LA SISILLA
Capita nella vita di combinarne in giro di tutti i colori ma di avere sempre uno scoglio che ci ricordi che siamo umani e che ci ponga sempre sei limiti, regalandoci delle sonore bastonate. E' consuetudine che per un arrampicatore questo sia proprio un insignificante pezzo di roccia posto sotto casa. Talvolta questo succede anche a diversi anni di distanza.
La Sisilla, improbabile traslitterazione italiana di un qualche nome impronunciabile dell'antica lingua cimbra, è proprio quello scoglio ed è quella paretina gialla e strapiombante che domina il Passo di Campogrosso e che è stata per un secolo la "palestra" dell'alpinismo vicentino. E' chiaro che con una tale nomea la Sisilla, pur essendo abbastanza insignificante, presenta difficoltà di tutto rilievo. Agli occhi di gente moderna, è quel termine "palestra" che trae in inganno e che tende a sminuire la reale entità di ciò che vi trova sopra.
Innanzi tutto bisogna capire cosa s'intendeva per "palestra" un secolo fa: è inutile nascondere che a all'epoca in cui essa fu esplorata si era sotto il Ventennio e che la sua mentalità di credere, obbedire e combattere, pervadeva tutti gli aspetti della vita quotidiana. Allenarsi significava quindi scontrarsi contro qualcosa di assolutamente mostruoso per le reali possibilità dell'epoca al fine di uscirne ben temprati e virili nei confronti di montagne ritenute più serie. Altro che gradualità!
Sotto quest'ottica si capisce come mai, per mezzo secolo almeno, le vie tracciate sulla Sisilla mantennero la nomea di più difficili (o tra le più difficili) delle Piccole Dolomiti.
In seguito all'attrezzatura di una falesia sulla fascia strapiombante basale della parete, con passaggi molto duri, questi itinerari hanno gradatamente perso interesse finendo per essere un po' sminuiti e dimenticati, erroneamente!
Uno dei traviati da questa menzogna è il sottoscritto.
Con questa parete che, dal punto di vista alpinistico, nella storia dell'umanità è del tutto trascurabile, ho instaurato un rapporto particolare, fatto di tanti tentativi andati a vuoto, rabbia, disillusione e timore reverenziale, anche dopo una certa preparazione, fin quasi all'ossessione. Però alla fine la perseveranza ha pagato.
2010
Quando in quel tempo passavo per Campogrosso, la mia attenzione era catalizzata esclusivamente dal Baffelàn e dagli Apostoli, dove c'erano vie abbordabili per un principiante quale ero io (tutto lo sviluppo degli avancorpi nord del Cornetto era poco conosciuto e ancora di là da vanire), non vedevo minimamente la parete in questione. Un giorno Paolo, che avevo da poco conosciuto a Rocca Pendice e che era al massimo del suo entusiasmo, mi propose di andare a fare una via impegnativa in Dolomiti, col senno di poi un po' troppo al di sopra delle capacità di un esordiente, e che per farla bisognava allenarsi duramente, così proposi a Stefano di aiutarmi in tale allenamento e pensai di sfruttare la comoda parete della Sisilla. Pensai quindi ad una sorta di percorso "in salita", partendo da alcune vie facilotte e continuando ad incrementare le difficoltà. Il piano era pure buono, se non fosse stato che nel pensarlo ero talmente inesperto che ancora credevo che le relazioni delle guide fossero la Bibbia e i gradi ivi riportati erano degli assoluti, uguali per tutti. Questo ovviamente per non parlare del coniugare montagna e falesia azzardando tiri difficili e lavorandoseli per bene onde acquisire movimenti e confidenza con la roccia.
Quanta ingenuità che avevo all'epoca!
Coniugando la monomania di Paolo per le Lavaredo (giusto per citare Géricault) e la mia impazienza verso il miglioramento immediato riuscii a creare la ricetta perfetta del disastro e pertanto convinsi Stefano (povero ragazzo) a tentare un primo assaggio di cosa volesse dire il Sesto Grado (come ero romantico!). La prima volta quindi che approcciammo la Sisilla era Maggio del 2010, una giornata umida e con un cielo denso di cumulonembi. Io mi sentivo sicuro di me stesso essendo uscito dalla ravanata del Cimoncello (vedi lo Spigolo Conforto) e pensavo in cuor mio di aver bruciato le tappe. Avevo appreso i rudimenti da secondo di cordata ed ora potevo mettermi seriamente alla prova, il socio era la carne da cannone per raggiungere lo scopo. Noi non ci preoccupammo tanto del meteo date la vicinanza della parete alla macchina e il suo aggetto. La nostra intenzione era di percorrere la Diretta Soldà che, almeno sulla carta, doveva essere abbordabile perché di grado simile a quella che avevo appena percorso, con un passaggio appena più impegnativo rispetto allo spigolo Conforto. Arrivammo a Campogrosso di buon mattino con una spiragliata di sole ma, nel volgere dei minuti occorsi a cambiarci e a preparare l'attrezzatura, le nuvole scesero a coprire tutto, immergendoci in una nebbia così fitta da sentire la condensa fredda sulla pelle. Ci avviammo alla base della Sisilla sostenuti meramente dal fatto di essere lì di mattina presto ma senza avere una chiara idea di cosa ci aspettasse; questo fatto ci avrebbe giocato un bello scherzo dopo pochi minuti. Le indicazioni in nostro possesso erano poche e contradditorie, senza aggiungere che la nebbia opprimente non permetteva di capire bene la conformazione del posto, tratte da due guide di cui una era degli anni '70 e l'altra rivolta a conoscitori del posto, così interpretai erroneamente la dicitura "accanto alla prima caverna" come il primo buco da sinistra e non la caverna vera e propria che si trovava invece più in là (scoprii solo molto dopo che Soldà aveva tracciato la sua via partendo suppergiù dove avevamo attaccato noi per poi compiere un traverso a destra, rettificando la via in un'occasione successiva, quindi, tecnicamente, entrambe le relazioni erano corrette).
Partì Stefano attratto dai fix ravvicinati posti su un piccolo avancorpo, come le falene vengono attratte dalle lampade UV, e con due balzi era già alla prima cornice, poi continuò a salire per roccia gialla e strapiombante fino a un tetto con un dado incastrato dove si bloccò. Provò e riprovò a sollevarsi senza successo fino ad avere l'idea vincente di inserire una fettuccia nel dado e usarla come appoggio per il piede per riuscire ad afferrare una presa piatta molto alta e passò oltre, proseguendo con fatica sempre crescente fino all'esaurimento della motivazione, poco sotto la prima cengia. Ad una presa ricomposta e tenuta insieme dalla colla gettò definitivamente la spugna.
Stefano fece sosta su un solido fix inox e mi recuperò per vedere se si potesse fare qualcosa ma arrivai a lui sfinito perché da secondo di cordata il tratto strapiombante si rivelò particolarmente pesante. Lasciammo una maglia rapida sul fix e ci calammo alla base con le pive nel sacco senza riuscire a capire dove fosse l'errore quando, posati i piedi a terra, le nubi si sollevarono per un attimo e fummo in grado di constatare che eravamo completamente spostati a sinistra rispetto alla direttrice della via, quasi dalla parte opposta della parete. Cominciai a capire che il mio egoismo stava venendo lentamente ma inesorabilmente punito.
Provammo a cercare l'attacco giusto ma Stefano ormai era entrato nella modalità "pensione", così provai ad attaccare la vicina Carlesso tanto per fare un po' di esplorazione, visto che iniziava con un bel diedro di moderata difficoltà, utile comunque a fare un po' di allenamento. Raggiunta la prima sosta sotto il nero colatoio recuperai l'amico che, una volta raggiuntomi, alzò il naso ed esclamò l'ormai celebre (tra noi): "Noooooo, ancora a strapiomboooo!", con lo stesso tono di voce di chi si sente condannato a scalare in eterno e un'espressione facciale di chi sta pensando al panino con la soppressa che lo aspetta a terra ma che gli è negato dal suo carceriere.
Riavutosi dallo shock, con il fare di chi deve cavarsi d'impaccio, mi prese dall'imbrago gli attrezzi con un "dame qua!" e si avviò su per il colatoio, bestemmiando in una lingua arcana e oscura.
Giunto con fatica sotto la prima strombatura cominciò a piovere con una scrosciata vigorosa che solo per l'assenza di vento e lo strapiombo non ci inzaccherammo fino alle mutande. Con una manovra assai azzardata, visti i chiodi marci, calai Stefano e insieme rientrammo alla macchina sotto il diluvio. Eravamo scornati e la passione neonata del socio nei confronti della montagna era appesa a un filo ma, con la pancia piena e i piedi sotto la tavola, concordammo che quel giorno avevamo sbagliato tutto e che avremmo fatto prossimamente un nuovo tentativo di salita. Dopotutto anche questa era una lezione preziosa.
Quel giorno arrivò il 30 Giugno, una bella giornata di sole, ventilata il giusto e ci portammo ancora alla base della Sisilla. Questa volta non sbagliammo e Stefano salì la prima divertente fessura. Lo raggiunsi poco dopo e mi preparai a proseguire lungo il tratto strapiombante. Cominciai lentamente lungo un diedrino molto aggettante ma con chiodi ravvicinati fino al pancione che lo occludeva. Mentre cercavo un modo per innalzarmi ad esplorare oltre, mi sfilai una staffa e la appesi all'ultimo chiodo, vi infilai un piede mentre l'altro lo portai su uno speroncino quando, d'improvviso, mi giunse il richiamo del compagno in sosta: "Vecio, andemo zo', non go voja de tribolàr on co' (Vecchio, scendiamo che non ho voglia di fare fatica oggi)". Lo guardai inorridito perché tutto stava andando bene, avevo la grinta giusta e sentivo che potevo salire ma niente, se il compagno non voleva proseguire allora bisognava scendere (vedi l'episodio della Guglia GEI). Volsi lo sguardo verso l'alto agli strapiombi beffardi, quasi mi deridessero apertamente e andai giù, anche quel giorno purtroppo non si andò oltre.
La Sisilla stava cominciando ad ergersi a baluardo dell'inespugnabile per il sottoscritto e la cosa cominciava a darmi sui nervi. Non mi diedri per vinto: una volta poteva andare male, capita, ma due volte era il sintomo di qualcosa che non andava. Questa sconfitta cominciò a porre un serio limite a ciò che potevo e non potevo fare e iniziai a sentire un certo peso sulla coscienza. Dovevo trovare un rimedio. Pertanto coinvolsi Paolo nell'idea di ripetere una delle vie della strapiombante parete gialla di Campogrosso. Mi ci volle del lavoro duro e tutta la mia arte manipolatoria per riuscire a presentargli l'idea sotto una veduta appetitosa, specie perché ciò che lui aveva intenzione di fare in Dolomiti equivaleva alla Sisilla moltiplicata n volte (scoprii in seguito che non era affatto vero). Malgrado ciò l'uomo non era tanto convinto di ciò che andava a fare.
Fu così che di ritorno da una salita sul Fumante (vedi l'episodio della Guglia Negrin) ci fermammo giusto un poco a studiare e scrutare il muro. Prendemmo le corde per provare a fare qualcosa e partii lungo la fessura che Stefano aveva percorso la volta precedente. Dopo circa un metro scivolai piombando col culo sull'erba come un sacco di patate, per fortuna era morbido! Che figura da pellegrino! Paolo mi guardò molto scettico poi provò lui, la superò in modo un po' rocambolesco e se la studiò bene provando a risalirla in modi diversi. Convintosi che fosse fattibile decidemmo di dedicarci più seriamente in seguito.
2011
Passò un anno prima che Paolo si unisse alla crociata e si decidesse a fare le cose sul serio. Per il rinnovato tentativo convinsi anche Stefano a partecipare, per quanto mi sembrasse molto poco propenso a gettarsi ancora su quell'abisso strapiombante colr oro che due volte lo aveva fatto faticare come un prigioniero nel Gulag. Tutti e tre ci portammo sotto la parete presso la solita fessura.
Partì Paolo deciso, con quel fare spavaldo e un po' sbarazzino del "oggi facciamo tutto e fuori dai piedi!", piazzò un bel friend dentro la crepa e si innalzò fino al chiodo al termine della fessura per poi spostarsi a sinistra al terrazzino di sosta. Ci guardò con fare sicuro e fece per recuperarci ma, dato che sia io che Stefano ce ne stavamo spaparanzati sul prato in comoda attesa, come a guardare una commedia, gli ingiungemmo di proseguire e saltare tutto quel trambusto. Paolo saltò la prima sosta grugnendo qualcosa di incomprensibile e ricominciò a salire a suon di staffe fin sotto il solito pancione giallo, appendendosi come un salame al medesimo chiodo dal quale Stefano mi aveva fatto calare giù.
Restò lì appeso per un po' studiano il tratto aggettante, poi tentò di innalzarsi per cercare di mettere i piedi sullo speroncino fondamentale ma si ribaltò all'indietro finendo a ballonzolare sempre sul medesimo chiodo. Ritentò ancora, buttandosi in alto ad afferrare una grande bugna piatta ma, non riuscendo a vedere il successivo ancoraggio, mollò la presa finendo nuovamente a danzare nel vuoto.
Lo spettacolo durò ancora qualche minuto quando egli mi gettò uno sguardo rassegnato dicendomi: "basta, troppo dura, calami giù!".
Fu la replica a tre della volta precedente, l'unico lato positivo fu che noi altri due non muovemmo un passo e non dovemmo aspettare stretti stretti in una scomoda nicchia.
Fu un altro nulla di fatto.
Capii in quel momento che il passaggio era oltre i limiti di tutti i presenti, malgrado fosse un rinomato tiro di allenamento anche da parte di chi fa solo falesia. Capimmo anche che i progetti che avevamo in serbo su montagne più importanti sarebbero dovuti essere rimandati a tempo indeterminato perché non poteva essere che esistesse una tale struttura da far arrendere tutti quanti nel medesimo modo. Cosa sarebbe accaduto se avessimo trovato un analogo passaggio in situazioni ben più drammatiche, magari con una ritirata complicata (N.B. effettivamente il singolo passaggio è difficile perché richiede buona forza di braccia e dita ma è anche abbastanza intuitivo, quello che allora ci mancava era un allenamento sistematico della "testa", ossia della confidenza necessaria ad osare, e di resistenza) ?
Rimanemmo per un po' a bighellonare coi monotiri bassi della falesia e poi tornammo a casa, delusi e bastonati. Però quella volta Paolo si impuntò contro quella parete che lo aveva respinto e quindi decidemmo di tentare ancora in seguito. Succedeva così, quando non era in grado di capire un passaggio, si intestardiva con stizza nell'immediato, mentre il sottoscritto era più metodico.
Quel puntiglio si tradusse in pratica un mese dopo quando a noi tre si aggiunse anche Nicola e formammo così due cordate.
Arrivammo alla base dove erano presenti anche due arrampicatori sportivi e, mentre gli altri si preparavano a partire, uno di loro cominciò a raccontarmi la storia della falesia e cosa ci avrebbe aspettato lungo gli strapiombi che ci stavamo accingendo a salire. Paolo ancora una volta salì velocemente alla sosta sull'avancorpo, subito seguito da Nicola; io preparai il friend per proteggere la partenza della fessura e mi avviai a salire quando, alzando lo sguardo, vidi improvvisamente della concitazione febbrile tra i due compagni e subito volò di sotto un macigno delle dimensioni di uno zaino esplodendo in mille pezzi in faccia a tutti noi.
Atterriti, Paolo e Nicola buttarono giù le doppie e ci raggiunsero a terra; il tentativo finì ancora prima di cominciare! Da quel momento Paolo non volle più sentire parlare di quella parete.
Dopo questo ennesimo episodio la Sisilla cominciò a scavare in me un vuoto, a divenire la rappresentazione di uno scoglio insormontabile, il sinonimo del fallimento, quasi fosse una spada di Damocle che mi pendeva sul collo e che, per quanto la affrontassi preparato, inevitabilmente avrebbe finito con il respingermi. Con gli anni cercai di nascondere tale disagio sempre di più, anche dopo aver percorso vie molto più difficili di quelle che essa poteva offrire, vivendo nel terrore che potesse sempre presentarmisi davanti una dannata pancia come quella della Soldà. Questo blocco finì col pregiudicarmi molte altre salite negli anni immediatamente seguenti, trovandomi improvvisamente davanti anche a tratti semplici che però finivano inevitabilmente a disarmarmi. Col tempo però imparai ad andare oltre e ad allenarmi anche in casa per riuscire a guadagnare quella fiducia in me stesso e quella resistenza che sapevo che un giorno mi avrebbe permesso di superare lo scoglio. Purtroppo sono stato meno fortunato di altri che hanno avuto degli "spiriti guida" che li hanno favoriti in tale evoluzione, io ho dovuto arrangiarmi a suon di sbagli, rinunce e tentativi, almeno fino a quando non incontrai Moreno che cominciò a portarmi su vie piuttosto dure, ma a quel punto ero comunque già scafato.
Tornai ancora qualche volta per divertirmi ancora con gli avancorpi che sono un po' didattici, addirittura, per rabbia, pensai persino di entrare dalla prima cengia percorrendo tutte le soste fino ad arrivare alla via giusta, idea decisamente balzana.
Col tempo l'interesse per la Sisilla venne meno e cercai in tutti i modi di dimenticarmene, così ogni volta che mi presentavo su quel praticello sentivo le forze venire meno, sentivo la muraglia cadermi addosso, quale confine tra me e i "forti" e balzava d'improvviso la voglia di volgermi altrove, perché tanto non sarei mai passato attraverso gli strapiombi.
Come disse una volta una persona a me molto cara, se una cosa non va anche dopo molti tentativi, vuol dire che non è il momento giusto, manca qualcosa.
Aveva pienamente ragione e il momento di lavare via la macchia sarebbe prima o poi arrivato.
2023
Dopo dodici anni, senza che ci fosse un'apparente ragione, sentii emergere dentro di me nuovamente il richiamo della parete. Da quei ridicoli spettacoli da circo del passato allo stato attuale, molto era successo e tanti chilometri di mondo verticale erano trascorsi, così, una mattina in cui la voglia di fare non era particolarmente alta, proposi brutalmente a Bruno di provare a fare la Soldà in Sisilla. Anche lui, come i miei compagni di allora, non fu subito molto entusiasta del progetto, ma alla fine accettò, se non altro per ammazzare la noia.
Ci presentammo a Campogrosso con il solito clima nuvoloso che però in questo caso ci mantenne in un gradevole fresco. Purtroppo nei giorni precedenti s'erano aperte le cateratte del cielo e la parete si presentava piuttosto umida, rigata da colate nere piuttosto vistose e, sempre tra me e me pensavo che forse anche questa volta non ci sarebbe stata trippa per gatti. Ad un primo esame però sembrò che, fortunatamente, la linea che avremmo dovuto seguire fosse abbastanza asciutta.
Ci portammo al solito e ormai nauseante punto d'inizio e Bruno, osservata la fessura con uno sguardo così veloce da non permettere nemmeno alla luce di arrivare alla retina, partì spavaldo. Per essere più leggeri pensammo di tirare su il nostro materiale con una corda dedicata ma, appena giunto in sosta, Bruno mi disse di aver lasciato la carrucola in macchina.
Si cominciava bene!
Corsi giù alla macchina, presi la carrucola dal bagagliaio e ritornai su, mi legai, gli mandai su lo zaino e lo raggiunsi alla solita e nauseante sosta nella nicchia gialla. Bruno volle ripartire su per gli strapiombi e così gli cedetti pavidamente il passo ma, come ormai era stato ben collaudato nel passato, si bloccò al medesimo pancione a causa della roccia unta e scivolosa. Anche lui provò e riprovò senza riesce a passare, ricadendo riverso sempre sullo stesso maledetto chiodo. Mi sembrò di rivivere l'incubo, la Sisilla stava mietendo un'altra vittima, sempre in quei due singoli metri che continuavano a ributtarmi indietro. Sentivo rinascere in me il disagio che credevo di aver seppellito nelle mie più recondite profondità e che, dopo il cammino fatto, sarei nuovamente retrocesso ai quei tempi, con gli stessi timori.
Io restai per un po' a guardare, ebbi un sussulto leonino mosso dall'orgoglio maschio e alla fine dissi apertamente: "no, questa volta no, prendo coraggio e vado, bisogna superare l'ostacolo".
Calai rapidamente Bruno fino a me e ripartii, avevo portato tutto il necessario a superare gli strapiombi quasi aprissi io la via, non avevo alcun motivo di temere; mi portai velocemente fino al famigerato chiodo da cui ero sistematicamente rientrato e cominciai a tirarmi su sulla pancia. La roccia era (ed è) molto unta dagli innumerevoli passaggi e, malgrado le mie mani fossero da sempre molto secche al punto da non dover usare il magnesio, non riuscivo a stringere con sufficiente sicurezza le minuscole tacche; non parliamo poi dei piedi. Niente, fuori le staffe, ne piazzai una sul chiodo e la usai per darmi un appoggio decente per il piede e ripiazzai il destro sul famigerato speroncino, abbastanza in alto da prendere la presa piatta, anch'essa assai viscida. Resistetti quella posizione scomodissima, inarcata all'esterno e con una gamba tremante, giusto il tempo di estrarre un rinvio e piazzarlo nel chiodo successivo, che gli altri stando più bassi non riuscivano a vedere, poi passai la corda e gridai a Bruno di mettermi in tensione per riguadagnare una postura decente.
Fatta! Ero oltre il tanto temuto ostacolo! Finalmente ero passato!
Presi fiato a penzoloni per qualche istante. Mi alzai ancora sfruttando la tensione della corda e guadagnai il minuscolo terrazzino sopra il giallo, dove cominciava una lunga fessura e la roccia tornava più ruvida.
Se l'ostacolo di anni e anni di tentativi era andato, non c'era comunque da abbassare la guardia, gli strapiombi erano ancora lunghi e bisognava proseguire. Dove era giallo la roccia era ancora viscida a causa dei passaggi ma, sfruttando un perno piegato dentro la crepa mi innalzai quel che bastava per raggiungere un appiglio e moschettonare l'ancoraggio successivo, poi mi portai sul tratto più scuro di parete.
Tacchetta dopo tacchetta, sfruttando al massimo la tensione che avevo in corpo, guadagnai metri fino al punto dove la fessura si chiude; sentivo la rilassatezza che si impadroniva di me e sapevo che se mi lasciavo andare mi sarei bloccato nuovamente. Nessun problema, piazzai le staffe e mi trovai sulla cengia di sosta, finalmente, dopo una lunga e intensa lotta.
I grandi strapiombi della Sisilla erano sotto i miei piedi, ero riuscito a passare oltre la barriera che per tanto tempo mi aveva respinto e che aveva finito per demoralizzare anche tutti i compagni di cordata che avevo avuto. La tensione a quel punto calò rapidamente e mi sentii soddisfatto, rilassato e tranquillo, con un colpo di sonno particolarmente irresistibile. Per me la giornata poteva anche finire lì ma restava comunque il resto della via.
Recuperai Bruno che venne su con fatica, sorprendendosi di quanto fosse arduo il tiro che avevo appena concluso. Scambiatici il materiale partì per il tratto successivo bloccandosi però dopo pochi metri quando ricevette una goccia d'acqua sulla fronte: tutte le placche nere della sezione di parete successiva erano completamente fradice e proseguire era impossibile, almeno senza correre rischi inutili.
Niente da fare, malgrado il successo personale la Sisilla mi respinse ancora una volta, solo che ora ero cosciente che il mio limite era stato superato e che prima o poi la conclusione della salita sarebbe stata una formalità. Nel tentativo successivo sicuramente mi sarei tolto un peso dal groppone una volta e per sempre. Quella volta non tardò ad arrivare.
LA VIA SANDRI-CARLESSO
Durante tutte le mie prove precedenti, mi ero concentrato esclusivamente sulla via Soldà. Qualcuno che ne ha percorso almeno il difficile strapiombo inferiore potrebbe ridere di tutta questa manfrina e avrebbe pienamente ragione, ma dovrebbe anche capire che una volta non avevo ben chiaro cosa volesse dire fare le cose per gradi e soprattutto mi bevevo come il vino a pranzo tutte le boiate che la gente mi rifilava circa la velocità di ripetizione, i gradi, l'allenamento. A quel tempo questi argomenti facevano presa in me perché non avevo esperienza e termini di paragone. Poi, dopo aver arrampicato assieme a molte di queste persone e avendo toccato con mano quanto piccoli uomini fossero nella realtà, ho cominciato a ragionare con la mia testa e a vedere il mondo per quello che è davvero.
Viene l'inverno del 2024, sono molto allenato e per caso vedo su Facebook qualcuno che pubblica le foto di una ripetizione della famigerata Carlesso alla Sisilla (ma bisogna dire Sandri-Carlesso, come sostiene il Colonnello Bepi Magrin, in quanto fu superata da Bortolo Sandri con un collettivo di amici, anche se la fama di Carlesso ne ha oscurato il nome), decantandone l'ottima attrezzatura e le difficoltà elevate e sostenute. Io era dal lontano 2010 che l'avevo dimenticata. Faccio notare la cosa a Moreno che mi liquida con un classico "vedremo" per levarsi di torno lo "scassa-palle-fissato-con-quel-cesso-tutto-brutto-tutto-onto" quando, in Febbraio, si presenta un periodo di alta pressione, con la neve scarsa e le temperature molto miti, ideali per andare sulla parete rivolta perfettamente a sud.
Quando meno me l'aspetto Moreno mi telefona e mi dice: andiamo!
E' la prima volta che la Sisilla raccoglie tanto entusiasmo da parte di qualcun altro, soprattutto senza che io abbia predicato come Gesù nel Tempio, così anche io vado verso il destino.
Alla base della montagna prendiamo tutto quanto è necessario ad affrontare una via storica lasciata allo stato tradizionale (ossia abbandonata), l'unica cosa che lasciamo giù sono gli spit.
Purtroppo di lì ad una settimana avrò un impegno di quelli che cambiano il corso della vita di un uomo e pertanto, per quanto dentro arda dalla voglia di chiudere definitivamente i conti con la maledetta parete e punirla per dimostrare chi è che comanda, non posso correre rischi. Sono perciò sono costretto a cedere il passo con rabbia e rammarico.
Moreno mi guarda male ma non sa quanto mandarlo avanti questa volta mi costi!
Egli parte ed è subito sopra l'avancorpo a recuperarmi alla base del nero colatoio.
Sono passati quattordici anni e sono nuovamente lì, tutto mi torna alla mente come se la prima volta che ci ero stato fosse capitata solo l'altro ieri. Moreno parte e comincia a salire, io assecondo ogni sua mossa con la massima attenzione, poi si blocca alla base della roccia nera, proprio dove Stefano aveva cominciato a prendere la pioggia. Lo vedo armeggiare un poco con un friend piccolissimo che entra dentro una crepa nascosta e poi riparte. La sua progressione è molto lenta ma costante e poco dopo è sopra il difficile strapiombo. Sparisce alla mia vista spostandosi a sinistra nella colata vera e propria che oggi gocciola parecchio; lo sento bestemmiare in malo modo, poi pianta un chiodo, ne pianta un altro e alla fine mi urla "molla tutto!".
E' fatta, siamo oltre la prima fascia strapiombante e tutto è filato liscio, forse è la volta buona che ne usciamo ma non mi azzardo a declamarlo. Parto e salgo fino al punto incriminato rendendomi immediatamente conto del capolavoro fatto dal socio: lo strapiombo è forte e la chiodatura precaria, bisogna passare sicuri trattenendo il fiato. Mi studio bene il passaggio per arrampicarlo in libera quando, appena appesomi a un chiodo per studiare i movimenti, questo esce di colpo per metà. Fortunatamente sono da secondo di cordata ma comunque non mi pare una buona idea insistere, specie su un tiro obliquo. Srotolo dunque le staffe e continuo in arrampicata artificiale di chiodo in chiodo fino al centro del colatoio. Capisco adesso perché Moreno era così teso: c'è letteralmente una cascata d'acqua e siamo in Febbraio! Fortunatamente la roccia è gradonata e salgo velocemente recuperando i chiodi e sono alla sosta.
Tocca adesso la lunghezza chiave della via: un breve diedro chiuso da un tetto orizzontale, il tutto attrezzato con i soliti chiodi vecchi, probabilmente originali. Moreno parte e, a discapito delle apparenze, tutto fila nuovamente liscio, dopodiché lo raggiungo superando in artificiale il tetto. Questo tratto ci porta dritti a metà parete e si rivela splendido. Finalmente vedo la Sisilla dall'alto.
Siamo così giunti sotto una seconda fascia gialla e strapiombante che, a vedere la scarsità di chiodi e la roccia un po' più tagliente, direi che è quasi terra ignota.
Il sole è lievemente velato ma l'inversione termica rende gradevole il clima, inoltre il panorama attorno a noi è magico, il gruppo del Carega sembra composto da coni di gelato, malgrado l'innevamento sia scarso, l'aria è molto secca e i colori diventano molto accesi agli occhi.
Dopo una corta ma meritata pausa Moreno riparte, un po' esitante mentre esamina la prosecuzione della via, non proprio amichevole. Si sposta a sinistra e trova un bel chiodo, vecchio e arrugginito ma ancora solido. Guadagna qualche centimetro su un difficile pancione e si mette ad armeggiare coi chiodi quando ne trova uno infisso a proteggere il passaggio; è qualcosa di osceno: un pezzetto di metallo piantato per due centimetri in uno spuntone e dal quale penzola un cordino largo come un capello e completamente rosicchiato dalle intemperie. Il socio non ha altra scelta, moschettona il chiodo e lo sfrutta per alzarsi quel che basta a ribaltarsi su una cornice dove pianta un chiodo precario. Riprende salendo un diedro giallo esattamente sopra la mia verticale dove rinviene un altro chiodo arrugginito e ne pianta un secondo per vincere il tettino che lo chiude. Sono attimi di apprensione per me che sto di sotto perché se qualcosa cedesse di sicuro lui balzerebbe fino a me strappando via tutto.
Dopo qualche bestemmia e movimenti bruschi il compagno riesce a guadagnare una cornicetta; gli è rimasto un chiodo solo e, mentre lo rassicuro che tanto ne abbiamo altri, apro lo zaino per rendermi conto che invece ho lasciato le munizioni in macchina. Bella fregatura! E pensare che il tizio che ha ripetuto la via poco prima di noi ha detto che si faceva tranquillamente con un mazzo di rinvii. Certa gente rischia tutto nella magra speranza che gli altri, seguendoli, siano talmente gonzi da non farsi domande circa la veridicità di certe affermazioni. La maggior parte delle volte va bene, evidentemente, anzi costoro ricevono degli onori in più, quasi fossero dei miti, ma non è questo il caso!
Moreno è costretto a fermarsi anche perché la corda fa un attrito pazzesco sui bordi del diedro e mi fa salire. Lo raggiungo recuperando un primo chiodo semplicemente cavando via il puzzle in cui era piantato e martellando bene il secondo, che era un buon ancoraggio. Quando arrivo capisco che la situazione si fa decisamente precaria, la Sisilla non vuol mollare, bisogna impegnarsi fino all'ultimo metro!
Siamo attaccati a un vecchio spit col tassello arrugginito, collegato ad un chiodo storico piantato in un buchino, lievemente piegato. Sulla solidità di una tale sosta ad un carico impulsivo non scommetterei nemmeno una cicca masticata, ma questo c'è e deve bastare. Solo una decina di metri ci separano dall'erba della cengia superiore, manca poco.
Passo a Moreno il materiale recuperato e studiamo il da farsi; intorno a noi è tutto compatto e, a parte una specie di rampa obliqua che sale da destra a sinistra, non sappiamo esattamente cosa fare. Poco dopo noto un minuscolo buchetto con tracce di ruggine e capisco al volo che un chiodo vecchio è stato rotto; altra fregatura! Moreno individua un secondo buchetto appena nascosto dall'erba e prova a mettere un chiodino, dopo le prime due martellate incerte entra bene cantando. Ottimo, moschettona il nuovo ancoraggio e prosegue, io lo assicuro trattenendo il fiato. Raggiunge la rampa piantando un secondo chiodo e scoprendo che non è tanto amichevole ma si può scalare; poi, raggiunto un ulteriore tratto liscio pianta in un foro anche il terzo e ultimo chiodo che ci è rimasto. Siamo entrambi in forte apprensione ma mancano solo pochi metri all'uscita sulla comoda cengia, solo qualche metro ancora. Moreno guadagna lentamente centimetro su centimetro arrivando all'erba, mette un friend in posizione precaria e comincia a riflettere su come uscire in cengia. Servirebbe un altro chiodo ma ormai siamo a secco, mannaggia al chiacchiericcio alla partenza che mi ha fatto scordare le munizioni. Moreno non si muove e io non posso aiutarlo, né lui può farmi scendere una corda da tanto è precaria la posizione in cui si trova. Il tempo passa e il paesaggio attorno a noi comincia ad arrossare nella luce del tramonto; siamo pur sempre a febbraio. Dopo un'eterna attesa, dalla sua posizione mi giunge un "tienimi corto e sta' attento", si aggrappa a qualcosa e tra sbuffi e imprecazioni sparisce alla mia vista definitivamente, mentre vedo che le corde riprendono a scorrere.
Ha osato ed è sulla cengia oltre l'ostacolo.
Salgo anche io estraendo i tre chiodi piantati e lo raggiungo, trovo questa sezione piuttosto ardua e con una cioffa addirittura strapiombante; è una giusta conclusione per una via terribile. Se avessi insistito tanti anni addietro, di sicuro non sarei mai riuscito ad arrivare fin qui. Ci guardiamo e siamo entrambi esausti, lui in particolare, perciò niente convenevoli e giù le doppie, non c'è tempo per uscire sulla Soldà fino in vetta, sarà per un'altra volta. Tocchiamo la base che il sole sta sparendo dietro il crinale del Carega e comincia a rinfrescare; ci sdraiamo nell'erba e guardiamo verso l'alto all'impresa appena terminata.
E' fatta, ho concluso una via sulla Sisilla, ho messo sotto i piedi quella parete che tanto mi aveva amareggiato, anche se la nota stonata è che mi è toccato farla da secondo di cordata. L'itinerario che abbiamo appena percorso è stato assolutamente bestiale, fortunatamente era corto, ma con difficoltà veramente elevate, attrezzato in modo precario e su un muro costantemente strapiombante. Tolti i trascorsi che avevo avuto negli anni con questa montagna, devo dire che è una via che mi ha dato grande soddisfazione e mi dispiace assai che sia rimasta un po' nel dimenticatoio, percorrerla significherebbe per ogni alpinista temprarsi alle vere asprezze che la montagna tiene in serbo. Continuiamo nella nostra contemplazione fino a quando non sopraggiunge il buio, poi rientriamo mestamente alla macchina, immersi nei nostri pensieri.
La Sisilla
La famigerata pancia della via Soldà
Il colatoio nero della via Carlesso
Il tetto chiave della via Carlesso
Il terribile tiro di uscita della Carlesso
Relazione
I contenuti presenti sul blog “Alerossiclimbemusic” sono di proprietà di “Alessandro Rossi”.È vietata la copia e la riproduzione dei contenuti in qualsiasi modo o forma.È vietata la pubblicazione e la redistribuzione dei contenuti non autorizzata espressamente dall’autore.Copyright © 2019 – 2025 “Alerossiclimbmusic”. Tutti i diritti riservati.”