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venerdì 25 settembre 2020

ASCENSIONI AUTUNNALI

 ASCENSIONI AUTUNNALI


Dopo il Diedro dall'Oglio il resto del 2015 trascorse senza avvenimenti degni di nota, tutto da manuale, compresa un'uscita alla Torre Wundt sotto un sole talmente spietato che dovemmo percorrere i camini della parete sud letteralmente saltando da un'ombra ad un'altra, ed eravamo a più di duemila metri!

Il meglio dell'annata però lo avemmo in autunno: riuscimmo a portare a termine "linea di confine" sul Soglio dei Corvi, una parete appena scoperta dall'infaticabile esploratore delle Piccole Dolomiti Tranquillo Balasso e su cui aveva tracciato una serie di itinerari nuovi (aveva cominciato solo l'anno prima). Fu una classica giornata dove tutto andò alla perfezione, lungo un bello spigolo di roccia con passaggi atletici e divertenti, approfittando del tepore di un'alta pressione che faceva tardare l'arrivo della stagione fredda. 
Successivamente fu la volta di un tentativo abortito a causa della partenza ad ora troppo tarda sulla "Tostata del Bostel", un'altra via nuova di Tranquillo Balasso con difficoltà abbastanza sostenute lungo il giallo e strapiombante pilastro del Soglio Bostel, la parete sottostante il paese di Rotzo. Arrivammo in quell'occasione oltre i grandi tetti ma dovemmo ripiegare perché avremmo corso il rischio di trovarci ad arrampicare e fare manovre con la pila frontale in mezzo alla parete. Nonostante ciò riuscimmo comunque a percorrere delle belle e impegnative lunghezze. Nel mese di Dicembre ci trovammo poi a percorrere una via sul Monte Cengio, l'ennesima nuova creazione di Balasso, lungo il pilastro della Terza Pala e chiamata "Loli" che ci regalò una magnifica e atletica scalata lungo diedri e fessure e dove per la prima volta anche il Bocia si trovò alle prese con passaggi di VI (tralascio il fiume di imprecazioni che mi sono beccato per averlo trascinato a soffrire con fraudolenza!). Arrivato Dicembre e con esso il freddo e la neve, oltre ad impegni vari, se ne andò anche l'anno 2015 che tanto era stato colmo di soddisfazioni.


Torre Wundt

Lungo il primo tiro

Nel camino superiore

Vetta della Torre Wundt

Il sottoscritto alla base di Linea di Confine sul Soglio dei Corvi

Il primo tiro visto dall'alto

Valdastico autunnale

Monte Cengio a Dicembre, infondo la Terza Pala con il pilastro della via Loli

Lungo i diedri della via

Il sottoscritto al primo tiro

Tratto chiave della via

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sabato 19 settembre 2020

CIMA DEL LAGO - DIEDRO DALL'OGLIO

CIMA DEL LAGO 

DIEDRO DALL'OGLIO 

Passato il mese di Luglio del 2015, piuttosto caldo e faticoso, venne finalmente un periodo di meritata vacanza e approfittai per organizzare una salita con l'amico svezzato da poco alla montagna e che da poco era divenuto Dottore (nel senso di medico). Come avvenne anni prima andai alla ricerca di una via facile ma lunga per rimettere in sesto le braccia e il fiato dopo il periodo di inattività: aprii la Bibbia del Buscaini sulle Dolomiti Orientali e la scelta cadde su questa via degli anni '50 aperta da Dall'Oglio e Consiglio lungo un regolare diedro nel gruppo di Fanis.

Piazzammo la tenda in una radura abbastanza nascosta lungo il fiume che costeggia la strada che sale alla Capanna Alpina e il Dottore tirò fuori un bel materassino da tenda "matrimoniale" su cui dovemmo dividerci i cm quadrati disponibili, senza agitarsi. Passò la notte con un sonno altalenante ma che tutto sommato rimase calda e la mattina, assonnati e con una pigrizia sopraggiunta come le zecche che non si staccano, ci avviammo alla volta della parete, partendo assai di buon'ora dato che ormai lo stare distesi a contare i minuti era divenuto straziante. Scambiammo giusto due parole con una coppia decisamente più matura di noi che ci superò allegramente nella faticosa salita verso l'attacco, mentre le nostre pance vuote e penzolanti di nullafacentismo ci ostacolavano il cammino. Arrivammo comunque alla base della parete, mentre la coppia di prima si stava alzando lungo lo zoccolo sacramentando abbondantemente malgrado l'apparenza bonaria. Partii anche io e capii subito il perché di tante bestemmie: lo zoccolo era un ghiaione, una catasta di rocce sfasciate e accatastate le quali, oltre a non fornire assolutamente una valida presa, rischiavano di lobotomizzare il compare di sotto (nel mio caso si sarebbero rotti i sassi). Al primo tiro mancai la sosta di pochi metri e dovetti attrezzarne una alla buona coi friend dentro dei buchi non molto rassicuranti (ma vince la quantità). Ai tiri successivi la nuotata continuò, sempre su terreno precario e con notevoli impacci causati dalle corde che, ovviamente, non perdevano occasione di impigliarsi su ogni minima asperità non necessariamente fissa. Arrivammo alla cengia a metà della via esausti e con le mani tremanti vista l'arrampicata del tutto inaspettata che avevamo dovuto affrontare. Indietro non si tornava e quindi avanti!!!

Traversata la cengia verso destra mi portai sotto una nicchia rotonda chiusa da uno strapiombo; nel frattempo il sole si fece cocente malgrado la quota di 2000 m. Dopo qualche tentennamento decisi di infilarmi nell'incavo per rimanere bloccato ancora una volta incerto sul da farsi: bisognerà affrontare lo strapiombo? Devo uscire a destra? Perché non c'è nulla? Le difficoltà non erano eccessive comunque avessi deciso di procedere ma per non sapere né leggere e né scrivere piantai un buon chiodo e uscii dalla nicchia a destra trovando subito un chiodo di via nascosto in un buco. A quest'ultimo seguì un diedro strapiombante faticoso che mi portò ad un misero terrazzino di sosta con un'ancor più misera sosta; la roccia però migliorò decisamente quasi ciò che avevamo passato prima fosse una sorta di selezione. La lunghezza successiva fece dimenticare tutte le tribolazioni: una placca compatta e monolitica che più in alto si chiudeva a diedro e che regalava un'ottima arrampicata su belle e solide maniglie. 

Alla sosta successiva fummo raggiunti da un gruppo di cinque "stagionati" provenienti dalla Toscana e la cui età media era difficile da definire. Probabilmente la somma di tutte le loro età avrebbe coperto il tempo che separava noi da Leonardo. Essi procedevano con una cordata da 3 ed una da due, ci raggiunsero e per cercare di far presto ci sorpassarono cercando di accorpare i tiri con conseguenti ingarbugli delle corde e con il problema ulteriore di suddividere ulteriormente le già non spaziose piazzole di sosta sui magri e usurati chiodi (con conseguenti auguri di "buona salute" rivolti alla loro direzione). Malgrado il caldo torrido e la grande confusione generata dal sopraggiungere delle altre due cordate la scalata procedette a suon di "mi fa male la prostata...ti sto tenendo con le mani...fermati che ho lo protesi all'anca, Maremma maiala...(e non solo quella)" lungo la fenditura principale del diedro, col loro capocordata in testa e io subito dietro. Il diedro qui si fece di proporzioni enormi, fino all'ultimo tiro, magnifico. Alla fine, vista l'evidente stanchezza di noi due e della situazione di groviglio  che si era venuta a creare approfittai della generosità della cordata da due, formata da lui e lei, per avere un passaggio da secondo, rilassarmi un attimo e sveltire l'uscita in cresta. 

Arrivammo in cima alle 17,00, stanchi fino nell'anima ma contenti e soddisfatti ma non era ancora finita. Ci avviammo lungo la discesa, per tracce e con le corde ormai legate per il trasporto fino ad una calata in corda doppia, l'unica di tutta la discesa, in cui il gruppetto di vecchi si ostinò a voler ritirare le proprie corde per sveltire la discesa, secondo loro. Ci costrinsero quindi a sciogliere le corde appena raggomitolate, legarle insieme, calarci, bestemmiare per il groppo che ne conseguì e in tutto a perdemmo quasi un'ora per superare l'ostacolo. Arrivammo giù al Rifugio Scoiattoli stanchi, giusto per un panino, prima di riprendere il sentiero di discesa con la sorpresa che il rifugista ci chiese che fine avessero fatto i tizi dalla prostata ingrossata che non si erano ancora fatti vivi e cominciava ad essere in pensiero. Lo tranquillizzammo dicendo che probabilmente erano già alla macchina e continuammo la discesa. Ritornammo stanchi morti alla radura dove ripiazzammo la tenda e ci riaccomodammo sul materassino matrimoniale che si bucò, e su cui facemmo involontariamente l'altalena per tutto il resto della notte.


Relazione


La Cima del Lago dal parcheggio

La stessa vista dopo il Rifugio Scoiattoli

La base della parete

Lungo la parte centrale del diedro

Lungo l'ultima fessura



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lunedì 17 agosto 2020

IL BOCIA - Si cambia registro

 IL BOCIA

Si cambia registro

Il primo incontro con "il Bocia" avvenne durante il raduno organizzato dall'amico Giovanni al Rifugio Brentari nella piovosa estate del 2014. Il caro amico comune lavorò dietro le quinte per "combinare il matrimonio", tenendo ovviamente i due diretti interessati ignari di quello che li aspettava e fu così che dopo qualche mese ci ritrovammo ad arrampicare sui Colli Euganei, prima a Monte Pirio e poi a Rocca Pendice, tanto per fare muscoli. Il Bocia era volenteroso e fresco di scuola del CAI così cominciai ad aggiungere al suo repertorio di nozioni qualche trucchetto imparato a dura fatica sulla mia pelle. 

Il nomignolo di Bocia glielo affibbiai durante la prima uscita in falesia a Monte Pirio, era inverno ma in una giornata soleggiata. Scelsi lo Spigolo della Grande, la via in assoluto più facile della falesia (ma anche la più carina, secondo me) e mi legai pronto a partire quando il "caiano" cominciò ad apostrofarmi (o meglio, a passarmi la carta vetrata sui gioielli) sul nodo, sul come mettere la corda nei rinvii, sul punto dove stavo salendo quando e se fosse meglio partire più dritti quando ribattei secco: "senti, tasi e 'scolta il vecio che ga i cavei bianchi", così lui di ritorno "ah, cussì mi sarìa el Bocia". Da quel momento mi riferii a lui quasi sempre come a "il Bocia", che in dialetto significa ragazzino, adolescente, inesperto. 

Dopo le prime uscite in falesia, non prive di situazioni pittoresche, venne la primavera del 2015 e con essa la prima vera e propria scalata in montagna. Optai per uno sparuto pinnacolo vicino a Rimini, la Penna del Gesso, che avevo già salito per un itinerario  di scarso interesse (vedi pagina Appennino) nell'autunno con Paolo e Stefano ma scegliendo questa volta la via Diretta allo Spallone, ossia la via più ardua, che obbligava a dei passaggi artificiali. La via cominciava subito con dei passaggi non difficili ma abbastanza atletici tra appigli e staffe, sempre su buoni chiodi, fino alla prima sosta, in cui recuperai il Bocia sorbendomi una buona ora di vento gelido col vento gelido, il minimo vestiario sindacale e la moccola al naso, dato che lo zaino l'aveva lui. Quel giorno, tra l'altro, ci metteva più del solito, mannaggia! Raggelato in quella posizione e coi muscoli intorpiditi, chiesi pietà e lo feci andare avanti sul tiro seguente perché nel frattempo dovevo scongelarmi come lo Scoiattolo dell'Era Glaciale. Dopo una prima esitazione il Bocia proseguì piano piano (ma io ora avevo il vestiario) fino a prendere il ritmo, inaugurando il suo primo tiro da capocordata e raggiunse poco dopo una scomodissima sosta appesa in cui lui era già di troppo. Lo raggiunsi per scaldarmi scoprendo che pochi metri al di sopra della mia postazione la corrente d'aria cessava lasciando spazio ad un sole spietato, malgrado la stagione e proseguii rapidamente verso l'alto con una serie di passaggi atletici fino a sbucare sul grande pianoro della spalla. Il raggiungimento della vetta fu una formalità. Fu una salita di soddisfazione, immersa nel panorama dell'Appennino romagnolo in cui sperimentammo una tecnica artificiale a cordini statici decisamente desueta e poco utile ma che avremmo usato ancora prima di perfezionare il sistema per l'apertura di itinerari decisamente più difficili.

Nei mesi seguenti seguirono alcune altre ripetizioni in cui il Bocia provò anche la progressione da primo di cordata acquisendo gradatamente capacità, come sulla Via Teresa alla Parete Zebrata, e un tentativo fallito di ripetere la via Maestri-Alimonta alla Rocca di San Leo a causa del maltempo (incredibile ma vero, nel riminese è facile incappare in temporali estremamente violenti). Una bella ripetizione fu quella che facemmo alla Pietra Bismantova, scelta come ripiego per il maltempo in montagna nel mese di giugno. Optammo per la via più facile della parete est, ossia la Pincelli-Brianti che sale per canali sopra l'anfiteatro. A differenza della montagna sulla Bismantova splendeva il sole più cocente e spietato e per tutto il giorno non si vide l'ombra di una nuvola. Riserbai a me il tiro chiave della via, un diedro che richiedeva dei movimenti un po' atletici, scalato mentre mi soffiavo sulle dita ustionate dalla roccia non proprio fresca e lasciai andare il Bocia da capocordata sul resto della via. Alle soste i vestiti non avevano più un centimetro quadrato che non stesse per andare a fuoco, perfino gli alluci appena infilati nelle scarpette scottavano. Arrivati all'ultimo camino il Bocia finì per bloccarsi davanti alle "dimensioni" della vulvare fenditura che sbarrava l'eroica ascesa, uno stretto budello che richiedeva dei passi ad incastro e che era troppo stretto. Dopo le prime lamentele prontamente sedate dai miei "incitamenti", uniti dalla prospettiva di passare un po' di tempo ad abbronzarsi, il Bocia provò a entrare con più decisione nel camino, vi si spinse dentro strisciando centimetro dopo centimetro e spinse con tutte le sue forze. Passato un tempo interminabile in cui sognavo il raffreddamento ad azoto liquido dei telescopi il ragazzo saltò fuori dal camino come il tappo da una bottiglia di spumante e volò in alto fino alla sosta dove un escursionista, pietosamente gli offrì un sorso di acqua.

Arrivò in fretta l'estate e il momento in cui mi dedicai al diploma di composizione al Conservatorio che mi tenne impegnato ben tutto il mese di Luglio e quindi per il momento ci fu una pausa dalle avventure in croda prima di riprendere nel mese di Agosto.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/appennino.html

La Penna del Gesso

Il Bocia lungo il primo tiro della Diretta

Verso la scomodissima sosta del secondo tiro

La Pietra Bismantova

Il Bocia si avvia al camino finale

Lungo la via Teresa alla Perete Zebrata

Sempre lungo le placche della via Teresa


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CIMA D'ASTA - Via Lino Egidio

 CIMA D'ASTA

Via Lino Egidio

Il 2014 fu un anno magro e di cui ricordo poco, in parte a causa del maltempo e in parte a causa di problemi di studio ma una delle uscite meritevoli di essere ricordate fu questa. 

Giovanni organizzò quell'estate un meeting di amici tra escursionisti e rocciatori e di questi ultimi riuscimmo a formare due cordate con l'intenzione di percorrere una via sulla bella e granitica parete sud di Cima d'Asta. Avevo già affrontato delle salite fisicamente faticose e pensavo che sarebbe stata l'occasione di rimettermi in sesto dopo tanta attesa ma in verità non sapevo a cosa stavo andando incontro. Ero completamente fuori forma, in un modo che mi sorprese del tutto, peggio che negli anni precedenti e la salita al Rifugio Ottone Brentari fu infatti un supplizio al punto che per togliere la forma quadra al mio posteriore dovetti quasi ricorrere allo scalpello. A ciò ci mettemmo anche il fatto che non volevo assolutamente perdermi la via a Cima d'Asta e che non volevo assolutamente apparire meno degli altri, avevo un'immagine da mantenere (?). 
La salita lungo il sentiero, di per sé non troppo impegnativa, fu sufficiente ad esaurire il mio povero bacino di risorse disponibili, tanto che arrancavo sul sentiero cercando in ogni modo di risparmiare energie e di mantenere un contegno dignitoso, implorando che una bufera, un asteroide o la guerra atomica ponesse fine al supplizio. Per poco non fui ascoltato perché un acquazzone violento ci flagellò per una buona parte della salita, formando torrenti dove prima non c'erano e il freddo pungente si insediò in quota, rendendo obbligatorio il vestirsi pesante.

Arrivai al rifugio abbastanza cotto, con l'impellente desiderio di dormire ma per non fare il separatista mi sorbii tutta la festa della sera per i ritrovati del meeting, tenendomi gli occhi aperti con gli stuzzicadenti. Anche se dormii nel camerone non udii nessun suono fino alla sveglia della mattina.

Il mattino seguente, ancora un po' rintronato dal giorno prima, raccolsi le forze, credendo erroneamente che una notte di cibo e buon sonno m'avesse potuto ristabilire in fretta e mi misi in cammino con Giovanni e con gli altri due arrampicatori per andare a ripetere una via sulla parete di Cima d'Asta. Il primo obbiettivo era la via Roger, una delle vie dure di Cima d'Asta, a perpendicolo sotto la vetta ma le cascate d'acqua che ancora scolavano giù per i camini ci invitarono gentilmente a far ricadere la nostra scelta sulla via Lino Eigidio perché in quel momento era l'unica via che si presentasse meno bagnata (asciutta era pretendere troppo). 
Iniziammo la via sotto un bel sole ma sempre vestiti di tutto punto perché l'astro non era sufficiente a scaldare l'aria, ancora densa di vapori delle piogge cadute nei giorni precedenti e di una brezzolina fredda che saliva dal fondovalle. Gli altri partirono di gran carriera e noi ci accodammo con buon ritmo, sotto delle colate d'acqua gelida lungo lastroni di granito che erano un vero supplizio per mani e piedi. Malgrado il freddo, la via scorse abbastanza tranquilla e veloce con Giovanni in testa fino ai camini terminali quando un tuono rimbombò alle nostre spalle; ci voltammo e ci trovammo improvvisamente in un cielo surreale: la vetta cominciò ad essere inghiottita da nubi nere, segno di un temporale da nord, e dietro sulla valle nubi alcune nubi bianche interruppero il sereno nascondendo altri cumulonembi in arrivo da ovest, il tutto mentre su di noi splendeva il sole. 
Cominciammo a correre verso l'uscita incuranti dei continui rivoli d'acqua mentre i tuoni si facevano sempre più vicini; inutile dire che correre era un modo per mettere le mie energie in riserva, considerando anche il fatto che bisognava tornare poi a valle. Per guadagnare tempo Giovanni prese a recuperarmi a spalla o su degli spuntoni con l'implicito imperativo "vietato volare", specie sul friabile pendio finale cosparso di blocchi traballanti; lo sapevo, era sensato, tenni la concentrazione fino all'ultimo centimetro e tutto filò liscio. 
Alla fine, proprio quando fummo inghiottiti completamente dalle nuvole scure, raggiungemmo la cresta sommitale, fuori dai pericolosi camini della via. Qui tirammo il fiato e incominciammo, o meglio, io incominciai piano piano la discesa lungo il sentiero sulle gande di granito per rientrare al rifugio. Io ero il più stanco della combriccola e rimasi indietro, scendendo con attenzione a gambe rigide perché tendevano ad addormentarsi, abbastanza spossato dalla corsa fatta su per la via e per il poco allenamento che ora cominciava a farsi determinante. Mentre scendevo il dolce declivio che porta al rifugio mi ritrovai sommerso da una grandinata fittissima e circondato da fulmini come in un film di fantascienza. A coronare il simpatico quadretto ci fu il fatto che ero completamente ricoperto dall'acciaio del materiale di arrampicata; provai a infilare la mantella che finì col coprirmi solo in parte e così potei godere l'orgasmo dello zaino inzuppato e della grandine nel collo fino infondo. Raggiunsi il rifugio sano e salvo dopo essermi gustato interamente la grandinata, immerso in un paesaggio invernale che fino ad allora avevo letto solo nei libri. Nella discesa mi cadde anche la corda lungo il sentiero e la mia faccia da zombie convinse Giovanni a fare un salto a prenderla, fortunatamente non era tanto distante. 

La discesa dal Rifugio Brentari fu tranquilla, in un andirivieni di temporali ma col meteo che volse gradualmente al bello e fu in questo momento che feci la conoscenza del "Bocia", futuro partner in nuove e "mirabolanti" imprese.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/dolomiti.html

La parete sud di Cima d'Asta dal Rifugio Brentari

In azione sulla parte iniziale, quando il meteo era ancora bello

Lungo i bellissimi camini

Verso il laghetto di Cima d'Asta col tempo che va peggiorando

Temporale in arrivo

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sabato 15 agosto 2020

CAMPANILE DULFER

 CAMPANILE DULFER

Venne l'anno 2013 e alla nostra cordata si aggiunse un certo Giovanni, uno con la grinta giusta per affrontare le super vie delle Dolomiti e delle Alpi in genere. 
Paolo desiderava da un po' salire questo celebre campanile dei Cadini di Misurina, perché per un po' se l'era dimenticato e glielo rimisi in testa io, perché avevo letto in un libro che era uno dei più begli spigoli delle Dolomiti (ovviamente chi l'aveva scritto ben si era guardato da esprimere i criteri di valutazione). Combinammo un fine settimana per salirne la classica via di Hans Dulfer aperta negli anni '10 lungo l'affilato e verticale spigolo.

La domenica mattina iniziò piuttosto fredda, soprattutto dopo aver passato la notte nella topaia del locale invernale del rifugio, perché il resto era "pieno" di un corso di laureandi in medicina (quattro gatti), però c'era un cielo terso e promettente. 
Ci avviammo tutti e tre con calma alla base della torre che sembrava dietro l'angolo, forse perché il movimento portava calore. 
La via si dimostrò impegnativa e delicata fin da subito, molto più di quanto non dichiarino le relazioni circolanti in quanto è quasi completamente schiodata e non aveva l'aria della super classica in cui fare la fila, ossia come l'avevano venduta fino a quel momento. 
Da questo avrei dovuto darmi una svegliata per quanto riguarda certi personaggi che dicevano "ma ai miei tempi noi facevamo, noi brigavamo" e scemenze simili, 'sto paio di palle! "Ai miei tempi" ma col culo di qualcun altro! 
Ci volle ancora un po' per scuotermi ma le mie certezze subirono un primo scossone.

Il secondo tiro, benché tecnicamente facile, ci mostrò subito tutta la delicatezza di un tiro "classico" dolomitico: un lunghissimo traverso di 40  m in cui era vietato volare per tutti i membri della cordata, in quanto non c'erano fessure dove mettere chiodi o altro ma si poteva solo tastare bene la roccia e procedere lentamente. La sosta di recupero poi era una delizia: larga e spaziosa come un comodino, solida come un muro a secco sulla sabbia, che ovviamente bisognava dividere i tre. 
Seguì uno strano passaggio che ci fece perdere tempo ma che dimostrava appieno l'intuito dei primi salitori in quanto i grandi strapiombi che ci sovrastavano venivano aggirati con un tratto in discesa verso sinistra per imboccare un invisibile camino. 
Le lunghezze di corda successive si susseguirono un po' più tranquille, con Giovanni al comando, fino quasi alla cima in cui toccò a me condurre la cordata. Altre due lunghezze su ottima roccia lavorata e in grande esposizione filarono via lisce e senza problemi fino all'ultima placca prima della vetta. 

Sostammo tutti e tre in una grossa nicchia, il solo altro punto in cui rinvenimmo dei chiodi di sosta, compreso il primo tiro e il tratto appena compiuto da me. Dopo un attimo di pausa per riprendere fiato partii per la lunghezza seguente, ovviamente con un solo chiodo in 50 m di V grado e scarse possibilità di rinforzare (via super classica...mavaff...!). Mentre lottavo con uno strapiombo panciuto ci raggiunse un'altra cordata che era salita in velocità lungo il nostro stesso itinerario, senza zaini, senza vestiario (noi sbattevamo i denti dal freddo e questi erano in maglietta e pantaloncini) con solo le corde e tre friend per essere più "leggeri" (chissà cosa avrebbero fatto se si fossero trovati fuorivia, magari in una placca panciuta senza possibilità di proteggersi e di retrocedere. Ma vaff...anche a 'sti modaioli che si credono chissà chi!!!). 
Approfittai allora per chiedere loro un "passaggio" grazie alle loro corde tese, visto che erano svelti e ci stavano scavalcando, allo scopo di velocizzare il nostro arrivo in vetta, dato che nel mentre si andavano addensando delle nubi da nord. Molto gentilmente i due acconsentirono (menomale) e proseguirono seguiti immediatamente dal sottoscritto. Una volta che il loro capocordata arrivò in sosta gli urlai di tenere le corde bloccate un momento per permettermi di passare una nicchia e raggiungere un buon chiodo e così diedi due possenti bracciate per issarmi su quando sentii arrivare delle urla disperate che mi bloccarono pietrificato, non riuscendo a distinguere le parole. Contemporaneamente un tuono rimbombò tra le vette circostanti e il cielo si incupì di colpo (nel giro di una decina di minuti) facendoci sprofondare nella nebbia. 
Cercai di non badare alle lagne che mi giungevano dall'alto e proseguii verso un diedro fornito di ottima clessidra quando all'improvviso mi piovve addosso una valanga d'acqua mista a nevischio che cominciò ad imbiancare rapidamente la zona circostante e, bloccato in quella posizione infelice, non potei fare altro che sorbirmela tutta sperando nella magra protezione del kwai. Tutto ciò avvenne mentre i miei due soci sghignazzavano allegramente al riparo nella nicchia di sosta.
Il temporale durò per un po', circa una mezz'ora, bastevole a gelarmi il sangue nelle vene, a togliere il sorriso dalle facce dei due compagni e a ridurmi come la spugna servita a Cristo agonizzante. 
Mi decisi a tirare in ballo Giovanni per riprendere il comando facendosi aiutare dalla cordata che ci aveva incrociato e che era rimasta intrappolata come noi nel temporale. Acconsentì senza obbiettare e anche l'altro ragazzo non si oppose. Giovanni mi raggiunse, mi sorpasso e dopo poco arrivammo tutti sulla cima della torre, giusto per tirare un po' il fiato e tentare di scaldarsi un po' al sole, fortunosamente risbucato dalle nuvole, mentre l'altra cordata si avviò direttamente alla discesa. 
In quel mentre Giovanni mi guardò, accennò un sorriso molto amaro e mi sussurrò il motivo del perché mi giunsero delle urla disperate dall'alto, ossia il pericolo micidiale avevamo corso ignari solo poco prima, quando avevo strattonato la corda degli altri due per superare la nicchia strapiombante: il capocordata, che mi aveva rassicurato, lo ribadisco, sul fatto che avrebbe tenuto bloccate le corde per permettermi di issarmi nel tratto più scabroso, visto il temporale in arrivo, aveva nella fretta allestito una sosta e recuperato il compagno, il sottoscritto e Giovanni su un solo friend (specie di cuneo meccanico a molla) malamente appoggiato tra due macigni; se fosse venuto via per uno strattone avremmo avuto sicuramente due morti, uno gravemente inforunato, un altro con qualche escoriazione (grazie alla robusta clessidra) ed uno incapacitato ad intendere e volere. Per fortuna eravamo saldamente  ancorati ai chiodi di sosta nella nicchia.

A questo segue una riflessione: come ho avuto modo di sperimentare varie volte in seguito (questa fu solo la prima), tutto il discorso sui gradi, la tecnica cresciuta in falesia, la velocità sul facile, sicurezza delle dita, ecc., sono solo UN MUCCHIO DI BALLE raccontate da gente ignorante che firma i documenti con la X (ad insulto di gente poco istruita ma che fece la guerra e altre grandi prodezze), che si mette a cianciare di cose che non sa, o che ha solo sentito dire. 
Costoro o mentono per motivi di immagine o dovrebbero fare un pellegrinaggio in qualche luogo santo per la fortuna che hanno avuto e che poi se ne vadano a prenderlo dove non batte il sole!!!! Purtroppo di gente che ciarla ce n'è troppa.

La cosa più importante è essere padroni della tecnica, ossia dell'uso corretto del materiale a partire dai concetti più semplici, non farsi scrupoli nel prendersi il tempo che serve (e se è troppo si torna a casa  prima di inguaiarsi) a progredire sicuri e conoscere il più possibile l'ambiente che si va ad affrontare (inteso anche come luogo geografico). Dopo di questo arriva anche l'allenamento muscolare.

Dopo il momento di religioso silenzio per il dramma appena vissuto iniziammo anche noi la discesa e buttammo la prima doppia sul lato opposto del campanile. 
Giovanni affrontò per primo l'abisso e scomparve alla nostra vista. Dopo un lungo periodo di attesa in cui non si sentiva nulla dal basso io e Paolo cominciammo a chiamare e a inveire verso il poveretto là appeso come un salame fin quando, dopo diversi improperi ed un'attesa snervante arrivò il tanto sospirato richiamo di "corda libera" che significava abbandonare quello stretto fazzoletto orizzontale per fare i conti col vuoto. 
Capimmo poco dopo perché Giovanni era rimasto bloccato, anche se non mancavo di prenderlo in giro per il suo trastullo fanciullesco: le corde infatti non finivano nei pressi della calata successiva ma su un vuoto insondabile da cui sarebbe stato necessario pendolare verso la forcella formata dal campanile col corpo principale della montagna (manovra che rese famosa l'ascensione e che mise nei guai più di qualche ripetitore, come scoprimmo in seguito). Giovanni dovette quindi dondolarsi sugli ultimi centimetri delle corde per riuscire a raggiungere un pianerottolo mentre noi coi piedi ben piazzati a terra lo "incitavamo" a darsi una mossa, ovviamente col rischio che le corde si sfilassero del tutto dal suo discensore. 
Non finì lì, infatti, appena riuniti tutti e tre sulla forcella, le corde rimasero incagliate da qualche parte sopra il grande strapiombo che ci sovrastava, lasciandoci come tre vacche che fissano la discesa di un possente asteroide, mentre la sera cominciava a calare su di noi. Provammo a turno tutti e tre a tirare una delle corde ma nulla, il nodo di giunzione era saldamente incastrato lassù da qualche parte. Ci mettemmo tutti e tre su una corda solo ma nulla, erano immobili come bastoni di legno. Ad un tratto Giovanni ebbe un'idea (che aveva sfiorato anche me ma che non avevo il coraggio di proporre): essendo io il più pesante del trio mi sarei legato con un nodo autobloccante alla corda e ci sarei saltato sopra nel tentativo di strappare il nodo di giunzione dalla sua posizione, con un cordino sarei rimasto attaccato alla sosta principale. Giustamente bisogna mandare avanti i giovani!
L'idea non era per nulla piacevole, data la posizione spaziosa come un tavolino da bar, sospesa su orridi canali dipartentesi dalla piccola forcellina della torre ma, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente le corde cominciarono a scorrere, seppure con molta fatica. 
Qualche centinaio di tentativo dopo era fatta, tutti e tre cominciammo a tornare alla vita dopo questa lunga serie di "emozioni forti". Proseguimmo con le calate che per altre due volte videro le corde incagliarsi. La differenza fu che fummo più previdenti nel buttare le doppie  e fu più facile levarle dai piedi. All'ultima calata in corda doppia Giovanni mancò la sosta finendo su un terrazzino dove fu costretto a slegarsi e ad aspettare la nostra discesa prima di riportarsi in carreggiata, tanto per non farsi mancare nulla. Arrivammo alle ghiaie col buio che avanzava, lieti finalmente di essere su qualcosa di orizzontale, baciando il terreno. Sapemmo in seguito, ripassando per il rifugio, che anche i due che ci avevano preceduto avevano vissuto momenti di terrore lungo la discesa per l'incagliamento sistematico delle corde doppie. Beh, magra consolazione, almeno potevamo dire di non essere del tutto impediti. 
Sulla strada del ritorno, ormai alle due di notte, una pattuglia ci fermò per fare un controllo e ci fece aprire il bagagliaio pensando che fossimo spacciatori di ritorno da una discoteca. 
Fu l'ultima emozione dell'uscita.


Il Campanile Dulfer con lo spigolo.



Momenti di scalata sulla parte alta dello spigolo

Lungo la parte bassa per un magnifico diedro

Il tratto più affilato dello spigolo

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mercoledì 22 luglio 2020

KLEINER ANGELUSSPITZE - SOLO TRA I GHIACCI

KLEINER ANGELUSSPITZE 

Solo tra i ghiacci


Venne l'anno 2013, che già in primavera aveva visto una ripartenza timida dopo i disastri dell'anno precedente portando a casa qualche bella via di Arco come la Rita alla Parete Zebrata, mi trovai in vacanza con i miei genitori a Solda, località ai piedi dell'Ortles che ha segnato la mia esistenza fin dalla tenera infanzia.
Quando ero bambino tentai una volta di salire ad una delle vette del Circondario, il Kleiner Angelus, una piccola cima rocciosa ammantata da un piccolo ghiacciaio molto ripido; desistemmo a causa della neve alta che era caduta nei giorni precedenti e non se ne parlò più. 
Quell'estate, in un momento di caldo opprimente decisi di chiudere il conto con quella cima lasciata così in sospeso: presi la prima seggiovia del mattino per raggiungere il Kanzel e mi incamminai spedito lungo il sentiero per il Rifugio Serristori (Dusseldorf per i nordici) sorpassandolo dopo un'ora di cammino. Continuai lungo le imponenti distese moreniche dell'alta valle di Zai nella più totale solitudine; il caldo era opprimente ma il cielo terso. Raggiunsi la base del ghiacciaio dopo un'altra ora di cammino e di lotta coi macigni e risalii il pendio molto rapidamente raggiungendone la sommità poco dopo mezzogiorno: la vetta dell'Angelo Piccolo distava solo pochi metri lungo un piccolo pianoro di sfasciumi. Mi distesi tra i sassi ad assaporare un po' il calore del sole e il totale silenzio che regnava tra quelle creste, fissando ipnotizzato il movimento delle nubi di vapore che si andavano formando col calore del giorno. 
La pace di quel momento rimase per sempre scolpita in me quasi come un angolo segreto in cui rifugiarmi quando la vita purtroppo ci mette davanti alla dura realtà.
La discesa, se non per la foga con cui avvenne, non ha storia e riuscii a prendere l'ultima seggiovia alle 17,00, poco prima della chiusura (che avrebbe significato un'ulteriore pesantissima discesa lungo un sentiero faticoso).

panorama del gruppo dell'Ortles
La trinità dell'Ortles: Gran Zebrù o Konigspitze (sx), lo Zebrù e sua maestà a destra.

immagine dell'Angelo Piccolo dal rifugio Serristori
Il Kleiner Angelusspitze

immagine del lago alla base del ghiacciaio
Il piccolo laghetto alla base del ghiacciaio

immagine del piccolo ghiacciaio di Zai
Lungo il ghiacciaio

immagine della vetta dell'Angelo Piccolo
In vetta

autoritratto in vetta



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CAMPOCATINO

CAMPOCATINO


Malgrado i disastri, nel 2012 ci fu un'uscita felice, fatta per cercare di lasciarsi alle spalle le tristezze. Fui attratto dalle foto della Roccandagia, la Penna di Campocatino, perché rappresentava il giusto compromesso tra lunghezza, scarse capacità, bel tempo e ambiente ameno, o così pensavo io.

Campocatino è una piccola località situata sopra il lago di Vagli, visitata ed amata anche da David Bowie su cui svetta una montagna marmorea che espone ad est una affilata cresta, scalata la prima volta nel 1949. La montagna è esattamente al centro delle Alpi Apuane.

Proposi l'idea a Paolo che fu immediatamente d'accordo e ci avviammo alla volta di questa zona che nessuno dei due aveva mai visto.
L'ambiente ameno c'era di sicuro, tanto che rimirarlo una stradina secondaria credendola una scorciatoia, così larga e accogliente che in caso di fermata saremmo dovuti scendere dal bagagliaio, ovviamente chi aveva visto il parapetto, cos'era quella schifezza da donnette di città (!!). Beh, tanto Paolo dormiva...!
Arrivammo a sera a Campocatino con ancora le curve in corpo e, dopo una cena con vista lago piazzammo il nostro "campo-base" in un punto un po' defilato per non essere fermati come zingari. 
Sapendo di non avere il materassino premeditai di dormire in macchina dato che i sedili, già ben collaudati (eh se potessero parlare...!), erano larghi e confortevoli. Paolo dormì invece nella sua tendina, la solita cara e vecchia tenda tarlata usata nelle uscite dolomitiche. Era un fine settimana di luglio, ventilato e non caldo, con un cielo splendido.

Mi coricai pensando al giorno dopo, ripassando mentalmente la relazione e pensando che nei dintorni non c'erano bar quando, nel momento in cui presi sonno, suonò all'improvviso il telefono svegliandomi di soprassalto. Era un mio ex compagno di classe delle superiori, ubriaco marcio tanto che potevo sentire la puzza di alcol anche lì e che stava chiamando i numeri in rubrica. 
Felice della sua premura, aveva avuto il buon cuore di dedicarmi un pensiero, gli spiegai gentilmente in quale modo fosse stato concepito e che animale associare ad ogni santo del calendario, domanda pregnante all'una di notte e chiusi la conversazione.  
Mentre ceravo di riprendere sonno, ancora bestemmiante, si alzò improvvisamente un forte vento, tanto potente da scuotere la macchina come se fuori ci fossero dei teppisti che cercassero di farmi la festa e immediatamente cominciarono a turbinare grossi goccioloni di pioggia che mi costrinsero velocemente a chiudere il finestrino che avevo lasciato appena aperto per respirare. 
Nel bagliore dei lampi vidi la tenda di Paolo scossa violentemente e pensai a che goduria stesse vivendo in quel momento, a volte avere il braccino corto può avere i suoi lati positivi. Cullato dal vento e dal rumore continuo del vento che risuonava come un mantra presi sonno e riaprii gli occhi che il sole si era già levato sull'orizzonte.

Paolo, levatosi da poco anche lui, aveva l'aspetto del "sopravvissuto" ad una notte di guardia ma era comunque carico d'entusiasmo vista la limpida e fresca mattinata. Purtroppo nei dintorni c'era solo un campeggio e a quell'ora del mattino non c'era nessuno in giro perciò ci toccò avviarci verso la cresta con la pancia vuota (per fortuna avevamo fatto un lauto pasto la sera precedente). 
La ricerca dell'attacco ci fece perdere penare un po', è incredibile come in un boschetto di pochi metri quadrati il sentiero si potesse smarrire lasciando tracce in tutte le direzioni; ovviamente con alberi abbastanza alti e frondosi da nascondere la montagna sempre onnipresente durante tutta la marcia. Fortunatamente, con un po' di buon senso, trovammo il canale di attacco della cresta che stava sotto al nostro naso (facile, basta andare su sempre e comunque).

La prima parte della via per circa 70 m era un inferno verde: bisognava strisciare aggrappandosi disperatamente al "paleo", quell'erba a ciuffi molto lunga e pungente che nel Veneto è chiamata Loppa e che sulle Apuane cresce in maniera impressionante occupando qualunque anfratto, appoggio e fessura, crescendo perfino in parete purché sia appena meno pendente di 90°. Poco male, per due guerrieri l'erba era un riscaldamento in vista delle vere difficoltà: dopo il canale iniziale fatto dal sottoscritto Paolo prese il comando della cordata con volontà incrollabile e si lanciò senza paracadute per quattro lunghezze, per un totale di 150 m, con alcuni passaggi impegnativi dentro camini ma sempre caratterizzati da pendii di arrampicata vegetale. 
Un camino ricurvo a sinistra, in particolare, richiedeva un passo di schiena, ossia appoggiando i piedi sulla volta dove erano presenti appigli e chiodi mentre la faccia appoggiata era completamente levigata. Paolo piantò un chiodo piatto nel lato appoggiato, così messo bene che lo si poteva muovere con le dita. Arrivai al punto incriminato e non fui capace di cavarne un ragno dal buco, anche perché portavo a spasso lo zaino gonfio che ben avrebbe fatto da cuneo dentro il camino. Mi venne l'idea di mettere il piede in un cordino agganciato al chiodo di Paolo, che resse il peso incurvandosi in maniera preoccupante ma tenne. Inutile dire che poi saltò con una martellata. 
Le quattro lunghezze di corda alternavano tratti di roccia compattissima a dei pendii di erba così ripidi e scivolosi che non ne trovai mai più di così tosti, neanche nei viàz più selvaggi, infatti, dopo un tratto di arrampicata, dovemmo tirarci su praticamente come in spalliera sui ciuffi di erba pungente, le cui punte si piantavano nelle carni facendole arrossare e pizzicare. 
Giunti ad una forcella della cresta, dopo essere sopravvissuti all'incubo precedente, iniziava il vero viaggio sulla roccia apuanica, il marmo, con la sua ruvidezza e gli appigli taglienti come rasoi, attraverso torri squadrate e verticali pareti su entrambi i lati: seguirono una serie di passaggi di grande soddisfazione per la qualità della roccia e l'esposizione. L'ultimo tiro, una placca molto levigata che richiedeva decisione, V+, toccò al sottoscritto e ricordo che rimasi sorpreso da quanto attrito facevano le scarpette anche sul liscio, cosa che facilitò enormemente il passaggio.
Sbucammo per ora di pranzo sulla spalla della Roccandagia, in un cielo terso, ventilato e fresco: intorno non c'era nessuno, le cave tacevano, le montagne brulle facevano da guardiani alla conca di Campocatino, in lontananza si vedeva il mare. 
Si presentò un dilemma: scendere nel Canale di San Viano a sinistra o proseguire lungo la cresta fino alla vetta donde avremmo trovato un più comodo ma più lungo sentiero per scendere a Campocatino. Provammo quindi ad insistere lungo la cresta scavalcando due risalti ma ci arenammo davanti ad un muro a mattonelle, schiodato, che precludeva l'accesso all'ultimo gradone della cresta: ci consultammo e decidemmo che il lavoro di chiodatura per proseguire, visto anche il lungo viaggio di ritorno a casa, ci avrebbe sicuramente fatto perdere un sacco di tempo, unito al fatto che avevamo solo un mazzetto di 4 chiodi e bisognava attrezzare tutto. Inoltre il passaggio chiave stava là, dritto davanti a noi: un muro liscio e strapiombante rigato da una singola fessurina che richiedeva un bel lavoro di arrampicata artificiale.  
Ci avviammo a malincuore lungo lo spiovente che adduceva al canalone di San Viano accorgendoci subito quanto mendace fosse l'abbaglio che prendemmo: per più di 100 m scendemmo attraverso un pendio erboso ripidissimo saltando da un affioramento roccioso all'altro come naufraghi in un mare in tempesta che cercano disperatamente di aggrapparsi al relitto. 
Dopo un grande patema d'animo in cui i piedi non ebbero mai un appoggio orizzontale e stabile venne il canale: un solco con sassi affilati come il coltello del Piramid Head a guardia di Silent Hill, da percorrere seduti tanto era ripido e che presto mi lasciò in mutande (sopravvisse solo l'elastico dei pantaloni) esponendo al vento le mie orrende zampe pelose. 
Ad un tratto Paolo esclamò: "Da qui non passa neanche San Giuseppe!": il canale compiva un salto verticale completamente composto da un accatastamento di sassi e erba, tenuti insieme dal fango secco. Ecco che toccò disfare le corde, calarci lungo il salto e riprendere la "slitta" nel canalone. Arrivammo comunque a sera domandandoci quanto "intelligenti" siamo stati a non aver forzato quel muro, stanchi morti, però con uno spiraglio nel cuore.



Roccandagia
La Roccandagia col tracciato della cresta.

Campocatino
Campocatino

camini della Roccandagia
Nei profondi camini che solcano lo spigolo

placca lungo la cresta Roccandagia
Bellissimo passaggio lungo il filo di cresta

placca finale della Roccandiagia
La placca finale

vetta della Roccandagia
Al termine della cresta

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UNA GITA DOMENICALE

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