LA SCALA IMPOSSIBILE DI PENROSE
Nuotando tra le croste del Monte Lefre
Nella vita si possono fare mille progetti ma quelli che poi andranno in porto sono sempre quelli a cui non si era minimamente pensato. Infatti l'idea di questa nuova e difficile via, nasce pensando a tutt'altra cosa, da tutt'altra parte. E' estate 2024 quando, mentre scendiamo dai Lagorai, il socio Moreno mi fa notare una grande parete grigia che emerge dai colli sovrastanti Ospedaletto. Sulle prime non ci faccio tanto caso, è brutta, è alta e remota ma scatto una fotografia perché non si sa mai. Tornato a casa comincio subito ad informarmi su che montagna sia quella che ho visto ottenendo di sapere solo una quota topografica e una vaga immagine satellitare, sapendo che dovrebbe trovarsi nei pressi di uno sgarrupato sentiero. Studio attentamente la foto che ho fatto e sembra che questa parete grigia abbia un certo interesse, almeno lo credo per sentirmi virile per qualche minuto, così la passo a Frank per sentire il responso, il quale arriva puntuale con un appuntamento a Villa Agnedo per vedere il farsi. Per essere sicuro di trovarci entrambi nello stesso posto stabilisco che ci si troverà l'indomani davanti al cimitero. E' un ottimo posto per cominciare i lavori, soprattutto di buon auspicio, il quale diventa assai desiderato nei momenti di maggiore fatica, in cui si rimpiange di essere nati e si chiede a sé stessi "perché non mi unisco anche io ai giusti?!". Il compare non è immune al fascino del camposanto e mi replica: "bene, almeno se qualcosa andrà storto, avremo già il posto per riposare!".
La mattina seguente ci troviamo al camposanto di Villa Agnedo: la giornata parte deprimente, a parte la vicinanza di coloro che riposano in pace, il meteo è instabile, ha appena smesso di piovere e la nostra parete è avvolta nelle nubi. Io e Frank ci guardiamo dubbiosi, chiacchieriamo di qualche stupidaggine, poi lui se ne esce di punto in bianco con un "andiamo!". Conosco le bizzarrie del socio e mi viene da ridere amaramente pensando alla benzina sprecata per il viaggio a vuoto, però mi allieta l'idea del bar e della birra: "forza, anche gli attrezzi devono andare a passeggio! Ma dove c***o andiamo che è tutto fradicio? - Beh, là!", si gira e mi indica la parete alle mie spalle. Io guardo dove mi indica e poi guardo lui perplesso, la risata mi passa di colpo: "mica sono venuto là per quella, ma per quella là!" e indico dall'altra parte della valle. Frank si gira, guarda l'orrida parete grigia, che adesso è nera e arcigna, accenna una smorfia decisamente schifata e afferma: "bah, là oggi non combiniamo nulla! A parte il fatto che è tutta bagnata, ma è anche bene in su, e mi sembra anche erbosa". Estrae il binocolo e scruta la parete, poi me lo passa e osservo con attenzione cosa ci aspetterebbe: si ha ragione, la parete ha un bell'aspetto se vista da lontano ma è completamente corazzata di cenge e toppe d'erba, segno anche di scarsa inclinazione. A differenza del Collicello, che era comodo vicino alla macchina, questa è pure lontana e l'unico punto promettente è un grande camino con un sinistro conoide ghiaioso alla base. Lasciamo perdere e mi giro a guardare la parete alle mie spalle: dalla nostra prospettiva sembra bella. Il Monte Lefre è una montagna imponente, molto complessa e circondata da muraglie strapiombante alte fino a 500 metri. Peccato che sia anche universalmente noto per essere di una friabilità leggendaria, tanto che ad oggi si ha notizia di una sola cordata che vi si sia avventurata, composta da Melchiori e Saint nel lontano 1954, lasciando una descrizione molto vaga e carica di orrori. Nel 2014 addirittura i comuni sottostanti organizzarono l'esplosione di un intero pilastro pericolante sotto le postazioni della vetta, i cui segni sono visibili ancora oggi. Insomma, parliamo della montagna dei desideri di ogni rocciatore!
Dico a Frank che non è una grande idea mettere le mani sul paretone giallo sotto la bandiera ma lui mi blocca dicendo che ha visto un interesse sulla punta più ad ovest, a forma di cupola e rigata da numerose rigole, di cui una più grande delle altre e con un vistoso tetto. Gliela indico subito e mi replica: "si dai, un bel diedro con anche un tettino, magari alla gente non piacerà ma il tettino è estetico". Anche in questa occasione, cadiamo come due pollastri sempre nel medesimo errore, ossia quello di non considerare la prospettiva nella quale ci troviamo e di prendere invece dei solidi punti di riferimento per calcolare propriamente le distanze che ci dobbiamo trovare a percorrere. Scopriremo, infatti, solo molto dopo che quel tettino era un bestia di svariati metri. In questo momento però non lo sappiamo ancora e ci avviamo in esplorazione con tanto di pesante fardello appresso e senza avere la più pallida idea di come approcciare la parete, ben difesa da un bosco molto fitto. Consulto brevemente Google Maps, che ho imparato essere uno strumento prezioso nelle sue fotografie satellitari, cosa che i nostri nonni avrebbero venduto l'anima al Diavolo per avere, trovando effettivamente una strada che si avvicina abbastanza alla montagna. LA mia visione però cozza inevitabilmente con quella di Frank che ha un momento di ispirazione e "sente" (non so dove ne come) che bisogna prendere la strada per la chiesetta di San Vendemiano. Guardo il Lefre sopra di noi e ho l'impressione che siamo un tantinello fuori rotta ma lascio perdere. Ci prepariamo rapidamente, come prima volta ho portato poco materiale, così ci avviamo nel bosco sopra la chiesetta. Dopo pochi passi che seguono una debole traccia siamo completamente persi: il bosco è molto ripido e fitto e non abbiamo punti di riferimento. Prendo l'iniziativa e mi oriento verso sinistra alla ricerca di uno spiazzo per poter vedere dove siamo e rinvengo una debole traccia che seguo per poco, prima che si perda anche questa. Frank prova a salire alla mia destra passando in mezzo alle ortiche, io lo seguo, bestemmiando e bestemmiandolo per questa scelta, poi ricominciamo a traversare a sinistra sempre su erto bosco. Tra le fronde degli alberi intravvedo qualcosa ma è sempre molto spostato. All'improvviso reperisco un'altra traccia che si fa largo nell'erba alta e passa sotto un gigantesco macigno che forma una grotta, buono come punto di riferimento e poco oltre trovo un ghiaioncino dove il bosco un po' si apre e finalmente riesco a vedere la montagna al di sopra di me: è circondata da diversi avancorpi che dobbiamo provare ad evitare, non ci voleva. Frank mi segue inizialmente lungo il ghiaioncino, poi traversa ancora lungamente a sinistra nel bosco fino a dove la rampa boscosa si fa ancora più ripida, al punto che sbraita: "adesso tiro fuori la corda!" e riprendiamo a salire maledicendo di essere nati. E' una gran fatica, bisogna salire puntando i piedi nella terra e sforzando continuamente gli alluci e i polpacci, due ore sono già passate, abbiamo le gambe finite e ho come l'impressione che oggi portiamo solo gli attrezzi a spasso, per davvero. All'improvviso noto un'altra colata ghiaiosa, meno marcata della precedente, che scende giù da un gruppo di alberi più piccoli e decido di seguirla, mentre Frank prova più a sinistra. Arrancando come un portatore nepalese che mette corde fisse per i suoi padroni, finalmente raggiungo una cengia dove all'improvviso si innalzano i muri rocciosi del Lefre: la vista è rassicurante, ovunque la roccia è grigia e solcata da rigole, mentre alla nostra destra una lunga fessura taglia lo zoccolo del grande diedro che abbiamo visto dal cimitero. Frank mi raggiunge bestemmiando e guarda verso l'alto: "bah, verranno cinque o sei tiri...!", al che io replico: "beh, dopo tutta questa fatica facciamoli, se la via è corta, qualcuno verrà a farla, piuttosto che venti tiri!" - "Si vabbeh, tutto questo bosco per una vietta corta, però dai, c'è il diedro...!". Ci prepariamo e do tutto il materiale da scalata a Frank in quanto voglio decisamente rilassarmi nel boschetto mentre lui esplora, senza scompormi, come un vero impresario che affida i rischi agli altri ma divide le glorie. Ovviamente non avevo la minima idea che in seguito sarei stato severamente punito per questa mia perfidia.
Frank osserva la fessura che si erge al di sopra di noi: è molto piena di erba e ci pare strano che nessuno abbia tentato di salire il diedro più evidente della parete, infatti gli dico scherzando che magari potrebbe trovare un chiodo appartenente a qualche tentativo e gli indico di salire una canaletta appena a destra del punto in cui siamo, così aggiriamo uno zoccoletto inconsistente. Si avvia su molto deciso per circa un metro e mezzo, poi con più circospezione, poi si immobilizza mentre io lo osservo perplesso: "non è per la difficoltà, è per la roccia...! - Si, certo va bene!" e tra me e me penso che la parete non convinca del tutto il compare, che sia troppo poco per lui. Estrae il martello e prova a saggiare la canaletta attorno a sé, come tira un colpo al labbro destro tutto il tratto di parete su cui sta salendo ha un sussulto, oltre al classico suono da cartongesso. Frank impallidisce e io prontamente mi sposto, così giusto per scaramanzia, ben intenzionato a non fare da cuscino umano. Riprova ancora ma tutto ciò che ha attorno è crepato e sobbalza ad ogni martellata, pare che la parete sia quasi fatta di gesso, la roccia si rompe con le dita, così il socio sale un altro metro nutrendo una flebile speranza di piazzare un ancoraggio e trova un punto in cui la roccia suona "piena", o quantomeno è un poco meno peggio che non sotto e fa entrare in azione il trapano. Piantato il primo fix, tiriamo entrambi un sospiro di sollievo, poi il socio sale più facilmente verso una grande scaglia addossata alla parete. Anche in questo caso batte col martello in ogni direzione ma trova solo marciume, al punto che ci domandiamo entrambi se la montagna non sia finta o non stia su per puro miracolo. Guardo la lama che sovrasta Frank e penso che la soluzione più ovvia sia di prendere la fessura di sinistra, ma presenta molta erba, mentre sopra ci sono delle fessurine. Il compare mi urla che vorrebbe proseguire dritto per le fessurine ma come prova a mettere un chiodo, qualcosa si sbriciola. Mentre mi bifonchia qualcosa io sposto lo sguardo a destra verso e vedo un'altra fessura, poco visibile e nascosta da un pino; sembra più pulita della sua gemella e più in linea con la spaccatura che vogliamo seguire, così urlo a Frank di traversare decisamente a destra e provare a raggiungere il pino. Inizialmente non lo vedo molto convinto ma mi ascolta e dopo un po' di battute violente contro la roccia pessima, vola giù una grossa scaglia e si libera un posto solido per piazzare un fix. Dopo averlo fissato si sposta un po' a destra su placca liscia e trova un bel blocco di roccia compatta e solida che chioda senza pietà raggiungendo l'agognata fessura. La vista della crepa è incoraggiante e la roccia migliora rispetto a prima, così egli la segue riempiendola di friend e posizionando qualche chiodo, prima di arrivare in cima alla scaglia e piazzare una bella sosta comoda. Ancora non lo sappiamo ma sarà l'unica di tutta la via.
Per oggi abbiamo dato più che abbastanza e lasciamo su del materiale, quindi torniamo indietro ravanando ancora nel bosco senza trovare la minima traccia del passaggio fatto all'andata, bestemmiando e con l'ansia del buio in arrivo. Fortuna vuole che, arrivati ad un crinale, io scorgo un segno blu dell'acquedotto che ci riporta sulla giusta traccia per tornare alla chiesetta, altrimenti Frank sarebbe andato dritto fino al versante opposto del monte. Infatti questa volta mi segue senza proferire parola. Arrivati alla macchina incontriamo un tale del luogo che ci guarda con aria commiserevole, pensando che siamo avanzi di manicomio, poi, per pietà, ci spiega che esiste un sentiero che lui stesso ha tracciato e che si porta molto vicino alla nostra meta, il quale si imbocca da una stradina che parte proprio davanti al Castello Ivano. Lo ringraziamo mentre guardo Frank con un misto di odio e biasimo per le ore spese nel bosco ma faccio finta di nulla e ci dileguiamo velocemente, prima che si sparga la voce e al paese chiamino il servizio sanitario per farci un tso.
Passano i giorni e, ai primi di Novembre siamo nuovamente all'attacco, questa volta seguiamo le indicazioni che l'indigeno ci ha fornito, riuscendo ad arrivare alla base in poco più di un'ora, contro la mattinata intera della volta precedente. Risalgo velocemente fino alla sosta che Frank ha piazzato la volta scorsa, poi lo recupero, insieme depositiamo la corda fissa, gli passo il materiale da salita e gli auguro ogni bene. Frank comincia con un traversino verso destra portandosi su una placca erbosa e poi ricomincia la solita routine: si batte la roccia per trovare un punto solido, si fa il buco, si batte dentro un tassello, si stringe la piastra, poi staffa e via ancora per il prossimo ancoraggio. La differenza con la volta precedente è che l'amico Fritz si arena dopo circa cinque metri in cui tutta, e dico tutta, la parete non suona solo come la gran cassa nella Sesta di Mahler, ma addirittura ad ogni martellata si vedono delle crepe allungarsi e dei pezzi saltare via in punti diversi. Frank mi guarda con un'espressione di chi è incerto se essere disperato e urlare o se essere deluso e incerto sulle proprie capacità. Metto da parte il sadismo che mi è insito e tralascio lo scherno, così lo incito ancora un poco a provare vicino all'erba dove magari c'è una vena di roccia solida ma nulla, tutta la parete è rotta, corazzata di croste pronte a sbriciolarsi appena una punta cominci a forarle. Preso dalla rabbia, il socio vorrebbe bucare tutto con una mitragliata di roba andando dritto su per la placca che lo sovrasta propendendo per la quantità anziché la qualità degli ancoraggi. Lo comprendo, però mi farebbe un tantinello schifo ridurre la nostra via in tale stato, così l'occhio mi cade verso destra dove noto una fessura parallela alla nostra, nascosta dall'erba. Il problema è che è distante da lui parecchi metri e nel mezzo c'è una grande scaglia erbosa inconsistente, seguita da un colatoio. Passato il momento delle risa sono un po' sconfortato, però guardando bene la sua posizione e l'attacco della fessura mi dico che forse c'è una soluzione. Mi rivolgo all'amico e gli dico la mia idea: "senti, prima di mandare all'aria tutto, già che sei lì, allungati con un cordino il chiodo a cui sei appeso, poi mettiti in tensione sulla corda mentre io io ti calo un po' per volta e poi pendola con decisione verso la fessura a destra, là la roccia sembra molto compatta". Devo dire che egli reagisce bene e non devo pregarlo come al solito, forse perché le croste lo avevano intimorito abbastanza, quindi esegue quanto detto e comincia a traversare a destra con la tensione della corda; avanza lentamente un passo dopo l'altro camminando su una crosta fragile come i biscotti da inzuppare nel latte e riprendere a battere col martello. Batte una prima volta e niente, la roccia si crepa; batte una seconda volta più a destra e ancora nulla; traversa in tensione ancora un metro ad uno stillicidio al centro del colatoio e batte per la terza volta trovando finalmente roccia ben compatta. Un fix entra subito in azione e poi si volge alla fessura: è una miseria, erba e croste tenute insieme dalla terra ma c'è anche della roccia compatta. Frank sale lungo la fenditura verticale a suon di chiodi e fix, scaricando una quantità importante di detriti ma alla fine raggiunge una grossa nicchia sotto il camino di uscita della fessura. E' andata, per ora, la via può proseguire. Ha impiegato un intero giorno per venire a capo di soli diciassette metri ma è andata; per fortuna io ero su una sosta relativamente comoda.
Ancora una volta ri-disponiamo tutto il materiale da scalata e scendiamo. Le due riprese seguenti sono senza storia, dedicate alla pulizia di quanto fatto fino ad adesso e al superamento del camino, un altro tratto orrendo per via delle croste ma che alla fine si lascia salire senza troppi patemi d'animo. Il bello sarebbe arrivato solo dopo. Già con le prime passate di scopa e martello, la parete rivela che le croste sono solo superficiali e che a volte sono particolarmente tenaci, fatte di argilla dura come la resina epossidica, che richiedono ore di lavoro di battitura col mazzotto per essere rimosse. Meglio così dunque, vuol dire che non costituiscono un serio pericolo se non per il piazzamento degli ancoraggi di progressione.
Passano alcuni giorni, è ormai Dicembre e nevica. Frank mi scrive che ha il sabato libero e che vuole andare avanti, io mi dimentico completamente di guardare le previsioni meteo in dettaglio e lo seguo, arrivando come di consueto sul luogo dell'appuntamento, trovandomi davanti alla sorpresa di una Valsugana completamente imbiancata e con nuvole basse, oltre ad una bella arietta friccicarella a -8°C. Dico al socio che forse sarebbe meglio scaldarsi al bar e che oggi è andata a finire male ma lui insiste che qualcosa si può fare lo stesso. Non so bene per quale motivo lo assecondo, forse per una questione di ego, ma lo seguo e insieme torniamo sulle corde fisse. La marcia di avvicinamento nel bosco, assai penosa per via del fango, ha l'indubbio pregio di riscaldarmi, così che non senta troppo i diversi gradi sotto zero della giornata. Risaliamo le corde fisse e arriviamo all'uscita del caminetto, su una sottospecie di sosta su di una lastra inclinata, che Frank mi decanta come se fosse un posto al pub. Io non sono affatto convinto e mi allungo quel che basta da poter appoggiare un piede su una motta di fango che ha la parvenza di essere piatta. Non ricordo esattamente quel che succede dopo, solo il fatto che il socio bifonchia qualcosa a cui non do peso e, pur di non dovermi muovere in quell'incubo gocciolante che è la parete come si presenta in questa strana giornata, lo "offro volontario" a partire con armi e bagagli. Quello che accade dopo è, per il punto di vista di un osservatore esterno, qualcosa di assolutamente normale, un primo che scala e il secondo che lo assicura, con pochi scambi di battute per tutto il giorno. Quello che accade davvero per chi invece vive la situazione sulla propria pelle, è un vero castigo, la meritata punizione per la codardia dimostrata nelle fasi precedenti dell'apertura. Tanto per cominciare la partenza: come Frank accenna ad alzarsi dalla sosta per imboccare una sorta di canaletta lungo lo spigolo del diedro, subito una crosta delle dimensioni del nostro sacco di materiale si muove in modo preoccupante e tutto quello che la circonda suona vuoto. Lo spavento è tale che ci diamo una bella scaldata, quasi a sudare, malgrado la temperatura glaciale. Per il momento la lasciamo lì, anche perché correremmo il rischio di farla cadere proprio sul nostro materiale da scalata, il che sarebbe un disastro. Passato questo momento emozionante, inizia la vera lotta: il cielo resta sempre plumbeo, non c'è un raggio di sole e la temperatura che si scalda all'incredibile e piacevole temperatura di -6° C, la parete resta bagnata, umida con la neve che si fa molliccia e si scioglie, malgrado il freddo, per qualche fenomeno termodinamico ignoto alla scienza (evidentemente lo scarso irraggiamento solare è più che sufficiente). Frank procede ad una lentezza quasi esasperante, lungo il solco della canaletta estremamente liscio e umido, io resto in piedi sulla motta di fango guardando verso l'alto. A mano a mano che le ore passano, si alza una corrente d'aria, giusta per peggiorare la sensazione di freddo che mi pervade. Inizialmente permane il calore sviluppato con la risalita e le manovre, poi comincio a patire sempre di più. Mi vesto mettendomi quanto di più pesante abbia a disposizione che però non basta, il freddo mi morde anche dentro il piumino; a questo aggiungiamo che dopo un po' non sono più in grado di stare eretto sulla motta di fango e perciò mi sposto sulla lastra inclinata della sosta, letteralmente appeso come un salame. Col passare delle ore viene il pomeriggio, il vento cresce di intensità, al punto che anche Frank, alcuni metri più su, comincia a battere i denti, si volta, mi guarda e mi dice: "se continua così, non so quanto ancora resisterò!". Mi sento sollevato, di solito procede come un trattore dritto per la sua strada, ma questa volta il freddo è davvero insopportabile. Per ora comunque va avanti, malgrado il vento. Si fa ormai pomeriggio inoltrato e ormai le mie gambe sono rigide e indolenzite, l'imbragatura mi taglia i fianchi e il freddo mi procura crampi alle mani. Fortuna vuole che in quel momento esca il primo spiraglio di sole di tutta la giornata e il vento cessi come d'incanto. Il sollievo è però solo momentaneo e solo per il socio che arrampica, non per me; almeno conclude il tiro su una lastra inclinata pure peggio di quella dove sono adesso. Quando scende e mi raggiunge, mi confida: "guarda, per fortuna che si è scaldato perché c'era un freddo...! Povero te che sei stato su questa sosta di m***a ad aspettare!" (bontà sua!). Posso affermare che questa volta ho pienamente compreso cosa significhi affrontare un'invernale, con lo spirito di una volta; c'è molto romanticismo nella letteratura!!!!
Alla ripresa successiva fa sempre freddo, ma almeno c'è il sole (così promettevano le previsioni), pertanto tutto si svolge come da copione e ci ritroviamo all'ultima sosta piazzata, lungo lo spigolo del diedro. Da questo esso punto appare immenso, dritto come potrebbe esserlo un obelisco, con il famoso "tettino" a sbarrare la strada, che da qui si vede perfettamente essere un ostacolo di prim'ordine. Riprende a salire Frank come di consueto, io mi terrò semmai per la parte successiva più "artificiale" della scalata, Quello che gli tocca oggi è, senza probabilità di dire sciocchezze, il tiro più marcio di tutto il Monte Lefre, di tutta la Valsugana, di tutte le Prealpi italiane, pertanto sono ben contento di starmene in sosta a gustarmi lo spettacolo, anche se ciò significa soffrire. Ancora una volta l'amico si sposta verso destra per cercare un passaggio, saggia la roccia e poi si alza lentissimamente sulla placca sovrastante che è letteralmente corazzata di croste che si sbriciolano solo a sfiorarle col martello. Passano parecchie ore durante le quali il socio si apre la strada in mezzo a tutto il marciume, facendomi piovere addosso di tutto e di più, mentre io lo canzono di usare le staffe sul terzo grado. Mentre egli procede verso l'alto, il vento si rafforza improvvisamente e il freddo torna a farsi sentire, fortunatamente c'è ancora il sole limpido ma è comunque fastidioso. Per curiosità butto l'occhio oltre lo spigolo del diedro e vedo perché tira vento: una bufera di neve sta arrivando dritta dritta verso di noi, precipitando giù dai Lagorai. Caccio un urlo a Frank dicendogli che tra poco avremo il maltempo addosso e che comunque siamo in Gennaio; lui, col solito fare laconico di chi si rassegna al suo ineluttabile destino mi risponde: "ma tanto le previsioni di Borgo non danno pioggia! Vedrai che non fa niente!". Sarà anche, ma il dubbio è legittimo. Intanto il socio raggiunge una cengetta fuori dalla mefitica placca e comincia a traversare a destra, tirando giù un macigno dietro l'altro, uno dei quali mi passa pericolosamente vicino; io allungo il collo oltre lo spigolo e vedo il cielo farsi scuro, con nuvole di un bianco quasi abbagliante, segno che sono cariche di cristalli di ghiaccio. Mentre il socio è impegnato nella lotta alla rupe, cominciano a fioccare i primi cristalli e, dietro la nostra montagna, i Lagorai spariscono nelle nubi della nevicata. Comincio a diventare impaziente e sollecito il compare a darsi una mossa perché la situazione si sta rinfrescando! Dopo momenti di grave incertezza, in cui le nostre parole si sono perse nei turbini del vento, sento distintamente il richiamo della nuova sosta, ora spetta a me la solita manovalanza di risalita, piazzamento delle corde fisse e dei vari cordoni, almeno mi sgranchisco un po' le gambe dopo un'altra giornata bloccato in posizione improba. Raggiungo Frank nel centro del diedro che ormai è pomeriggio e gli dico cosa si sta scatenando sul versante opposto del monte ma devo anche ammettere che per una volta ha avuto ragione a fare finta di nulla, infatti il vento cala di intensità e la tempesta di neve devia totalmente verso i Lagorai, lasciandoci al sole. Ovviamente mi risponde: "te l'avevo detto che le previsioni di Borgo non davano pioggia!". La vista di ciò che abbiamo di sopra è abbastanza desolante: tutto il centro del diedro che dovremmo seguire è occupato da erba grassa e rigogliosa, che ci costringe quindi da arrampicare con immensa fatica sulle pareti laterali. Frank fa ancora qualche metro prima di lasciare l'impresa a tempi migliori, quindi ci caliamo e torniamo a casa.
A questo episodio seguono un altro paio di riprese in cui puliamo un po' le lunghezze appena percorse e finiamo di scalare il grande diedro grigio che ci porta direttamente sotto i gialli strapiombi che rappresentano la vera incognita della salita, dopodiché Frank fa una cosa che mi rompe alquanto le tasche, ma su cui taccio perché tutto sommato la via deve proseguire, ossia un giorno infra-settimana se ne va su da solo e chioda un altro tiro. Vabbè, vedremo il da farsi dopo questa nuova sezione. Non passa molto tempo e siamo nuovamente su entrambi, nel cuore del diedro strapiombante. La sosta da cui partiamo è talmente misera, che non ho dubbi nell'identificarla come la peggiore di tutta la via; per di più non c'è spazio per potersi scambiare i ruoli e la risalita delle corde fisse comincia a farsi sentire. Tra l'altro oggi Frank è particolarmente impaziente, pertanto non ho voglia di rogne e gli cedo il passo. Il socio comincia a scalare la fessura giallognola al centro del diedro, intasata di croste e di terra, andando avanti dieci centimetri alla volta, mentre io sono torturato in una posizione assolutamente improba, con un piede su una minuscola tacca, un piede in pressione nel diedro e faccio contrapposizione con la sosta per riuscire a stare in equilibrio, in quanto sono in una strettoia dove non riuscirei a stare appeso. Mentre Frank scala il diedro le ore passano con una lentezza assolutamente esacerbante, quasi da impazzire, l'imbrago mi taglia i fianchi più del solito, lo sento mordere direttamente le mie carni, le gambe stentano a rimanere dritte e i tendini fanno sempre più male. Il punto chiave del tiro che oggi stiamo facendo è un tetto da cui cola uno stillicidio, tutto intorno la roccia è liscia come una lavagna e Frank lo supera riuscendo a martellare due buoni chiodi in minuscoli buchetti. La parte sovrastante, tuttavia, non è da meno e sento distintamente un "c'è la parete che è fatta di segatura!", seguito da una sequenza di bestemmie che si fanno via via più vaghe e informi a mano a mano che la corda fila. Dopo cinque interminabili ore, finalmente sento chiaramente un: "c'è un terrazzino! Aspetta che lo disgaggio!", salvo poi udire un porcone galattico quando sotto la terra e l'erba la parete ritorna liscia come il vetro: "vabbè, la sosta verrà scomoda!". Ma che novità! Intanto però abbiamo raggiunto l'enorme "tettino", che a guardare bene sporgerà di cinque o sei metri dalla verticale ma che lascia intravvedere un passaggio alla sua destra molto logico, senza doverlo affrontare di petto. E' tutto sommato una buona notizia. Risalgo fino a lui con grande fatica, dolente perfino nei gomiti, porto il fardello e sistemo le corde fisse, poi entrambi ci caliamo giù sapendo che la risalita successiva potrebbe essere decisiva. A causa di impegni vari, non riusciamo a trovarci sistematicamente tutti i sabati, tra l'altro si sta avvicinando la primavera e con essa il grande caldo, che renderà impossibile salire la parete, ben peggio che il freddo, quindi diventa adesso imperativo uscire dal diedro e terminare la salita della parete verticale.
La ripresa decisiva arriva, eccome se arriva! Ci tocca, anzi mi tocca, una levata prima dell'alba, un cospicuo rifornimento di fix, il ritrovo direttamente al parcheggio sotto la via per poi risalire gli ormai trecento metri di corde fisse fino all'ultima sosta lasciata, una risalita lenta e faticosa, resa insidiosa dalle scaglie di roccia che non bisogna toccare. Ci ristabiliamo entrambi sulla sosta appesa che Frank ha preparato la volta scorsa, lo lascio andare nella speranza che si sbrighi, ma soprattutto mi approprio del suo seggiolino e mi appollaio sulla sosta che, per una volta, riesce ad essere perfino sopportabile, rispetto alle torture delle volte precedenti. Il socio chioda una placca liscia ma appoggiata e poi si sposta a destra per aggirare il grande soffitto pervenendo così ad un pulpitino sotto l'ultimo grande tetto del diedro, che da sotto non sembrava nemmeno granché. Lo raggiungo velocemente e porto tutto il materiale, la mattinata è già trascorsa ma c'è ancora tempo per finire l'opera, alla peggio torneremo giù con le pile frontali. Frank riparte lungo la placca gialla liscia e verticale sopra il grande soffitto e comincia a portarsi sotto un tetto nero, orizzontale, che sbarra l'uscita del diedro, proprio quando al di sopra si intravvedono le frasche dei pendii sommitali. A metà tiro il socio vorrebbe chiodare dritto un arcigno strapiombo giallastro ma io insisto che sarebbe più corretto continuare nella compatta incavatura tra placca e parete del diedro, più scalabile e più compatta, scelta che si rivela azzeccata perché la roccia tiene sempre, a parte una breve scaglietta. Dopo la consueta lunga attesa finalmente Frank riesce a piazzare la sosta all'uscita dell'immenso diedro del Lefre, io lo raggiungo velocemente e piazzo le corde fisse per poi studiare l'uscita in un secondo momento. E' fatta, siamo riusciti a finire la scalata della parete in tempi utili, adesso tocca finire la pulizia e cavare tutto il materiale lasciato in parete. Rientriamo soddisfatti dopo la lunga giornata passata appesi nel mare di croste precarie di questa montagna ma siamo riusciti a venirne a capo. E' stata una via continuamente tormentata dall'idea che si giungesse ad un certo punto da cui fosse impossibile poi proseguire a causa della friabilità della roccia, invincibile anche al trapano, ma che alla fine ci ha regalato una linea ideale, tracciata dalla natura, che pochi hanno ancora il privilegio di poter percorrere al giorno d'oggi.
Nei mesi successivi approntiamo una discesa in corde doppie, valutando l'idea di proseguire lungo l'ultima balza della parete, molto erbosa e friabile, o di terminare la via lì, all'uscita del tratto verticale di parete. Scioglieremo successivamente questo nodo ma per il momento siamo contenti del risultato. Il nome scelto per la via, "la scala di Penrose", fa riferimento alla figura impossibile che il matematico britannico disegnò ed inviò all'amico Moritz Escher, che ne trasse un quadro e che calza alla perfezione alla forma del diedro che abbiamo scalato.
Apertura del primo tiro
Apertura del secondo tiro, molto sporco e crostoso
Apertura della canaletta nella freddissima giornata di Dicembre
Il grande diedro grigio
Il diedro che ha richiesto ben 5 ore ad essere vinto
Il tetto finale del grande diedro
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