FINO ALL'ULTIMO RESPIRO
La via Zonta-Gnoato-Bertan al Col Molton
Appena passata la scampagnata sul Monte Caliano, che malgrado tutto ci aveva regalato una bella giornata di vero alpinismo, viene il mio turno di lavare il cervello agli altri due.
Cerco qualcosa che sia all'altezza delle aspettative e che soprattutto sia difficile fino all'esasperazione dato che sennò mi dicono dalla cabina di regia che non c'è il divertimento. Cerco quindi di coniugare la comodità alla bestialità e so che la Valsugana fa al caso in questione.
Il diavolo che è in me mi fa tornare alla mente una via che avevo adocchiato anni addietro e che si trova giusto alle spalle di Cismòn, su quell'altura brutta a vedersi che si chiama Col Moltòn (richiama qualcosa di fangoso, chissà perché eh, anche se avrò occasione di ricredermi) e che era da poco stata riattrezzata per poterne permettere la frequentazione (magre speranze).
Sapendo come far radicare un'idea nella testa dei miei sventurati compagni di viaggio manipolando le loro menti, scrivo a Moreno mandandogli uno schema della via un poco vago e disegnato con le linee tutte storte come un bimbo e nel mentre lo rassicuro mefistofelicamente sul fatto che la via sia chiodata ravvicinata, comoda e che sia l'occasione per fare valere l'allenamento accumulato fino a quel momento.
L'entusiasmo si accende immediatamente, ho toccato le corde giuste e "l'amico fritz" coinvolge subito anche Bruno, il quale però fiuta che c'è qualcosa che non va. Non posso lasciarmi sfuggire l'occasione e così lo rassicuro prontamente sul fatto che conosco bene la zona e che per un po' di difficoltà possiamo invece apprezzare la comodità del rapido accesso e dell'ancora più comodo rientro in corda doppia. Questi fatti fugano immediatamente tutti i dubbi e la domenica siamo a Cismòn, con i due compari che già pregustano la salita pensando che si tratti di una vietta sportiva con giusto qualche passaggio che gli farà grattare il capo più del solito. Io, purtroppo, conosco la Valsugana e sento, anzi so che ci saranno delle sorprese di lì a poco ma non dico nulla, un po' perché ho voglia di misurarmi con la salita, un po' per non spegnere l'entusiasmo dei compagni che sono così carichi.
Dopo la solita colazione al bar, ci portiamo in breve all'attacco della via, un po' nascosto in un minuscolo boschetto: la partenza consiste in un camino verticale, un po' sporco di terra e foglie e che richiede i piedi di piombo. Moreno parte direttamente con la marcia innestata per poi rallentare bruscamente come un treno di fronte al capolinea appena arriva sotto uno strapiombo; qualche sbuffo, una bestemmia e tra larghe spaccate e un paio di bracciate, riesce ad intrufolarsi dentro il camino sgusciando poi sul lato opposto dello sperone che lo forma. Seguiamo io e Bruno, col sottoscritto che si incastra nello stretto camino a causa dello zaino e che è costretto ad uscirne strisciando come un verme.
Ci riuniamo alla prima sosta e malgrado la titubanza iniziale il proseguo dell'itinerario pare promettente; riparte Bruno per la prima lunghezza sulle placche nere (valgono da sole un giro in Valsugana), c'è ancora dell'esitazione a causa di un passaggio obbligato proprio alla partenza ma poi prende il ritmo e risale tutta la placca, poi seguiamo io e Moreno. Io tiro anche fuori le "scalette" per risparmiare energie preziose per la parte alta che, a prima vista, sembra mostrare una certa severità, sovrastandoci arcigna e possente, sento infatti una vocina che mi dice che da lì a poco ne vedremo delle belle.
Anche le due lunghezze successive scorrono via veloci e ben presto arriviamo sulla grande cengia mediana, ormai alti sopra le case di Cismòn: il posto è incantevole, sotto di noi le case del paese che sembrano dei modellini, il sole ci tocca di striscio perché la parete è rivolta a nordovest e siamo tranquillamente appollaiati sull'erba in una gigantesca nicchia mentre in lontananza scorrono placide la tangenziale e il Brenta, i cui rumori arrivano appena quassù.
Guardo verso gli enormi strapiombi che ci sovrastano e intuisco il passaggio successivo attraverso un diedro sbarrato da un tetto, poi osservo gli altri e mi rendo conto di cosa sta per accadere: sono l'unico ad avere le staffe (le famigerate scalette) e ovviamente non ho nessuna intenzione di dividerle; il primo di cordata sarà enormemente agevolato dai chiodi ravvicinati, potendo sfruttare la trazione esercitata dal secondo che lo mantiene in posizione, a guisa di carrucola e quindi può cavarsela a buon mercato.
Ma il secondo di cordata?
Non può usufruire della tensione della corda, anzi la sporgenza contribuisce a farlo penzolare nel vuoto, col rischio che si distacchi dalla roccia e non sia più in grado di toccarla. Uno stallo del genere, se non si è più che preparati a gestirlo, può finire male.
Guardo ancora verso il tetto, è piccolo e non sporge poi tanto, i chiodi poi sono molto vicini, dato che parte Moreno rinuncio a un po' di comodità e porgo a Bruno uno dei miei cordoni, così che possa mantenersi attaccato ai chiodi mentre sale.
Il tiro di corda si rivela assolutamente estenuante e Moreno lo vince con molta fatica, dapprima issandosi su chiodi che sembrano avanzati da una rapina in ferramenta, poi sbuffando e contorcendosi per scavalcare un naso sulla destra e immettendosi nel diedro con un passo elefantesco, sparendo in seguito alla nostra vista.
Dopo un po' arriva il fatidico richiamo e lascio partire Bruno che inizialmente si trova un po' impacciato a gestire il coordinamento cordone, moschettoni e salita; io lo seguo serratamente e lo correggo sulla manovra cosicché riesca a prendere il ritmo e a superare l'ostacolo del tetto. L'azione riesce e poco dopo si trova oltre l'ostacolo.
Arrivo anche io, invero senza troppo sforzo fino a quando scavalco il nasetto e mi immetto nel diedro dove c'è un passaggio obbligato abbastanza burbero; lo faccio, mi parte giustamente l'appoggio da sotto il piede e resto appeso con le mani riuscendo poi a issarmi con la forza disperazione, impiegando notevoli risorse per vincere il diedro obliquo e strapiombante, raggiungendo poi la sosta senza fiato.
Ci accomodiamo sulla stretta cornice di sosta guardando verso l'alto: il diedro strapiombante continua presentando un rigonfiamento molto marcato quasi al suo termine, si vedono dei chiodi un po' distanziati che seguono la linea dello stesso.
Mentre gli altri due sono indaffarati io studio il passaggio; ho come il sentore che questo sarà peggio di tutto quello che abbiamo trovato in precedenza. Guardo gli altri: Bruno è momentaneamente cotto dallo strapiombo precedente, Moreno conserva ancora delle energie o ci fa credere di averne ancora.
Potrei andare io che sono quello messo meglio ma vengo preceduto ancora una volta da Moreno che si butta a capofitto verso l'ignoto per il bene collettivo; inutile dire che non rivolgo nessuna obiezione, dato cotanto ardore.
Comincia a salire lentamente lungo il diedro, molto più lentamente di prima; questa volta non è più un'arrampicata ritmica e di ragionamento, ma forza bruta concentrata nella rotonda fessura che a mano a mano sporge sempre di più nel vuoto. Dà quasi un senso di protezione, di ambiente raccolto, che avvolge e isola dal mondo esterno nascondendone le insidie, almeno fino a quando qualcuno non guarda giù e si rende conto che si ritrova centinaia di metri di aria sotto i piedi.
Moreno guadagna il diedro centimetro dopo centimetro con grande sforzo, non ha nemmeno l'energia per bestemmiare; arriva sotto la pancia dove la fessura si allarga e ci si trova penzolanti verso l'esterno: il prossimo chiodo è lontano, le pareti del diedro lisce e la fessura molto arrotondata, troppo per fare ben forza con le mani. Prova a puntare i piedi e si lancia verso il chiodo ma non riesce, il piede scivola; prova ancora ma non si slancia abbastanza e si abbandona di peso all'ancoraggio sottostante.
Io e Bruno lo guardiamo con una certa apprensione, il nostro guerriero che viene respinto così dalla rupe è un pessimo segno. Resta appeso in quella posizione per qualche istante, come arreso ad una forza più grande di lui, poi, in un ritorno di fiamma di italica virilità, adocchia un appoggio minuscolo sul labbro del diedro, ci appoggia il tallone e con una contorsione di braccia spalma il piede destro sotto lo strapiombo alzandosi poco a poco, fino ad arrivare a portata del chiodo. Rapidamente Moreno sfila un rinvio (moschettoni), si lancia sul chiodo e questi entra al volo, mentre mantiene saldamente la presa. E' fatta! Il durissimo passo nel cuore degli strapiombi è vinto. Arriva alla scomodissima sosta successiva e ci chiama guardandoci con aria sfinita, come di chi avesse trasceso la sua condizione umana di prigionia nella carne dando l'ultimo respiro nello sforzo per uscirne.
Adesso però viene il bello.
Dopo che "l'amico fritz" si è sistemato io e Bruno ci mettiamo in marcia. Gentilmente gli riporgo il cordone ma stavolta lo rifiuta e parte a razzo lungo il diedro compiendo ampie bracciate e senza curarsi dello sforzo fino a ritrovarsi a metà completamente appeso nel vuoto. Io lo seguo con un po' più di malizia, facendo ampio uso delle staffe perché so che di lì a un momento lo spettacolo si farà avvincente, però non posso neanche essere da meno e quindi velocizzo la marcia stando alle calcagna del compare.
D'un tratto Bruno tenta di superare di slancio la pancia che aveva sfibrato Moreno solo poco prima e, data la distanza degli ancoraggi, si ritrova catapultato in fuori non riuscendo minimamente a tenere la fessura di fondo. Prova alcune volte ma l'aggetto è eccessivo e non riesce a stare aggrappato, poi si arrende, si stacca dalla roccia e resta lì appeso con la rassegnazione di chi ha dato tutto. Io sono immediatamente sotto e assisto al concretizzarsi di quello che temevo, una situazione di stallo, in cui si è impossibilitati tanto a scendere quanto a salire.
Fortunatamente la nostra cordata è composta di tre persone ed è in casi come questo che il terzo gioca un ruolo fondamentale, conservando lo spirito, le forze e il raziocinio necessari a trarsi d'impaccio e infatti il mio ruolo risulta decisivo.
Mi si presentano due opzioni per risolvere la questione: una è quella di scavalcare Bruno e porgergli una delle mie staffe su cui possa issarsi con tranquillità ma vengo scoraggiato dal fatto che lo spazio è assai angusto e me lo ritroverei di peso addosso finendo per ingarbugliare la situazione già di per sé non facile. L'altra idea è quella che risulta vincente: egli ha appesi all'imbrago un paio di friend (camme meccaniche a incastro) e uno di questi è della misura giusta, così gli grido di infilarlo nella fessura e usarlo per tenersi quel che basta ad acchiappare il famigerato chiodo e dare modo a Moreno di recuperare la corda.
Bruno mi guarda con gli occhi di chi ha avuto un'epifania, sfila il friend, lo incastra nella fessura facendo attenzione che non gli scappi di mano e da uno strattone possente riuscendo nuovamente ad avvicinarsi alla roccia poi, con una mossa che non mi so spiegare, balza ad afferrare finalmente il chiodo risolutivo superando il passaggio e arrivando in sosta con la fierezza del fante sull'Isonzo. Io sopraggiungo con tutta tranquillità poco dopo.
Sempre Bruno riparte immediatamente per togliersi dalla sosta stretta e scomodissima in cui siamo; seguono ancora dei camini stretti, strapiombanti prima di uscire su un minuscolo terrazzino sul ciglio della parete, fuori dalle difficoltà.
E' ormai sera e siamo allucinati dalla fatica e dalle difficoltà affrontate.
Ci apprestiamo a gettare le corde doppie lungo la via che giustamente riserbano ancora delle emozioni come l'enorme pendolo che fa Bruno quando leva un ancoraggio che serviva a direzionare le corde, volteggiando libero sopra i tetti di Cismòn.
Arriviamo alla macchina che è ormai notte, guardandoci negli occhi e pensando che mai, fino ad allora, avevamo affrontato una via tanto mostruosa.
Il Col Moltòn alle spalle del paese di Cismòn del Grappa
Sequenza lungo le placche nere
Il tetto dopo la grande cengia
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