospettiva sembra bella. Il Monte Lefre è una montagna imponente, molto complessa e circondata da muraglie strapiombante alte fino a 500 metri. Peccato che sia anche universalmente noto per essere di una friabilità leggendaria, tanto che ad oggi si ha notizia di una sola cordata che vi si sia avventurata, composta da Melchiori e Saint nel lontano 1954, lasciando una descrizione molto vaga e carica di orrori. Nel 2014 addirittura i comuni sottostanti organizzarono l'esplosione di un intero pilastro pericolante sotto le postazioni della vetta, i cui segni sono visibili ancora oggi. Insomma, parliamo della montagna dei desideri di ogni rocciatore!
Dico a Frank che non è una grande idea mettere le mani sul paretone giallo sotto la bandiera ma lui mi blocca dicendo che ha visto un interesse sulla punta più ad ovest, a forma di cupola e rigata da numerose rigole, di cui una più grande delle altre e con un vistoso tetto. Gliela indico subito e mi replica: "si dai, un bel diedro con anche un tettino, magari alla gente non piacerà ma il tettino è estetico". Anche in questa occasione, cadiamo come due pollastri sempre nel medesimo errore, ossia quello di non considerare la prospettiva nella quale ci troviamo e di prendere invece dei solidi punti di riferimento per calcolare propriamente le distanze che ci dobbiamo trovare a percorrere. Scopriremo, infatti, solo molto dopo che quel tettino era un bestia di svariati metri. In questo momento però non lo sappiamo ancora e ci avviamo in esplorazione con tanto di pesante fardello appresso e senza avere la più pallida idea di come approcciare la parete, ben difesa da un bosco molto fitto. Consulto brevemente Google Maps, che ho imparato essere uno strumento prezioso nelle sue fotografie satellitari, cosa che i nostri nonni avrebbero venduto l'anima al Diavolo per avere, trovando effettivamente una strada che si avvicina abbastanza alla montagna. LA mia visione però cozza inevitabilmente con quella di Frank che ha un momento di ispirazione e "sente" (non so dove ne come) che bisogna prendere la strada per la chiesetta di San Vendemiano. Guardo il Lefre sopra di noi e ho l'impressione che siamo un tantinello fuori rotta ma lascio perdere. Ci prepariamo rapidamente, come prima volta ho portato poco materiale, così ci avviamo nel bosco sopra la chiesetta. Dopo pochi passi che seguono una debole traccia siamo completamente persi: il bosco è molto ripido e fitto e non abbiamo punti di riferimento. Prendo l'iniziativa e mi oriento verso sinistra alla ricerca di uno spiazzo per poter vedere dove siamo e rinvengo una debole traccia che seguo per poco, prima che si perda anche questa. Frank prova a salire alla mia destra passando in mezzo alle ortiche, io lo seguo, bestemmiando e bestemmiandolo per questa scelta, poi ricominciamo a traversare a sinistra sempre su erto bosco. Tra le fronde degli alberi intravvedo qualcosa ma è sempre molto spostato. All'improvviso reperisco un'altra traccia che si fa largo nell'erba alta e passa sotto un gigantesco macigno che forma una grotta, buono come punto di riferimento e poco oltre trovo un ghiaioncino dove il bosco un po' si apre e finalmente riesco a vedere la montagna al di sopra di me: è circondata da diversi avancorpi che dobbiamo provare ad evitare, non ci voleva. Frank mi segue inizialmente lungo il ghiaioncino, poi traversa ancora lungamente a sinistra nel bosco fino a dove la rampa boscosa si fa ancora più ripida, al punto che sbraita: "adesso tiro fuori la corda!" e riprendiamo a salire maledicendo di essere nati. E' una gran fatica, bisogna salire puntando i piedi nella terra e sforzando continuamente gli alluci e i polpacci, due ore sono già passate, abbiamo le gambe finite e ho come l'impressione che oggi portiamo solo gli attrezzi a spasso, per davvero. All'improvviso noto un'altra colata ghiaiosa, meno marcata della precedente, che scende giù da un gruppo di alberi più piccoli e decido di seguirla, mentre Frank prova più a sinistra. Arrancando come un portatore nepalese che mette corde fisse per i suoi padroni, finalmente raggiungo una cengia dove all'improvviso si innalzano i muri rocciosi del Lefre: la vista è rassicurante, ovunque la roccia è grigia e solcata da rigole, mentre alla nostra destra una lunga fessura taglia lo zoccolo del grande diedro che abbiamo visto dal cimitero. Frank mi raggiunge bestemmiando e guarda verso l'alto: "bah, verranno cinque o sei tiri...!", al che io replico: "beh, dopo tutta questa fatica facciamoli, se la via è corta, qualcuno verrà a farla, piuttosto che venti tiri!" - "Si vabbeh, tutto questo bosco per una vietta corta, però dai, c'è il diedro...!". Ci prepariamo e do tutto il materiale da scalata a Frank in quanto voglio decisamente rilassarmi nel boschetto mentre lui esplora, senza scompormi, come un vero impresario che affida i rischi agli altri ma divide le glorie. Ovviamente non avevo la minima idea che in seguito sarei stato severamente punito per questa mia perfidia.
Frank osserva la fessura che si erge al di sopra di noi: è molto piena di erba e ci pare strano che nessuno abbia tentato di salire il diedro più evidente della parete, infatti gli dico scherzando che magari potrebbe trovare un chiodo appartenente a qualche tentativo e gli indico di salire una canaletta appena a destra del punto in cui siamo, così aggiriamo uno zoccoletto inconsistente. Si avvia su molto deciso per circa un metro e mezzo, poi con più circospezione, poi si immobilizza mentre io lo osservo perplesso: "non è per la difficoltà, è per la roccia...! - Si, certo va bene!" e tra me e me penso che la parete non convinca del tutto il compare, che sia troppo poco per lui. Estrae il martello e prova a saggiare la canaletta attorno a sé, come tira un colpo al labbro destro tutto il tratto di parete su cui sta salendo ha un sussulto, oltre al classico suono da cartongesso. Frank impallidisce e io prontamente mi sposto, così giusto per scaramanzia, ben intenzionato a non fare da cuscino umano. Riprova ancora ma tutto ciò che ha attorno è crepato e sobbalza ad ogni martellata, pare che la parete sia quasi fatta di gesso, la roccia si rompe con le dita, così il socio sale un altro metro nutrendo una flebile speranza di piazzare un ancoraggio e trova un punto in cui la roccia suona "piena", o quantomeno è un poco meno peggio che non sotto e fa entrare in azione il trapano. Piantato il primo fix, tiriamo entrambi un sospiro di sollievo, poi il socio sale più facilmente verso una grande scaglia addossata alla parete. Anche in questo caso batte col martello in ogni direzione ma trova solo marciume, al punto che ci domandiamo entrambi se la montagna non sia finta o non stia su per puro miracolo. Guardo la lama che sovrasta Frank e penso che la soluzione più ovvia sia di prendere la fessura di sinistra, ma presenta molta erba, mentre sopra ci sono delle fessurine. Il compare mi urla che vorrebbe proseguire dritto per le fessurine ma come prova a mettere un chiodo, qualcosa si sbriciola. Mentre mi bifonchia qualcosa io sposto lo sguardo a destra verso e vedo un'altra fessura, poco visibile e nascosta da un pino; sembra più pulita della sua gemella e più in linea con la spaccatura che vogliamo seguire, così urlo a Frank di traversare decisamente a destra e provare a raggiungere il pino. Inizialmente non lo vedo molto convinto ma mi ascolta e dopo un po' di battute violente contro la roccia pessima, vola giù una grossa scaglia e si libera un posto solido per piazzare un fix. Dopo averlo fissato si sposta un po' a destra su placca liscia e trova un bel blocco di roccia compatta e solida che chioda senza pietà raggiungendo l'agognata fessura. La vista della crepa è incoraggiante e la roccia migliora rispetto a prima, così egli la segue riempiendola di friend e posizionando qualche chiodo, prima di arrivare in cima alla scaglia e piazzare una bella sosta comoda. Ancora non lo sappiamo ma sarà l'unica di tutta la via. 
Per oggi abbiamo dato più che abbastanza e lasciamo su del materiale, quindi torniamo indietro ravanando ancora nel bosco senza trovare la minima traccia del passaggio fatto all'andata, bestemmiando e con l'ansia del buio in arrivo. Fortuna vuole che, arrivati ad un crinale, io scorgo un segno blu dell'acquedotto che ci riporta sulla giusta traccia per tornare alla chiesetta, altrimenti Frank sarebbe andato dritto fino al versante opposto del monte. Infatti questa volta mi segue senza proferire parola. Arrivati alla macchina incontriamo un tale del luogo che ci guarda con aria commiserevole, pensando che siamo avanzi di manicomio, poi, per pietà, ci spiega che esiste un sentiero che lui stesso ha tracciato e che si porta molto vicino alla nostra meta, il quale si imbocca da una stradina che parte proprio davanti al Castello Ivano. Lo ringraziamo mentre guardo Frank con un misto di odio e biasimo per le ore spese nel bosco ma faccio finta di nulla e ci dileguiamo velocemente, prima che si sparga la voce e al paese chiamino il servizio sanitario per farci un tso. 

Passano i giorni e, ai primi di Novembre siamo nuovamente all'attacco, questa volta seguiamo le indicazioni che l'indigeno ci ha fornito, riuscendo ad arrivare alla base in poco più di un'ora, contro la mattinata intera della volta precedente. Risalgo velocemente fino alla sosta che Frank ha piazzato la volta scorsa, poi lo recupero, insieme depositiamo la corda fissa, gli passo il materiale da salita e gli auguro ogni bene. Frank comincia con un traversino verso destra portandosi su una placca erbosa e poi ricomincia la solita routine: si batte la roccia per trovare un punto solido, si fa il buco, si batte dentro un tassello, si stringe la piastra, poi staffa e via ancora per il prossimo ancoraggio. La differenza con la volta precedente è che l'amico Fritz si arena dopo circa cinque metri in cui tutta, e dico tutta, la parete non suona solo come la gran cassa nella Sesta di Mahler, ma addirittura ad ogni martellata si vedono delle crepe allungarsi e dei pezzi saltare via in punti diversi. Frank mi guarda con un'espressione di chi è incerto se essere disperato e urlare o se essere deluso e incerto sulle proprie capacità. Metto da parte il sadismo che mi è insito e tralascio lo scherno, così lo incito ancora un poco a provare vicino all'erba dove magari c'è una vena di roccia solida ma nulla, tutta la parete è rotta, corazzata di croste pronte a sbriciolarsi appena una punta cominci a forarle. Preso dalla rabbia, il socio vorrebbe bucare tutto con una mitragliata di roba andando dritto su per la placca che lo sovrasta propendendo per la quantità anziché la qualità degli ancoraggi. Lo comprendo, però mi farebbe un tantinello schifo ridurre la nostra via in tale stato, così l'occhio mi cade verso destra dove noto una fessura parallela alla nostra, nascosta dall'erba. Il problema è che è distante da lui parecchi metri e nel mezzo c'è una grande scaglia erbosa inconsistente, seguita da un colatoio. Passato il momento delle risa sono un po' sconfortato, però guardando bene la sua posizione e l'attacco della fessura mi dico che forse c'è una soluzione. Mi rivolgo all'amico e gli dico la mia idea: "senti, prima di mandare all'aria tutto, già che sei lì, allungati con un cordino il chiodo a cui sei appeso, poi mettiti in tensione sulla corda mentre io io ti calo un po' per volta e poi pendola con decisione verso la fessura a destra, là la roccia sembra molto compatta". Devo dire che egli reagisce bene e non devo pregarlo come al solito, forse perché le croste lo avevano intimorito abbastanza, quindi esegue quanto detto e comincia a traversare a destra con la tensione della corda; avanza lentamente un passo dopo l'altro camminando su una crosta fragile come i biscotti da inzuppare nel latte e riprendere a battere col martello. Batte una prima volta e niente, la roccia si crepa; batte una seconda volta più a destra e ancora nulla; traversa in tensione ancora un metro ad uno stillicidio al centro del colatoio e batte per la terza volta trovando finalmente roccia ben compatta. Un fix entra subito in azione e poi si volge alla fessura: è una miseria, erba e croste tenute insieme dalla terra ma c'è anche della roccia compatta. Frank sale lungo la fenditura verticale a suon di chiodi e fix, scaricando una quantità importante di detriti ma alla fine raggiunge una grossa nicchia sotto il camino di uscita della fessura. E' andata, per ora, la via può proseguire. Ha impiegato un intero giorno per venire a capo di soli diciassette metri ma è andata; per fortuna io ero su una sosta relativamente comoda.
Ancora una volta ri-disponiamo tutto il materiale da scalata e scendiamo. Le due riprese seguenti sono senza storia, dedicate alla pulizia di quanto fatto fino ad adesso e al superamento del camino, un altro tratto orrendo per via delle croste ma che alla fine si lascia salire senza troppi patemi d'animo. Il bello sarebbe arrivato solo dopo. Già con le prime passate di scopa e martello, la parete rivela che le croste sono solo superficiali e che a volte sono particolarmente tenaci, fatte di argilla dura come la resina epossidica, che richiedono ore di lavoro di battitura col mazzotto per essere rimosse. Meglio così dunque, vuol dire che non costituiscono un serio pericolo se non per il piazzamento degli ancoraggi di progressione.

Passano alcuni giorni, è ormai Dicembre e nevica. Frank mi scrive che ha il sabato libero e che vuole andare avanti, io mi dimentico completamente di guardare le previsioni meteo in dettaglio e lo seguo, arrivando come di consueto sul luogo dell'appuntamento, trovandomi davanti alla sorpresa di una Valsugana completamente imbiancata e con nuvole basse, oltre ad una bella arietta friccicarella a -8°C. Dico al socio che forse sarebbe meglio scaldarsi al bar e che oggi è andata a finire male ma lui insiste che qualcosa si può fare lo stesso. Non so bene per quale motivo lo assecondo, forse per una questione di ego, ma lo seguo e insieme torniamo sulle corde fisse. La marcia di avvicinamento nel bosco, assai penosa per via del fango, ha l'indubbio pregio di riscaldarmi, così che non senta troppo i diversi gradi sotto zero della giornata. Risaliamo le corde fisse e arriviamo all'uscita del caminetto, su una sottospecie di sosta su di una lastra inclinata, che Frank mi decanta come se fosse un posto al pub. Io non sono affatto convinto e mi allungo quel che basta da poter appoggiare un piede su una motta di fango che ha la parvenza di essere piatta. Non ricordo esattamente quel che succede dopo, solo il fatto che il socio bifonchia qualcosa a cui non do peso e, pur di non dovermi muovere in quell'incubo gocciolante che è la parete come si presenta in questa strana giornata, lo "offro volontario" a partire con armi e bagagli. Quello che accade dopo è, per il punto di vista di un osservatore esterno, qualcosa di assolutamente normale, un primo che scala e il secondo che lo assicura, con pochi scambi di battute per tutto il giorno. Quello che accade davvero per chi invece vive la situazione sulla propria pelle, è un vero castigo, la meritata punizione per la codardia dimostrata nelle fasi precedenti dell'apertura. Tanto per cominciare la partenza: come Frank accenna ad alzarsi dalla sosta per imboccare una sorta di canaletta lungo lo spigolo del diedro, subito una crosta delle dimensioni del nostro sacco di materiale si muove in modo preoccupante e tutto quello che la circonda suona vuoto. Lo spavento è tale che ci diamo una bella scaldata, quasi a sudare, malgrado la temperatura glaciale. Per il momento la lasciamo lì, anche perché correremmo il rischio di farla cadere proprio sul nostro materiale da scalata, il che sarebbe un disastro. Passato questo momento emozionante, inizia la vera lotta: il cielo resta sempre plumbeo, non c'è un raggio di sole e la temperatura che si scalda all'incredibile e piacevole temperatura di -6° C, la parete resta bagnata, umida con la neve che si fa molliccia e si scioglie, malgrado il freddo, per qualche fenomeno termodinamico ignoto alla scienza (evidentemente lo scarso irraggiamento solare è più che sufficiente). Frank procede ad una lentezza quasi esasperante, lungo il solco della canaletta estremamente liscio e umido, io resto in piedi sulla motta di fango guardando verso l'alto. A mano a mano che le ore passano, si alza una corrente d'aria, giusta per peggiorare la sensazione di freddo che mi pervade. Inizialmente permane il calore sviluppato con la risalita e le manovre, poi comincio a patire sempre di più. Mi vesto mettendomi quanto di più pesante abbia a disposizione che però non basta, il freddo mi morde anche dentro il piumino; a questo aggiungiamo che dopo un po' non sono più in grado di stare eretto sulla motta di fango e perciò mi sposto sulla lastra inclinata della sosta, letteralmente appeso come un salame. Col passare delle ore viene il pomeriggio, il vento cresce di intensità, al punto che anche Frank, alcuni metri più su, comincia a battere i denti, si volta, mi guarda e mi dice: "se continua così, non so quanto ancora resisterò!". Mi sento sollevato, di solito procede come un trattore dritto per la sua strada, ma questa volta il freddo è davvero insopportabile. Per ora comunque va avanti, malgrado il vento. Si fa ormai pomeriggio inoltrato e ormai le mie gambe sono rigide e indolenzite, l'imbragatura mi taglia i fianchi e il freddo mi procura crampi alle mani. Fortuna vuole che in quel momento esca il primo spiraglio di sole di tutta la giornata e il vento cessi come d'incanto. Il sollievo è però solo momentaneo e solo per il socio che arrampica, non per me; almeno conclude il tiro su una lastra inclinata pure peggio di quella dove sono adesso. Quando scende e mi raggiunge, mi confida: "guarda, per fortuna che si è scaldato perché c'era un freddo...! Povero te che sei stato su questa sosta di m***a ad aspettare!" (bontà sua!). Posso affermare che questa volta ho pienamente compreso cosa significhi affrontare un'invernale, con lo spirito di una volta; c'è molto romanticismo nella letteratura!!!!

Alla ripresa successiva fa sempre freddo, ma almeno c'è il sole (così promettevano le previsioni), pertanto tutto si svolge come da copione e ci ritroviamo all'ultima sosta piazzata, lungo lo spigolo del diedro. Da questo esso punto appare immenso, dritto come potrebbe esserlo un obelisco, con il famoso "tettino" a sbarrare la strada, che da qui si vede perfettamente essere un ostacolo di prim'ordine. Riprende a salire Frank come di consueto, io mi terrò semmai per la parte successiva più "artificiale" della scalata, Quello che gli tocca oggi è, senza probabilità di dire sciocchezze, il tiro più marcio di tutto il Monte Lefre, di tutta la Valsugana, di tutte le Prealpi italiane, pertanto sono ben contento di starmene in sosta a gustarmi lo spettacolo, anche se ciò significa soffrire. Ancora una volta l'amico si sposta verso destra per cercare un passaggio, saggia la roccia e poi si alza lentissimamente sulla placca sovrastante che è letteralmente corazzata di croste che si sbriciolano solo a sfiorarle col martello. Passano parecchie ore durante le quali il socio si apre la strada in mezzo a tutto il marciume, facendomi piovere addosso di tutto e di più, mentre io lo canzono  di usare le staffe sul terzo grado. Mentre egli procede verso l'alto, il vento si rafforza improvvisamente e il freddo torna a farsi sentire, fortunatamente c'è ancora il sole limpido ma è comunque fastidioso. Per curiosità butto l'occhio oltre lo spigolo del diedro e vedo perché tira vento: una bufera di neve sta arrivando dritta dritta verso di noi, precipitando giù dai Lagorai. Caccio un urlo a Frank dicendogli che tra poco avremo il maltempo addosso e che comunque siamo in Gennaio; lui, col solito fare laconico di chi si rassegna al suo ineluttabile destino mi risponde: "ma tanto le previsioni di Borgo non danno pioggia! Vedrai che non fa niente!". Sarà anche, ma il dubbio è legittimo. Intanto il socio raggiunge una cengetta fuori dalla mefitica placca e comincia a traversare a destra, tirando giù un macigno dietro l'altro, uno dei quali mi passa pericolosamente vicino; io allungo il collo oltre lo spigolo e vedo il cielo farsi scuro, con nuvole di un bianco quasi abbagliante, segno che sono cariche di cristalli di ghiaccio. Mentre il socio è impegnato nella lotta alla rupe, cominciano a fioccare i primi cristalli e, dietro la nostra montagna, i Lagorai spariscono nelle nubi della nevicata. Comincio a diventare impaziente e sollecito il compare a darsi una mossa perché la situazione si sta rinfrescando! Dopo momenti di grave incertezza, in cui le nostre parole si sono perse nei turbini del vento, sento distintamente il richiamo della nuova sosta, ora spetta a me la solita manovalanza di risalita, piazzamento delle corde fisse e dei vari cordoni, almeno mi sgranchisco un po' le gambe dopo un'altra giornata bloccato in posizione improba. Raggiungo Frank nel centro del diedro che ormai è pomeriggio e gli dico cosa si sta scatenando sul versante opposto del monte ma devo anche ammettere che per una volta ha avuto ragione a fare finta di nulla, infatti il vento cala di intensità e la tempesta di neve devia totalmente verso i Lagorai, lasciandoci al sole. Ovviamente mi risponde: "te l'avevo detto che le previsioni di Borgo non davano pioggia!". La vista di ciò che abbiamo di sopra è abbastanza desolante: tutto il centro del diedro che dovremmo seguire è occupato da erba grassa e rigogliosa, che ci costringe quindi da arrampicare con immensa fatica sulle pareti laterali. Frank fa ancora qualche metro prima di lasciare l'impresa a tempi migliori, quindi ci caliamo e torniamo a casa. 

A questo episodio seguono un altro paio di riprese in cui puliamo un po' le lunghezze appena percorse e finiamo di scalare il grande diedro grigio che ci porta direttamente sotto i gialli strapiombi che rappresentano la vera incognita della salita, dopodiché Frank fa una cosa che mi rompe alquanto le tasche, ma su cui taccio perché tutto sommato la via deve proseguire, ossia un giorno infra-settimana se ne va su da solo e chioda un altro tiro. Vabbè, vedremo il da farsi dopo questa nuova sezione. Non passa molto tempo e siamo nuovamente su entrambi, nel cuore del diedro strapiombante. La sosta da cui partiamo è talmente misera, che non ho dubbi nell'identificarla come la peggiore di tutta la via; per di più non c'è spazio per potersi scambiare i ruoli e la risalita delle corde fisse comincia a farsi sentire. Tra l'altro oggi Frank è particolarmente impaziente, pertanto non ho voglia di rogne e gli cedo il passo. Il socio comincia a scalare la fessura giallognola al centro del diedro, intasata di croste e di terra, andando avanti dieci centimetri alla volta, mentre io sono torturato in una posizione assolutamente improba, con un piede su una minuscola tacca, un piede in pressione nel diedro e faccio contrapposizione con la sosta per riuscire a stare in equilibrio, in quanto sono in una strettoia dove non riuscirei a stare appeso. Mentre Frank scala il diedro le ore passano con una lentezza assolutamente esacerbante, quasi da impazzire, l'imbrago mi taglia i fianchi più del solito, lo sento mordere direttamente le mie carni, le gambe stentano a rimanere dritte e i tendini fanno sempre più male. Il punto chiave del tiro che oggi stiamo facendo è un tetto da cui cola uno stillicidio, tutto intorno la roccia è liscia come una lavagna e Frank lo supera riuscendo a martellare due buoni chiodi in minuscoli buchetti. La parte sovrastante, tuttavia, non è da meno e sento distintamente un "c'è la parete che è fatta di segatura!", seguito da una sequenza di bestemmie che si fanno via via più vaghe e informi a mano a mano che la corda fila. Dopo cinque interminabili ore, finalmente sento chiaramente un: "c'è un terrazzino! Aspetta che lo disgaggio!", salvo poi udire un porcone galattico quando sotto la terra e l'erba la parete ritorna liscia come il vetro: "vabbè, la sosta verrà scomoda!". Ma che novità! Intanto però abbiamo raggiunto l'enorme "tettino", che a guardare bene sporgerà di cinque o sei metri dalla verticale ma che lascia intravvedere un passaggio alla sua destra molto logico, senza doverlo affrontare di petto. E' tutto sommato una buona notizia. Risalgo fino a lui con grande fatica, dolente perfino nei gomiti, porto il fardello e sistemo le corde fisse, poi entrambi ci caliamo giù sapendo che la risalita successiva potrebbe essere decisiva. A causa di impegni vari, non riusciamo a trovarci sistematicamente tutti i sabati, tra l'altro si sta avvicinando la primavera e con essa il grande caldo, che renderà impossibile salire la parete, ben peggio che il freddo, quindi diventa adesso imperativo uscire dal diedro e terminare la salita della parete verticale. 

La ripresa decisiva arriva, eccome se arriva! Ci tocca, anzi mi tocca, una levata prima dell'alba, un cospicuo rifornimento di fix, il ritrovo direttamente al parcheggio sotto la via per poi risalire gli ormai trecento metri di corde fisse fino all'ultima sosta lasciata, una risalita lenta e faticosa, resa insidiosa dalle scaglie di roccia che non bisogna toccare. Ci ristabiliamo entrambi sulla sosta appesa che Frank ha preparato la volta scorsa, lo lascio andare nella speranza che si sbrighi, ma soprattutto mi approprio del suo seggiolino e mi appollaio sulla sosta che, per una volta, riesce ad essere perfino sopportabile, rispetto alle torture delle volte precedenti. Il socio chioda una placca liscia ma appoggiata e poi si sposta a destra per aggirare il grande soffitto pervenendo così ad un pulpitino sotto l'ultimo grande tetto del diedro, che da sotto non sembrava nemmeno granché. Lo raggiungo velocemente e porto tutto il materiale, la mattinata è già trascorsa ma c'è ancora tempo per finire l'opera, alla peggio torneremo giù con le pile frontali. Frank riparte lungo la placca gialla liscia e verticale sopra il grande soffitto e comincia a portarsi sotto un tetto nero, orizzontale, che sbarra l'uscita del diedro, proprio quando al di sopra si intravvedono le frasche dei pendii sommitali. A metà tiro il socio vorrebbe chiodare dritto un arcigno strapiombo giallastro ma io insisto che sarebbe più corretto continuare nella compatta incavatura tra placca e parete del diedro, più scalabile e più compatta, scelta che si rivela azzeccata perché la roccia tiene sempre, a parte una breve scaglietta. Dopo la consueta lunga attesa finalmente Frank riesce a piazzare la sosta all'uscita dell'immenso diedro del Lefre, io lo raggiungo velocemente e piazzo le corde fisse per poi studiare l'uscita in un secondo momento. E' fatta, siamo riusciti a finire la scalata della parete in tempi utili, adesso tocca finire la pulizia e cavare tutto il materiale lasciato in parete. Rientriamo soddisfatti dopo la lunga giornata passata appesi nel mare di croste precarie di questa montagna ma siamo riusciti a venirne a capo. E' stata una via continuamente tormentata dall'idea che si giungesse ad un certo punto da cui fosse impossibile poi proseguire a causa della friabilità della roccia, invincibile anche al trapano, ma che alla fine ci ha regalato una linea ideale, tracciata dalla natura, che pochi hanno ancora il privilegio di poter percorrere al giorno d'oggi. 
Nei mesi successivi approntiamo una discesa in corde doppie, valutando l'idea di proseguire lungo l'ultima balza della parete, molto erbosa e friabile, o di terminare la via lì, all'uscita del tratto verticale di parete. Scioglieremo successivamente questo nodo ma per il momento siamo contenti del risultato. Il nome scelto per la via, "la scala di Penrose", fa riferimento alla figura impossibile che il matematico britannico disegnò ed inviò all'amico Moritz Escher, che ne trasse un quadro e che calza alla perfezione alla forma del diedro che abbiamo scalato. 

La scala di Penrose I tiro
Apertura del primo tiro

Uno dei tratti chiave della Scala di Penrose
Apertura del secondo tiro, molto sporco e crostoso

La Scala di Penrose quarto tiro
Apertura della canaletta nella freddissima giornata di Dicembre

Grande diedro del Monte Lefre
Il grande diedro grigio

Strapiombi del Monte Lefre
Il diedro che ha richiesto ben 5 ore ad essere vinto

Tetto finale della Scala di Penrose
Il tetto finale del grande diedro

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domenica 27 aprile 2025

LA VIA SCOMPARSA

 LA VIA SCOMPARSA

Lo spigolo Casara al Baffelàn


E' sempre l'estate del 2022, fa un caldo pazzesco e io avrei voglia di alta montagna. Telefono a Bruno che si mostra un po' recalcitrante a sciropparsi ore ed ore di macchina con un'alzata antelucana. E vabbè, siamo alle solite, perciò penso a qualcosa di più vicino a casa quando, con tono ardimentoso, il socio irrompe con "hanno messo a posto quella via lì, andiamo a far quella! - Fa un caldo bestiale - Ma no, da quelle parti è sempre ventilato!" (Mah!). Metto nello zaino una razione di sali, oltre che al rosmarino.
Ci troviamo al solito posto e partiamo ad esplorare lo spigolo Casara al Baffelàn. Per quanto si tratti di una cresta assai estetica, la massiccia presenza di mughi su di essa ha fatto si che sia finita gradualmente nel dimenticatoio in favore di itinerari più puliti, almeno fino al 2019 quando Mario Brighente e soci hanno dato una ripulita e aggiunto qualche chiodo qua e là.
Devo dire che la relazione pubblicata è assai seduttiva, sembra quasi una bella via.
E' mattino presto, mettiamo il naso fuori dalla macchina: fa un caldo bestiale! Peggio, sembra che la Terra sia stata investita da un brillamento solare e che l'atmosfera stia fondendo. Ci avviamo lungo il sentiero che porta al Baffelàn dosando bene i passi per risparmiare più liquidi possibile e spostandoci di ombra in ombra, stando al sole, infatti, si rimpiange la fonderia! Arriviamo sotto la cresta e non ho nessuna intenzione di stare a disfare il materiale al sole, per questo mi butto rapidamente in un canale e, dopo un po' di lotta con l'erba, arrivo in prossimità di una sosta. L'unico problema è che è posta in una posizione improba e perciò approfitto di un fix posto in basso per recuperare Bruno. Mi raggiunge e continua per il canale, mentre io mi schiaccio contro la parete per stare il più all'ombra possibile, sembra di essere nelle Cronache di Riddick mentre fuggo da Crematoria. Dopo un po' mi giunge il richiamo e lo raggiungo lesto in una stretta nicchia di sosta dove riprendo il comando della cordata e supero un caminetto e poi una stretta cengia erbosa su cui mi faccio strada lottando con ragni delle dimensioni di Shelob, i quali abbandonano le loro case con lo stesso fare annoiato di un impiegato allo sportello comunale il 14 Agosto, prima di arrivare su un buon pulpito per recuperare Bruno.
Il socio mi raggiunge e si trova sotto la parete "Maltini", chiave e incognita della salita, da cui sporge un grosso chiodo ad anello dei secoli che furono. 
Non lo vedo tanto convinto ma tiracchiando un poco il vecchio chiodo si alza sopra lo strapiombo che ci sovrasta e sparisce alla mia vista. Come di consueto passano attimi interminabili di ansia e di bollitura, mentre cerco di nascondermi dal sole cocente senza avere molto successo, poi d'un tratto mi giunge il richiamo dall'alto. Quando mi innalzo lungo la parete Maltini, capisco perché mi è toccata una discreta attesa: tutto è intasato di toppe erbose e si sale mangiando rami e polvere in quantità assai fastidiosa, senza contare che i chiodi sono pochi e difficilmente integrabili. Raggiungo il compagno alla sosta e guardo verso la lunghezza successiva, fa abbastanza schifo: un camino stretto pieno di terra e da cui penzolano rami di mughi e ragnatele grosse come paramassi. Ho un attacco di coniglite mista a nausea e cedo volentieri il passo all'amico che imprecando e mangiando polvere mi maledice e si inoltra nel camino, scacciando le bestie che cercano di sbarrargli il passo con il fare di un Don Chisciotte che si spalma contro i mulini a vento. Questa volta il richiamo giunge veloce e lo raggiungo in fretta su un bel terrazzo, a circa metà dello spigolo. 
Da questo punto la via, per come ci è stata segnalata, si sposta sulla destra, aggirando un risalto verticale, così traverso sulla cengia e supero lesto un dirupo giallastro per andare a recuperare Bruno su un robusto albero, in esposizione sopra la parete est. 
Ciò che segue da questo punto in avanti è una dura lotta ingaggiata dal compare che cerca di superare una placca levigata stando in un canale erboso in quanto impossibilitato a proteggersi; abbiamo portato chiodi e martello per assicurarci e abbiamo pure pensato che stessero più comodi in macchina, anche loro hanno bisogno di comodità. Infatti la placca che tocca in sorte a Bruno non è tecnicamente difficile ma è sportetta e necessita dei chiodi che non abbiamo, pertanto deve mantenersi vicino ai mughi per riuscire a proteggersi adeguatamente. Dopo una lunga attesa ci ritroviamo quasi alla sommità dello spigolo, con ancora un tratto disteso ma densamente ricoperto dai mughi e per di più è pomeriggio inoltrato, così insisto che piuttosto che finire in cima sul far della sera, sia decisamente più comodo scendere da dove ci troviamo sfruttando i mughi, tanto la parte più interessante della via è dietro di noi. Bruno mugugna un poco ma alla fine si convince e scendiamo più facilmente di quanto preventivato.
Siamo un po' delusi per le condizioni disperate in cui versa la via, pur essendo la più lunga del Baffelàn e la più comoda d'attacco ma almeno abbiamo la soddisfazione di essere stati tra i pochi che l'hanno ripetuta, imprecando per la scarsa cura che i nostri predecessori ne hanno avuto.

Lottando coi mughi

Spigolo Casara parete Maltini
La parete Maltini



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sabato 30 novembre 2024

UNA GITA DOMENICALE

 UNA GITA DOMENICALE

Via Vicenza al Baffelàn


E' estate 2022, fa un caldo tremendo e l'Italia è secca. 
Questo è il racconto di una normalissima gitarella domenicale che improvvisamente si trasforma in una scalata ricca di emozioni forti, diciamo non per cuori fragili. 
Il primo evento che ha contribuito all'escalation è che né io né il socio Bruno abbiamo voglia di cacciarci in qualche posto affollato dove verremmo spennati senza pietà, con annesse parecchie ore di macchina, pertanto dirigo la mia attenzione sulle solite Piccole.
La mia attenzione ricade su una vecchia via sul Baffelàn, la quale francamente non so davvero cosa abbia di speciale se non il fatto che sia a nord e che sembra avere una linea abbastanza carina, pertanto la propino al compagno che la accetta in maniera acritica. Per sentirmi più maschio gli propongo anche di saltare una parte di avvicinamento tramite un raccordo attrezzato sulle rocce alla base della parete e sempre acriticamente il mio proposito viene accettato.

Arriviamo a Campogrosso come da prassi alla mattina presto per prendere il posteggio gratis e ci incamminiamo verso la meta. Fa già caldo, non tira un filo di vento e il sole picchia già ossessivo. Impongo un passo moderato per evitare di arrivare all'attacco già annegato ma è del tutto inutile, il sole picchia spietato cuocendo quel che rimane dei nostri cervelli, i quali nel frattempo sono andati in vacanza nei mari del nord. 
La parete del raccordo non è invitante, anzi è deprimente, anzi fa schifo e risente dell'abbandono, piena di ragni grossi come i figli di Shelob, ma non demordo dal mio proposito e incoraggio il socio mistificandogli la realtà dei fatti: siamo due cerebrolesi che scalano a est in un giorno di anticiclone di Luglio.
Il primo tiro del Raccordo Escondido, lotta con le ragnatele a parte, scorre liscio come l'olio, un po' come la vaselina che serve a lubrificare bene il retto prima di...! Infatti le rogne arrivano immediatamente: guardiamo in alto è sembra che la via termini lì, su una placca liscia, eppure la relazione indica una sezione più facile di quella appena percorsa; scrutiamo meglio e molto in alto notiamo uno spit artigianale mimetizzato col colore stesso della pietra. Che razza di scherzo di cattivo gusto è questo?
Bruno bestemmia qualcosa e poi accenna a partire su questo tiro infame, anche se toccherebbe a me ma nel dubbio taccio. Bruno prende un friend piccolo, portato per fare la via successiva con l'ardore di dire "tanto questo pezzo è sportivo" e lo incastra malamente in una crepa: "'speta n'attimo che provo, 'arda qua che ghe xe 'na tacca! Ma...xxx...come c... fagnala a passare de là?!" (Aspetta un momento, guarda che qui c'è una tacca! Adesso come faccio ad andare di là?). Lo guardo alzarsi di un metro e mezzo sopra di me e rimanere in balia di appigli minuscoli, del friend, della roccia lichenosa e coi piedi al vento. D'un tratto a Bruno tremano le gambe e non riesce a spostarsi a sinistra, mentre lo spit resta lontano; mi offro come appoggio con la testa mentre con le mani gli tengo ferma la gamba sull'unica tacca utile. Continua a tremare finché, con un colpo di anca si riequilibra sulla misera tacca e sulla mia capa, poi la situazione migliora poco. Con un movimento di disperazione, il socio afferra alla cieca un appiglio decente, giusto per le dita e si stabilisce in ordine sulla placca per portarsi ad afferrare quello spit maledetto che il chiodatore ha posizionato in quel modo criminale; poi si volta e mi dice laconico: "che razza de sbrodego che el fa sto qua!" (che pasticcio che combina questo apritore). 
Bruno termina la lunghezza bestemmiando lungo un pilastrino e a mia volta lo raggiungo porconando come un vero vecchio buzzurro al bar perché l'apritore ha piazzato gli ancoraggi nel punto più liscio possibile e lasciando gli appigli tutti su un lato; a peggiorare questo stato di cose si aggiunge il fatto che la relazione in nostro possesso sia completamente errata. Mi sobbarco io un tratto di raccordo tra grandi macigni e poi Bruno supera uno sperone di roccia solida come i cantuccini invecchiati nella credenza della nonna su cui bestemmia in modo sempre più creativo, portandoci fuori dalla variante di raccordo.
I tiretti divertenti che dovevano evitarci l'avvicinamento faticoso sono stati un incubo spaventoso, per fortuna trascorso troppo in fretta per fissarsi bene nella memoria e mostrarci la nostra pirlonaggine in tutto il suo splendore, solo che adesso siamo troppo provati per proseguire lungo la Thiene, altrettanto impegnativa e quindi suggerisco di optare per la più facile Vicenza, una classica abbastanza gettonata e che mi ero tenuto "in tasca" proprio come ripiego in un'occasione come questa. 

Naturalmente quando qualcosa parte male, il rischio che essa finisca peggio è sempre presente, però per fortuna l'esperienza aiuta abbastanza ad evitare delle grandi e sonore delusioni, se ci si concede la calma necessaria a riflettere. La Vicenza è stata uno di quei casi e naturalmente, l'insieme è stato aggravato dal fatto che la relazione in nostro possesso continuava a descrivere così precisamente l'itinerario che avremmo benissimo potuto essere sulla montagna sbagliata.
Il primo muro della Vicenza fila liscio come l'olio, stessa replica della parte sottostante e la mia idea di portare dei dadi si rivela determinante perché la roccia non presenta vere fessure ma solo buchetti da chiodi o, per l'appunto, dadi. Passa anche il secondo tratto con la differenza che la relazione segna la sosta nel posto sbagliato, infatti recupero Bruno su un masso incastrato in un forcellino e tocca a lui poi salire ancora per un bellissimo camino prima di trovare la sosta corretta. Anche il canale comune alla Verona scorre tranquillo ma la sorpresa ci si presenta ovviamente quando la Vicenza si stacca a destra per seguire una sua traiettoria di uscita indipendente, la quale, dalla roccia assai ruvida, sembrava dimenticata da ormai lungo tempo.

Quando stiamo per partire per l'ultimo grande muro che ci si para davanti, il socio riparte a razzo lungo le balze, percorrendo metri su metri con spavalda incuranza del vuoto offerto dalla rupe, arrivando così ad un punto in cui si blocca, come un'onda che s'infrange contro un'alta scogliera. E' sotto un gradino, alto poco più di un metro, su cui non riesce ad issarsi su. Lo vedo armeggiare prima con un friend e poi con un chiodo, in seguito butta su la gamba con un passo da tedesco per aver ragione di questo gradino. Non riesco davvero a capire come qualcuno si possa bloccare su uno scalino di un singolo metro di altezza, penso alla stanchezza, ma quando lo raggiungo capisco il perché di tanta apprensione: durante la filata di corda non aveva piazzato alcuna protezione ed era andato a sbattere contro un muretto marcissimo di roccia a cubetti. Appena accenno a passare, levo il friend e l'appoggio mi si sbriciola sotto i piedi; riesco a malapena a rimanere aggrappato con le unghie e con i denti, poi con un colpo di reni sono oltre l'ostacolo. Me la sono vista brutta, essendo l'intero passaggio in traverso ma se il compagno avesse avuto la mia stessa sorte sarebbe diventato un cumulo informe di ossa e stracci sulla rampa sottostante, senza se e senza ma.
Arrivo in sosta con aria nullafacente, vista l'esperienza appena passata, e ci guardiamo nelle palle degli occhi; Bruno mi dice: "vago mi che cussì fem in prestezza!"; non obbietto, anzi mi sento rasserenato a fare lo scaricabarile, gli passo il materiale e lo vedo partire per la lunghezza originale di uscita. 
Non faccio in tempo a tirare un sospiro che vedo il compare restare perplesso davanti ad un muro compatto nero. Passano alcuni minuti e ancora non si muove, così comincio a insospettirmi anche io; scruto più in alto per capire se siamo sulla strada giusta e vedo un chiodo dalla forma familiare, uno di quelli che fabbrica Frank e che avrà venduto ad un ripetitore, forse a Mario Brighente che bazzica spesso la zona e ha aperto piccole perle sulle vette minori del gruppo. Rassicuro Bruno che a questo punto aggredisce il muro con determinazione e piazza un dado in un bel buco, poi affronta un tratto marcio con mia grave apprensione ma passa oltre. Sparisce alla mia vista e procede verso l'alto rapidamente. Dopo qualche minuto le corde non scorrono più e sento una sequela di imprecazioni alquanto fantasiose provenire dal suo indirizzo; lo chiamo chiedendogli che cosa stia succedendo ma ottengo delle risposte vaghe. Passano altri eterni minuti prima che lentamente le corde ricomincino a scorrere e solo dopo un'eternità giunge il tanto atteso richiamo: "molla tutto!!". Parto dalla sosta e salgo il muro nero e subito un altro pezzo per poco non mi resta in mano, ma fortunatamente sono da secondo di cordata; poi risalgo verso uno stretto camino e capisco come mai Bruno fosse rimasto a lungo a pensare al da farsi: una volta a forma di campana, rotta a metà da una crepa sbarrava il cammino, strapiombando da tutti i lati, ovviamente di chiodi nemmeno l'ombra. Provo a salire a destra, poi provo sulla placca a sinistra ma niente, non trovo un solo appoggio per alzarmi oltre lo strapiombo, finché desisto, mi levo lo zaino e striscio spingendo come un verme in un cunicolo attraverso la fenditura, riuscendo a ristabilirmi solo molto più in alto. Per fortuna che la relazione diceva III+!!
Raggiungo Bruno e poco dopo sbuchiamo in vetta al Baffelàn sul far della sera, abbiamo realizzato che in fin dei conti siamo saliti per una via di circa trecento metri e con tratti veramente impegnativi; per essere stata una semplice uscita domenicale era stata abbastanza densa.
Mentre siamo sulla vetta la mente vaga per i ricordi che ivi si sono accumulati: penso a quando vi misi piede la prima volta con mio padre in una giornata autunnale di ormai tanto tempo fa, oppure quando vi tornai con Stefano dopo aver percorso la Soldà. Bruno fa altrettanto raccontandomi di quando cominciò ad arrampicare con Moreno salendo una alla volta tutte le vie del monte, molte delle quali nel periodo in cui furono appena aperte. Ci avviamo piano piano lungo la discesa mentre la luce si fa più fioca e l'aria torna ad essere fresca.

Raccordo Escondido
L'inizio del Raccordo Escondido

Via Vicenza
Il tratto marcio sulla via Vicenza

Camino finale via Vicenza
Camino finale della via Vicenza 


Relazione
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martedì 27 agosto 2024

LA SISILLA

 LA SISILLA


Capita nella vita di combinarne in giro di tutti i colori ma di avere sempre uno scoglio che ci ricordi che siamo umani e che ci ponga sempre sei limiti, regalandoci delle sonore bastonate. E' consuetudine che per un arrampicatore questo sia proprio un insignificante pezzo di roccia posto sotto casa. Talvolta questo succede anche a diversi anni di distanza.
La Sisilla, improbabile traslitterazione italiana di un qualche nome impronunciabile dell'antica lingua cimbra, è proprio quello scoglio ed è quella paretina gialla e strapiombante che domina il Passo di Campogrosso e che è stata per un secolo la "palestra" dell'alpinismo vicentino. E' chiaro che con una tale nomea la Sisilla, pur essendo abbastanza insignificante, presenta difficoltà di tutto rilievo. Agli occhi di gente moderna, è quel termine "palestra" che trae in inganno e che tende a sminuire la reale entità di ciò che vi trova sopra.
Innanzi tutto bisogna capire cosa s'intendeva per "palestra" un secolo fa: è inutile nascondere che a all'epoca in cui essa fu esplorata si era sotto il Ventennio e che la sua mentalità di credere, obbedire e combattere, pervadeva tutti gli aspetti della vita quotidiana. Allenarsi significava quindi scontrarsi contro qualcosa di assolutamente mostruoso per le reali possibilità dell'epoca al fine di uscirne ben temprati e virili nei confronti di montagne ritenute più serie. Altro che gradualità!
Sotto quest'ottica si capisce come mai, per mezzo secolo almeno, le vie tracciate sulla Sisilla mantennero la nomea di più difficili (o tra le più difficili) delle Piccole Dolomiti. 
In seguito all'attrezzatura di una falesia sulla fascia strapiombante basale della parete, con passaggi molto duri, questi itinerari hanno gradatamente perso interesse finendo per essere un po' sminuiti e dimenticati, erroneamente!
Uno dei traviati da questa menzogna è il sottoscritto. 
Con questa parete che, dal punto di vista alpinistico, nella storia dell'umanità è del tutto trascurabile, ho instaurato un rapporto particolare, fatto di tanti tentativi andati a vuoto, rabbia, disillusione e timore reverenziale, anche dopo una certa preparazione, fin quasi all'ossessione. Però alla fine la perseveranza ha pagato.

2010


Quando in quel tempo passavo per Campogrosso, la mia attenzione era catalizzata esclusivamente dal Baffelàn e dagli Apostoli, dove c'erano vie abbordabili per un principiante quale ero io (tutto lo sviluppo degli avancorpi nord del Cornetto era poco conosciuto e ancora di là da vanire), non vedevo minimamente la parete in questione. Un giorno Paolo, che avevo da poco conosciuto a Rocca Pendice e che era al massimo del suo entusiasmo, mi propose di andare a fare una via impegnativa in Dolomiti, col senno di poi un po' troppo al di sopra delle capacità di un esordiente, e che per farla bisognava allenarsi duramente, così proposi a Stefano di aiutarmi in tale allenamento e pensai di sfruttare la comoda parete della Sisilla. Pensai quindi ad una sorta di percorso "in salita", partendo da alcune vie facilotte e continuando ad incrementare le difficoltà. Il piano era pure buono, se non fosse stato che nel pensarlo ero talmente inesperto che ancora credevo che le relazioni delle guide fossero la Bibbia e i gradi ivi riportati erano degli assoluti, uguali per tutti. Questo ovviamente per non parlare del coniugare montagna e falesia azzardando tiri difficili e lavorandoseli per bene onde acquisire movimenti e confidenza con la roccia. 
Quanta ingenuità che avevo all'epoca! 
Coniugando la monomania di Paolo per le Lavaredo (giusto per citare Géricault) e la mia impazienza verso il miglioramento immediato riuscii a creare la ricetta perfetta del disastro e pertanto convinsi Stefano (povero ragazzo) a tentare un primo assaggio di cosa volesse dire il Sesto Grado (come ero romantico!). La prima volta quindi che approcciammo la Sisilla era Maggio del 2010, una giornata umida e con un cielo denso di cumulonembi. Io mi sentivo sicuro di me stesso essendo uscito dalla ravanata del Cimoncello (vedi lo Spigolo Conforto) e pensavo in cuor mio di aver bruciato le tappe. Avevo appreso i rudimenti da secondo di cordata ed ora potevo mettermi seriamente alla prova, il socio era la carne da cannone per raggiungere lo scopo. Noi non ci preoccupammo tanto del meteo date la vicinanza della parete alla macchina e il suo aggetto. La nostra intenzione era di percorrere la Diretta Soldà che, almeno sulla carta, doveva essere abbordabile perché di grado simile a quella che avevo appena percorso, con un passaggio appena più impegnativo rispetto allo spigolo Conforto. Arrivammo a Campogrosso di buon mattino con una spiragliata di sole ma, nel volgere dei minuti occorsi a cambiarci e a preparare l'attrezzatura, le nuvole scesero a coprire tutto, immergendoci in una nebbia così fitta da sentire la condensa fredda sulla pelle. 
Ci avviammo alla base della Sisilla sostenuti meramente dal fatto di essere lì di mattina presto ma senza avere una chiara idea di cosa ci aspettasse; questo fatto ci avrebbe giocato un bello scherzo dopo pochi minuti. Le indicazioni in nostro possesso erano poche e contradditorie, senza aggiungere che la nebbia opprimente non permetteva di capire bene la conformazione del posto, tratte da due guide di cui una era degli anni '70 e l'altra rivolta a conoscitori del posto, così interpretai erroneamente la dicitura "accanto alla prima caverna" come il primo buco da sinistra e non la caverna vera e propria che si trovava invece più in là (scoprii solo molto dopo che Soldà aveva tracciato la sua via partendo suppergiù dove avevamo attaccato noi per poi compiere un traverso a destra, rettificando la via in un'occasione successiva, quindi, tecnicamente, entrambe le relazioni erano corrette). 
Partì Stefano attratto dai fix ravvicinati posti su un piccolo avancorpo, come le falene vengono attratte dalle lampade UV, e con due balzi era già alla prima cornice, poi continuò a salire per roccia gialla e strapiombante fino a un tetto con un dado incastrato dove si bloccò. Provò e riprovò a sollevarsi senza successo fino ad avere l'idea vincente di inserire una fettuccia nel dado e usarla come appoggio per il piede per riuscire ad afferrare una presa piatta molto alta e passò oltre, proseguendo con fatica sempre crescente fino all'esaurimento della motivazione, poco sotto la prima cengia. Ad una presa ricomposta e tenuta insieme dalla colla gettò definitivamente la spugna.
Stefano fece sosta su un solido fix inox e mi recuperò per vedere se si potesse fare qualcosa ma arrivai a lui sfinito perché da secondo di cordata il tratto strapiombante si rivelò particolarmente pesante. Lasciammo una maglia rapida sul fix e ci calammo alla base con le pive nel sacco senza riuscire a capire dove fosse l'errore quando, posati i piedi a terra, le nubi si sollevarono per un attimo e fummo in grado di constatare che eravamo completamente spostati a sinistra rispetto alla direttrice della via, quasi dalla parte opposta della parete. Cominciai a capire che il mio egoismo stava venendo lentamente ma inesorabilmente punito.
Provammo a cercare l'attacco giusto ma Stefano ormai era entrato nella modalità "pensione", così provai ad attaccare la vicina Carlesso tanto per fare un po' di esplorazione, visto che iniziava con un bel diedro di moderata difficoltà, utile comunque a fare un po' di allenamento. Raggiunta la prima sosta sotto il nero colatoio recuperai l'amico che, una volta raggiuntomi, alzò il naso ed esclamò l'ormai celebre (tra noi): "Noooooo, ancora a strapiomboooo!", con lo stesso tono di voce di chi si sente condannato a scalare in eterno e un'espressione facciale di chi sta pensando al panino con la soppressa che lo aspetta a terra ma che gli è negato dal suo carceriere.
Riavutosi dallo shock, con il fare di chi deve cavarsi d'impaccio, mi prese dall'imbrago gli attrezzi con un "dame qua!" e si avviò su per il colatoio, bestemmiando in una lingua arcana e oscura.
Giunto con fatica sotto la prima strombatura cominciò a piovere con una scrosciata vigorosa che solo per l'assenza di vento e lo strapiombo non ci inzaccherammo fino alle mutande. Con una manovra assai azzardata, visti i chiodi marci, calai Stefano e insieme rientrammo alla macchina sotto il diluvio. Eravamo scornati e la passione neonata del socio nei confronti della montagna era appesa a un filo ma, con la pancia piena e i piedi sotto la tavola, concordammo che quel giorno avevamo sbagliato tutto e che avremmo fatto prossimamente un nuovo tentativo di salita. Dopotutto anche questa era una lezione preziosa.
Quel giorno arrivò il 30 Giugno, una bella giornata di sole, ventilata il giusto e ci portammo ancora alla base della Sisilla. Questa volta non sbagliammo e Stefano salì la prima divertente fessura. Lo raggiunsi poco dopo e mi preparai a proseguire lungo il tratto strapiombante. Cominciai lentamente lungo un diedrino molto aggettante ma con chiodi ravvicinati fino al pancione che lo occludeva. Mentre cercavo un modo per innalzarmi ad esplorare oltre, mi sfilai una staffa e la appesi all'ultimo chiodo, vi infilai un piede mentre l'altro lo portai su uno speroncino quando, d'improvviso, mi giunse il richiamo del compagno in sosta: "Vecio, andemo zo', non go voja de tribolàr on co' (Vecchio, scendiamo che non ho voglia di fare fatica oggi)". Lo guardai inorridito perché tutto stava andando bene, avevo la grinta giusta e sentivo che potevo salire ma niente, se il compagno non voleva proseguire allora bisognava scendere (vedi l'episodio della Guglia GEI).
Volsi lo sguardo verso l'alto agli strapiombi beffardi, quasi mi deridessero apertamente e andai giù, anche quel giorno purtroppo non si andò oltre.

La Sisilla stava cominciando ad ergersi a baluardo dell'inespugnabile per il sottoscritto e la cosa cominciava a darmi sui nervi. Non mi diedri per vinto: una volta poteva andare male, capita, ma due volte era il sintomo di qualcosa che non andava. Questa sconfitta cominciò a porre un serio limite a ciò che potevo e non potevo fare e iniziai a sentire un certo peso sulla coscienza. Dovevo trovare un rimedio. Pertanto coinvolsi Paolo nell'idea di ripetere una delle vie della strapiombante parete gialla di Campogrosso. Mi ci volle del lavoro duro e tutta la mia arte manipolatoria per riuscire a presentargli l'idea sotto una veduta appetitosa, specie perché ciò che lui aveva intenzione di fare in Dolomiti equivaleva alla Sisilla moltiplicata n volte (scoprii in seguito che non era affatto vero). Malgrado ciò l'uomo non era tanto convinto di ciò che andava a fare. 
Fu così che di ritorno da una salita sul Fumante (vedi l'episodio della Guglia Negrin) ci fermammo giusto un poco a studiare e scrutare il muro. Prendemmo le corde per provare a fare qualcosa e partii lungo la fessura che Stefano aveva percorso la volta precedente. Dopo circa un metro scivolai piombando col culo sull'erba come un sacco di patate, per fortuna era morbido! Che figura da pellegrino! Paolo mi guardò molto scettico poi provò lui, la superò in modo un po' rocambolesco e se la studiò bene provando a risalirla in modi diversi. Convintosi che fosse fattibile decidemmo di dedicarci più seriamente in seguito.

2011

Passò un anno prima che Paolo si unisse alla crociata e si decidesse a fare le cose sul serio. Per il rinnovato tentativo convinsi anche Stefano a partecipare, per quanto mi sembrasse molto poco propenso a gettarsi ancora su quell'abisso strapiombante colr oro che due volte lo aveva fatto faticare come un prigioniero nel Gulag. Tutti e tre ci portammo sotto la parete presso la solita fessura. 
Partì Paolo deciso, con quel fare spavaldo e un po' sbarazzino del "oggi facciamo tutto e fuori dai piedi!", piazzò un bel friend dentro la crepa e si innalzò fino al chiodo al termine della fessura per poi spostarsi a sinistra al terrazzino di sosta. Ci guardò con fare sicuro e fece per recuperarci ma, dato che sia io che Stefano ce ne stavamo spaparanzati sul prato in comoda attesa, come a guardare una commedia, gli ingiungemmo di proseguire e saltare tutto quel trambusto. Paolo saltò la prima sosta grugnendo qualcosa di incomprensibile e ricominciò a salire a suon di staffe fin sotto il solito pancione giallo, appendendosi come un salame al medesimo chiodo dal quale Stefano mi aveva fatto calare giù. 
Restò lì appeso per un po' studiano il tratto aggettante, poi tentò di innalzarsi per cercare di mettere i piedi sullo speroncino fondamentale ma si ribaltò all'indietro finendo a ballonzolare sempre sul medesimo chiodo. Ritentò ancora, buttandosi in alto ad afferrare una grande bugna piatta ma, non riuscendo a vedere il successivo ancoraggio, mollò la presa finendo nuovamente a danzare nel vuoto.
Lo spettacolo durò ancora qualche minuto quando egli mi gettò uno sguardo rassegnato dicendomi: "basta, troppo dura, calami giù!". 
Fu la replica a tre della volta precedente, l'unico lato positivo fu che noi altri due non muovemmo un passo e non dovemmo aspettare stretti stretti in una scomoda nicchia.
Fu un altro nulla di fatto.
Capii in quel momento che il passaggio era oltre i limiti di tutti i presenti, malgrado fosse un rinomato tiro di allenamento anche da parte di chi fa solo falesia. Capimmo anche che i progetti che avevamo in serbo su montagne più importanti sarebbero dovuti essere rimandati a tempo indeterminato perché non poteva essere che esistesse una tale struttura da far arrendere tutti quanti nel medesimo modo. Cosa sarebbe accaduto se avessimo trovato un analogo passaggio in situazioni ben più drammatiche, magari con una ritirata complicata (N.B. effettivamente il singolo passaggio è difficile perché richiede buona forza di braccia e dita ma è anche abbastanza intuitivo, quello che allora ci mancava era un allenamento sistematico della "testa", ossia della confidenza necessaria ad osare, e di resistenza) ?
Rimanemmo per un po' a bighellonare coi monotiri bassi della falesia e poi tornammo a casa, delusi e bastonati. Però quella volta Paolo si impuntò contro quella parete che lo aveva respinto e quindi decidemmo di tentare ancora in seguito. Succedeva così, quando non era in grado di capire un passaggio, si intestardiva con stizza nell'immediato, mentre il sottoscritto era più metodico.
Quel puntiglio si tradusse in pratica un mese dopo quando a noi tre si aggiunse anche Nicola e formammo così due cordate. 
Arrivammo alla base dove erano presenti anche due arrampicatori sportivi e, mentre gli altri si preparavano a partire, uno di loro cominciò a raccontarmi la storia della falesia e cosa ci avrebbe aspettato lungo gli strapiombi che ci stavamo accingendo a salire. Paolo ancora una volta salì velocemente alla sosta sull'avancorpo, subito seguito da Nicola; io preparai il friend per proteggere la partenza della fessura e mi avviai a salire quando, alzando lo sguardo, vidi improvvisamente della concitazione febbrile tra i due compagni e subito volò di sotto un macigno delle dimensioni di uno zaino esplodendo in mille pezzi in faccia a tutti noi.
Atterriti, Paolo e Nicola buttarono giù le doppie e ci raggiunsero a terra; il tentativo finì ancora prima di cominciare! Da quel momento Paolo non volle più sentire parlare di quella parete.

Dopo questo ennesimo episodio la Sisilla cominciò a scavare in me un vuoto, a divenire la rappresentazione di uno scoglio insormontabile, il sinonimo del fallimento, quasi fosse una spada di Damocle che mi pendeva sul collo e che, per quanto la affrontassi preparato, inevitabilmente avrebbe finito con il respingermi.  Con gli anni cercai di nascondere tale disagio sempre di più, anche dopo aver percorso vie molto più difficili di quelle che essa poteva offrire, vivendo nel terrore che potesse sempre presentarmisi davanti una dannata pancia come quella della Soldà. Questo blocco finì col pregiudicarmi molte altre salite negli anni immediatamente seguenti, trovandomi improvvisamente davanti anche a tratti semplici che però finivano inevitabilmente a disarmarmi. Col tempo però imparai ad andare oltre e ad allenarmi anche in casa per riuscire a guadagnare quella fiducia in me stesso e quella resistenza che sapevo che un giorno mi avrebbe permesso di superare lo scoglio. Purtroppo sono stato meno fortunato di altri che hanno avuto degli "spiriti guida" che li hanno favoriti in tale evoluzione, io ho dovuto arrangiarmi a suon di sbagli, rinunce e tentativi, almeno fino a quando non incontrai Moreno che cominciò a portarmi su vie piuttosto dure, ma a quel punto ero comunque già scafato.
Tornai ancora qualche volta per divertirmi ancora con gli avancorpi che sono un po' didattici, addirittura, per rabbia, pensai persino di entrare dalla prima cengia percorrendo tutte le soste fino ad arrivare alla via giusta, idea decisamente balzana.
Col tempo l'interesse per la Sisilla venne meno e cercai in tutti i modi di dimenticarmene, così ogni volta che mi presentavo su quel praticello sentivo le forze venire meno, sentivo la muraglia cadermi addosso, quale confine tra me e i "forti" e balzava d'improvviso la voglia di volgermi altrove, perché tanto non sarei mai passato attraverso gli strapiombi.
Come disse una volta una persona a me molto cara, se una cosa non va anche dopo molti tentativi, vuol dire che non è il momento giusto, manca qualcosa.
Aveva pienamente ragione e il momento di lavare via la macchia sarebbe prima o poi arrivato.

2023


Dopo dodici anni, senza che ci fosse un'apparente ragione, sentii emergere dentro di me nuovamente il richiamo della parete. Da quei ridicoli spettacoli da circo del passato allo stato attuale, molto era successo e tanti chilometri di mondo verticale erano trascorsi, così, una mattina in cui la voglia di fare non era particolarmente alta, proposi brutalmente a Bruno di provare a fare la Soldà in Sisilla. Anche lui, come i miei compagni di allora, non fu subito molto entusiasta del progetto, ma alla fine accettò, se non altro per ammazzare la noia.
Ci presentammo a Campogrosso con il solito clima nuvoloso che però in questo caso ci mantenne in un gradevole fresco. Purtroppo nei giorni precedenti s'erano aperte le cateratte del cielo e la parete si presentava piuttosto umida, rigata da colate nere piuttosto vistose e, sempre tra me e me pensavo che forse anche questa volta non ci sarebbe stata trippa per gatti. Ad un primo esame però sembrò che, fortunatamente, la linea che avremmo dovuto seguire fosse abbastanza asciutta.
Ci portammo al solito e ormai nauseante punto d'inizio e Bruno, osservata la fessura con uno sguardo così veloce da non permettere nemmeno alla luce di arrivare alla retina, partì spavaldo. Per essere più leggeri pensammo di tirare su il nostro materiale con una corda dedicata ma, appena giunto in sosta, Bruno mi disse di aver lasciato la carrucola in macchina. 
Si cominciava bene!
Corsi giù alla macchina, presi la carrucola dal bagagliaio e ritornai su, mi legai, gli mandai su lo zaino e lo raggiunsi alla solita e nauseante sosta nella nicchia gialla. Bruno volle ripartire su per gli strapiombi e così gli cedetti pavidamente il passo ma, come ormai era stato ben collaudato nel passato, si bloccò al medesimo pancione a causa della roccia unta e scivolosa. Anche lui provò e riprovò senza riesce a passare, ricadendo riverso sempre sullo stesso maledetto chiodo. Mi sembrò di rivivere l'incubo, la Sisilla stava mietendo un'altra vittima, sempre in quei due singoli metri che continuavano a ributtarmi indietro. Sentivo rinascere in me il disagio che credevo di aver seppellito nelle mie più recondite profondità e che, dopo il cammino fatto, sarei nuovamente retrocesso ai quei tempi, con gli stessi timori. 
Io restai per un po' a guardare, ebbi un sussulto leonino mosso dall'orgoglio maschio e alla fine dissi apertamente: "no, questa volta no, prendo coraggio e vado, bisogna superare l'ostacolo".
Calai rapidamente Bruno fino a me e ripartii, avevo portato tutto il necessario a superare gli strapiombi quasi aprissi io la via, non avevo alcun motivo di temere; mi portai velocemente fino al famigerato chiodo da cui ero sistematicamente rientrato e cominciai a tirarmi su sulla pancia. La roccia era (ed è) molto unta dagli innumerevoli passaggi e, malgrado le mie mani fossero da sempre molto secche al punto da non dover usare il magnesio, non riuscivo a stringere con sufficiente sicurezza le minuscole tacche; non parliamo poi dei piedi. Niente, fuori le staffe, ne piazzai una sul chiodo e la usai per darmi un appoggio decente per il piede e ripiazzai il destro sul famigerato speroncino, abbastanza in alto da prendere la presa piatta, anch'essa assai viscida. Resistetti quella posizione scomodissima, inarcata all'esterno e con una gamba tremante, giusto il tempo di estrarre un rinvio e piazzarlo nel chiodo successivo, che gli altri stando più bassi non riuscivano a vedere, poi passai la corda e gridai a Bruno di mettermi in tensione per riguadagnare una postura decente.
Fatta! Ero oltre il tanto temuto ostacolo! Finalmente ero passato!
Presi fiato a penzoloni per qualche istante. Mi alzai ancora sfruttando la tensione della corda e guadagnai il minuscolo terrazzino sopra il giallo, dove cominciava una lunga fessura e la roccia tornava più ruvida.
Se l'ostacolo di anni e anni di tentativi era andato, non c'era comunque da abbassare la guardia, gli strapiombi erano ancora lunghi e bisognava proseguire. Dove era giallo la roccia era ancora viscida a causa dei passaggi ma, sfruttando un perno piegato dentro la crepa mi innalzai quel che bastava per raggiungere un appiglio e moschettonare l'ancoraggio successivo, poi mi portai sul tratto più scuro di parete.
Tacchetta dopo tacchetta, sfruttando al massimo la tensione che avevo in corpo, guadagnai metri fino al punto dove la fessura si chiude; sentivo la rilassatezza che si impadroniva di me e sapevo che se mi lasciavo andare mi sarei bloccato nuovamente. Nessun problema, piazzai le staffe e mi trovai sulla cengia di sosta, finalmente, dopo una lunga e intensa lotta.
I grandi strapiombi della Sisilla erano sotto i miei piedi, ero riuscito a passare oltre la barriera che per tanto tempo mi aveva respinto e che aveva finito per demoralizzare anche tutti i compagni di cordata che avevo avuto. La tensione a quel punto calò rapidamente e mi sentii soddisfatto, rilassato e tranquillo, con un colpo di sonno particolarmente irresistibile. Per me la giornata poteva anche finire lì ma restava comunque il resto della via.
Recuperai Bruno che venne su con fatica, sorprendendosi di quanto fosse arduo il tiro che avevo appena concluso. Scambiatici il materiale partì per il tratto successivo bloccandosi però dopo pochi metri quando ricevette una goccia d'acqua sulla fronte: tutte le placche nere della sezione di parete successiva erano completamente fradice e proseguire era impossibile, almeno senza correre rischi inutili.
Niente da fare, malgrado il successo personale la Sisilla mi respinse ancora una volta, solo che ora ero cosciente che il mio limite era stato superato e che prima o poi la conclusione della salita sarebbe stata una formalità. Nel tentativo successivo sicuramente mi sarei tolto un peso dal groppone una volta e per sempre. Quella volta non tardò ad arrivare.

LA VIA SANDRI-CARLESSO


Durante tutte le mie prove precedenti, mi ero concentrato esclusivamente sulla via Soldà. Qualcuno che ne ha percorso almeno il difficile strapiombo inferiore potrebbe ridere di tutta questa manfrina e avrebbe pienamente ragione, ma dovrebbe anche capire che una volta non avevo ben chiaro cosa volesse dire fare le cose per gradi e soprattutto mi bevevo come il vino a pranzo tutte le boiate che la gente mi rifilava circa la velocità di ripetizione, i gradi, l'allenamento. A quel tempo questi argomenti facevano presa in me perché non avevo esperienza e termini di paragone. Poi, dopo aver arrampicato assieme a molte di queste persone e avendo toccato con mano quanto piccoli uomini fossero nella realtà, ho cominciato a ragionare con la mia testa e a vedere il mondo per quello che è davvero.
Viene l'inverno del 2024, sono molto allenato e per caso vedo su Facebook qualcuno che pubblica le foto di una ripetizione della famigerata Carlesso alla Sisilla (ma bisogna dire Sandri-Carlesso, come sostiene il Colonnello Bepi Magrin, in quanto fu superata da Bortolo Sandri con un collettivo di amici, anche se la fama di Carlesso ne ha oscurato il nome), decantandone l'ottima attrezzatura e le difficoltà elevate e sostenute. Io era dal lontano 2010 che l'avevo dimenticata. Faccio notare la cosa a Moreno che mi liquida con un classico "vedremo" per levarsi di torno lo "scassa-palle-fissato-con-quel-cesso-tutto-brutto-tutto-onto" quando, in Febbraio, si presenta un periodo di alta pressione, con la neve scarsa e le temperature molto miti, ideali per andare sulla parete rivolta perfettamente a sud. 
Quando meno me l'aspetto Moreno mi telefona e mi dice: andiamo! 
E' la prima volta che la Sisilla raccoglie tanto entusiasmo da parte di qualcun altro, soprattutto senza che io abbia predicato come Gesù nel Tempio, così anche io vado verso il destino.
Alla base della montagna prendiamo tutto quanto è necessario ad affrontare una via storica lasciata allo stato tradizionale (ossia abbandonata), l'unica cosa che lasciamo giù sono gli spit. 
Purtroppo di lì ad una settimana avrò un impegno di quelli che cambiano il corso della vita di un uomo e pertanto, per quanto dentro arda dalla voglia di chiudere definitivamente i conti con la maledetta parete e punirla per dimostrare chi è che comanda, non posso correre rischi. Sono perciò sono costretto a cedere il passo con rabbia e rammarico.
Moreno mi guarda male ma non sa quanto mandarlo avanti questa volta mi costi!
Egli parte ed è subito sopra l'avancorpo a recuperarmi alla base del nero colatoio. 
Sono passati quattordici anni e sono nuovamente lì, tutto mi torna alla mente come se la prima volta che ci ero stato fosse capitata solo l'altro ieri. Moreno parte e comincia a salire, io assecondo ogni sua mossa con la massima attenzione, poi si blocca alla base della roccia nera, proprio dove Stefano aveva cominciato a prendere la pioggia. Lo vedo armeggiare un poco con un friend piccolissimo che entra dentro una crepa nascosta e poi riparte. La sua progressione è molto lenta ma costante e poco dopo è sopra il difficile strapiombo. Sparisce alla mia vista spostandosi a sinistra nella colata vera e propria che oggi gocciola parecchio; lo sento bestemmiare in malo modo, poi pianta un chiodo, ne pianta un altro e alla fine mi urla "molla tutto!".
E' fatta, siamo oltre la prima fascia strapiombante e tutto è filato liscio, forse è la volta buona che ne usciamo ma non mi azzardo a declamarlo. Parto e salgo fino al punto incriminato rendendomi immediatamente conto del capolavoro fatto dal socio: lo strapiombo è forte e la chiodatura precaria, bisogna passare sicuri trattenendo il fiato. Mi studio bene il passaggio per arrampicarlo in libera quando, appena appesomi a un chiodo per studiare i movimenti, questo esce di colpo per metà. Fortunatamente sono da secondo di cordata ma comunque non mi pare una buona idea insistere, specie su un tiro obliquo. Srotolo dunque le staffe e continuo in arrampicata artificiale di chiodo in chiodo fino al centro del colatoio. Capisco adesso perché Moreno era così teso: c'è letteralmente una cascata d'acqua e siamo in Febbraio! Fortunatamente la roccia è gradonata e salgo velocemente recuperando i chiodi e sono alla sosta.
Tocca adesso la lunghezza chiave della via: un breve diedro chiuso da un tetto orizzontale, il tutto attrezzato con i soliti chiodi vecchi, probabilmente originali. Moreno parte e, a discapito delle apparenze, tutto fila nuovamente liscio, dopodiché lo raggiungo superando in artificiale il tetto. Questo tratto ci porta dritti a metà parete e si rivela splendido. Finalmente vedo la Sisilla dall'alto.
Siamo così giunti sotto una seconda fascia gialla e strapiombante che, a vedere la scarsità di chiodi e la roccia un po' più tagliente, direi che è quasi terra ignota.

Il sole è lievemente velato ma l'inversione termica rende gradevole il clima, inoltre il panorama attorno a noi è magico, il gruppo del Carega sembra composto da coni di gelato, malgrado l'innevamento sia scarso, l'aria è molto secca e i colori diventano molto accesi agli occhi.
Dopo una corta ma meritata pausa Moreno riparte, un po' esitante mentre esamina la prosecuzione della via, non proprio amichevole. Si sposta a sinistra e trova un bel chiodo, vecchio e arrugginito ma ancora solido. Guadagna qualche centimetro su un difficile pancione e si mette ad armeggiare coi chiodi quando ne trova uno infisso a proteggere il passaggio; è qualcosa di osceno: un pezzetto di metallo piantato per due centimetri in uno spuntone e dal quale penzola un cordino largo come un capello e completamente rosicchiato dalle intemperie. Il socio non ha altra scelta, moschettona il chiodo e lo sfrutta per alzarsi quel che basta a ribaltarsi su una cornice dove pianta un chiodo precario. Riprende salendo un diedro giallo esattamente sopra la mia verticale dove rinviene un altro chiodo arrugginito e ne pianta un secondo per vincere il tettino che lo chiude. Sono attimi di apprensione per me che sto di sotto perché se qualcosa cedesse di sicuro lui balzerebbe fino a me strappando via tutto.
Dopo qualche bestemmia e movimenti bruschi il compagno riesce a guadagnare una cornicetta; gli è rimasto un chiodo solo e, mentre lo rassicuro che tanto ne abbiamo altri, apro lo zaino per rendermi conto che invece ho lasciato le munizioni in macchina. Bella fregatura! E pensare che il tizio che ha ripetuto la via poco prima di noi ha detto che si faceva tranquillamente con un mazzo di rinvii. Certa gente rischia tutto nella magra speranza che gli altri, seguendoli, siano talmente gonzi da non farsi domande circa la veridicità di certe affermazioni. La maggior parte delle volte va bene, evidentemente, anzi costoro ricevono degli onori in più, quasi fossero dei miti, ma non è questo il caso!
Moreno è costretto a fermarsi anche perché la corda fa un attrito pazzesco sui bordi del diedro e mi fa salire. Lo raggiungo recuperando un primo chiodo semplicemente cavando via il puzzle in cui era piantato e martellando bene il secondo, che era un buon ancoraggio. Quando arrivo capisco che la situazione si fa decisamente precaria, la Sisilla non vuol mollare, bisogna impegnarsi fino all'ultimo metro!
Siamo attaccati a un vecchio spit col tassello arrugginito, collegato ad un chiodo storico piantato in un buchino, lievemente piegato. Sulla solidità di una tale sosta ad un carico impulsivo non scommetterei nemmeno una cicca masticata, ma questo c'è e deve bastare. Solo una decina di metri ci separano dall'erba della cengia superiore, manca poco. 
Passo a Moreno il materiale recuperato e studiamo il da farsi; intorno a noi è tutto compatto e, a parte una specie di rampa obliqua che sale da destra a sinistra, non sappiamo esattamente cosa fare. Poco dopo noto un minuscolo buchetto con tracce di ruggine e capisco al volo che un chiodo vecchio è stato rotto; altra fregatura! Moreno individua un secondo buchetto appena nascosto dall'erba e prova a mettere un chiodino, dopo le prime due martellate incerte entra bene cantando. Ottimo, moschettona il nuovo ancoraggio e prosegue, io lo assicuro trattenendo il fiato. Raggiunge la rampa piantando un secondo chiodo e scoprendo che non è tanto amichevole ma si può scalare; poi, raggiunto un ulteriore tratto liscio pianta in un foro anche il terzo e ultimo chiodo che ci è rimasto. Siamo entrambi in forte apprensione ma mancano solo pochi metri all'uscita sulla comoda cengia, solo qualche metro ancora. Moreno guadagna lentamente centimetro su centimetro arrivando all'erba, mette un friend in posizione precaria e comincia a riflettere su come uscire in cengia. Servirebbe un altro chiodo ma ormai siamo a secco, mannaggia al chiacchiericcio alla partenza che mi ha fatto scordare le munizioni. Moreno non si muove e io non posso aiutarlo, né lui può farmi scendere una corda da tanto è precaria la posizione in cui si trova. Il tempo passa e il paesaggio attorno a noi comincia ad arrossare nella luce del tramonto; siamo pur sempre a febbraio. Dopo un'eterna attesa, dalla sua posizione mi giunge un "tienimi corto e sta' attento", si aggrappa a qualcosa e tra sbuffi e imprecazioni sparisce alla mia vista definitivamente, mentre vedo che le corde riprendono a scorrere. 
Ha osato ed è sulla cengia oltre l'ostacolo.
Salgo anche io estraendo i tre chiodi piantati e lo raggiungo, trovo questa sezione piuttosto ardua e con una cioffa addirittura strapiombante; è una giusta conclusione per una via terribile. Se avessi insistito tanti anni addietro, di sicuro non sarei mai riuscito ad arrivare fin qui. Ci guardiamo e siamo entrambi esausti, lui in particolare, perciò niente convenevoli e giù le doppie, non c'è tempo per uscire sulla Soldà fino in vetta, sarà per un'altra volta. Tocchiamo la base che il sole sta sparendo dietro il crinale del Carega e comincia a rinfrescare; ci sdraiamo nell'erba e guardiamo verso l'alto all'impresa appena terminata. 
E' fatta, ho concluso una via sulla Sisilla, ho messo sotto i piedi quella parete che tanto mi aveva amareggiato, anche se la nota stonata è che mi è toccato farla da secondo di cordata. L'itinerario che abbiamo appena percorso è stato assolutamente bestiale, fortunatamente era corto, ma con difficoltà veramente elevate, attrezzato in modo precario e su un muro costantemente strapiombante. Tolti i trascorsi che avevo avuto negli anni con questa montagna, devo dire che è una via che mi ha dato grande soddisfazione e mi dispiace assai che sia rimasta un po' nel dimenticatoio, percorrerla significherebbe per ogni alpinista temprarsi alle vere asprezze che la montagna tiene in serbo. Continuiamo nella nostra contemplazione fino a quando non sopraggiunge il buio, poi rientriamo mestamente alla macchina, immersi nei nostri pensieri.

Sisilla
La Sisilla

Pancia della Soldà
La famigerata pancia della via Soldà

Colatoio della via Carlesso
Il colatoio nero della via Carlesso

Tetto della via Carlesso alla Sisilla
Il tetto chiave della via Carlesso

Tiro di uscita della Carlesso alla Sisilla
Il terribile tiro di uscita della Carlesso

Relazione

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