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mercoledì 22 luglio 2020

CAMPOCATINO

CAMPOCATINO


Malgrado i disastri, nel 2012 ci fu un'uscita felice, fatta per cercare di lasciarsi alle spalle le tristezze. Fui attratto dalle foto della Roccandagia, la Penna di Campocatino, perché rappresentava il giusto compromesso tra lunghezza, scarse capacità, bel tempo e ambiente ameno, o così pensavo io.

Campocatino è una piccola località situata sopra il lago di Vagli, visitata ed amata anche da David Bowie su cui svetta una montagna marmorea che espone ad est una affilata cresta, scalata la prima volta nel 1949. La montagna è esattamente al centro delle Alpi Apuane.

Proposi l'idea a Paolo che fu immediatamente d'accordo e ci avviammo alla volta di questa zona che nessuno dei due aveva mai visto.
L'ambiente ameno c'era di sicuro, tanto che rimirarlo una stradina secondaria credendola una scorciatoia, così larga e accogliente che in caso di fermata saremmo dovuti scendere dal bagagliaio, ovviamente chi aveva visto il parapetto, cos'era quella schifezza da donnette di città (!!). Beh, tanto Paolo dormiva...!
Arrivammo a sera a Campocatino con ancora le curve in corpo e, dopo una cena con vista lago piazzammo il nostro "campo-base" in un punto un po' defilato per non essere fermati come zingari. 
Sapendo di non avere il materassino premeditai di dormire in macchina dato che i sedili, già ben collaudati (eh se potessero parlare...!), erano larghi e confortevoli. Paolo dormì invece nella sua tendina, la solita cara e vecchia tenda tarlata usata nelle uscite dolomitiche. Era un fine settimana di luglio, ventilato e non caldo, con un cielo splendido.

Mi coricai pensando al giorno dopo, ripassando mentalmente la relazione e pensando che nei dintorni non c'erano bar quando, nel momento in cui presi sonno, suonò all'improvviso il telefono svegliandomi di soprassalto. Era un mio ex compagno di classe delle superiori, ubriaco marcio tanto che potevo sentire la puzza di alcol anche lì e che stava chiamando i numeri in rubrica. 
Felice della sua premura, aveva avuto il buon cuore di dedicarmi un pensiero, gli spiegai gentilmente in quale modo fosse stato concepito e che animale associare ad ogni santo del calendario, domanda pregnante all'una di notte e chiusi la conversazione.  
Mentre ceravo di riprendere sonno, ancora bestemmiante, si alzò improvvisamente un forte vento, tanto potente da scuotere la macchina come se fuori ci fossero dei teppisti che cercassero di farmi la festa e immediatamente cominciarono a turbinare grossi goccioloni di pioggia che mi costrinsero velocemente a chiudere il finestrino che avevo lasciato appena aperto per respirare. 
Nel bagliore dei lampi vidi la tenda di Paolo scossa violentemente e pensai a che goduria stesse vivendo in quel momento, a volte avere il braccino corto può avere i suoi lati positivi. Cullato dal vento e dal rumore continuo del vento che risuonava come un mantra presi sonno e riaprii gli occhi che il sole si era già levato sull'orizzonte.

Paolo, levatosi da poco anche lui, aveva l'aspetto del "sopravvissuto" ad una notte di guardia ma era comunque carico d'entusiasmo vista la limpida e fresca mattinata. Purtroppo nei dintorni c'era solo un campeggio e a quell'ora del mattino non c'era nessuno in giro perciò ci toccò avviarci verso la cresta con la pancia vuota (per fortuna avevamo fatto un lauto pasto la sera precedente). 
La ricerca dell'attacco ci fece perdere penare un po', è incredibile come in un boschetto di pochi metri quadrati il sentiero si potesse smarrire lasciando tracce in tutte le direzioni; ovviamente con alberi abbastanza alti e frondosi da nascondere la montagna sempre onnipresente durante tutta la marcia. Fortunatamente, con un po' di buon senso, trovammo il canale di attacco della cresta che stava sotto al nostro naso (facile, basta andare su sempre e comunque).

La prima parte della via per circa 70 m era un inferno verde: bisognava strisciare aggrappandosi disperatamente al "paleo", quell'erba a ciuffi molto lunga e pungente che nel Veneto è chiamata Loppa e che sulle Apuane cresce in maniera impressionante occupando qualunque anfratto, appoggio e fessura, crescendo perfino in parete purché sia appena meno pendente di 90°. Poco male, per due guerrieri l'erba era un riscaldamento in vista delle vere difficoltà: dopo il canale iniziale fatto dal sottoscritto Paolo prese il comando della cordata con volontà incrollabile e si lanciò senza paracadute per quattro lunghezze, per un totale di 150 m, con alcuni passaggi impegnativi dentro camini ma sempre caratterizzati da pendii di arrampicata vegetale. 
Un camino ricurvo a sinistra, in particolare, richiedeva un passo di schiena, ossia appoggiando i piedi sulla volta dove erano presenti appigli e chiodi mentre la faccia appoggiata era completamente levigata. Paolo piantò un chiodo piatto nel lato appoggiato, così messo bene che lo si poteva muovere con le dita. Arrivai al punto incriminato e non fui capace di cavarne un ragno dal buco, anche perché portavo a spasso lo zaino gonfio che ben avrebbe fatto da cuneo dentro il camino. Mi venne l'idea di mettere il piede in un cordino agganciato al chiodo di Paolo, che resse il peso incurvandosi in maniera preoccupante ma tenne. Inutile dire che poi saltò con una martellata. 
Le quattro lunghezze di corda alternavano tratti di roccia compattissima a dei pendii di erba così ripidi e scivolosi che non ne trovai mai più di così tosti, neanche nei viàz più selvaggi, infatti, dopo un tratto di arrampicata, dovemmo tirarci su praticamente come in spalliera sui ciuffi di erba pungente, le cui punte si piantavano nelle carni facendole arrossare e pizzicare. 
Giunti ad una forcella della cresta, dopo essere sopravvissuti all'incubo precedente, iniziava il vero viaggio sulla roccia apuanica, il marmo, con la sua ruvidezza e gli appigli taglienti come rasoi, attraverso torri squadrate e verticali pareti su entrambi i lati: seguirono una serie di passaggi di grande soddisfazione per la qualità della roccia e l'esposizione. L'ultimo tiro, una placca molto levigata che richiedeva decisione, V+, toccò al sottoscritto e ricordo che rimasi sorpreso da quanto attrito facevano le scarpette anche sul liscio, cosa che facilitò enormemente il passaggio.
Sbucammo per ora di pranzo sulla spalla della Roccandagia, in un cielo terso, ventilato e fresco: intorno non c'era nessuno, le cave tacevano, le montagne brulle facevano da guardiani alla conca di Campocatino, in lontananza si vedeva il mare. 
Si presentò un dilemma: scendere nel Canale di San Viano a sinistra o proseguire lungo la cresta fino alla vetta donde avremmo trovato un più comodo ma più lungo sentiero per scendere a Campocatino. Provammo quindi ad insistere lungo la cresta scavalcando due risalti ma ci arenammo davanti ad un muro a mattonelle, schiodato, che precludeva l'accesso all'ultimo gradone della cresta: ci consultammo e decidemmo che il lavoro di chiodatura per proseguire, visto anche il lungo viaggio di ritorno a casa, ci avrebbe sicuramente fatto perdere un sacco di tempo, unito al fatto che avevamo solo un mazzetto di 4 chiodi e bisognava attrezzare tutto. Inoltre il passaggio chiave stava là, dritto davanti a noi: un muro liscio e strapiombante rigato da una singola fessurina che richiedeva un bel lavoro di arrampicata artificiale.  
Ci avviammo a malincuore lungo lo spiovente che adduceva al canalone di San Viano accorgendoci subito quanto mendace fosse l'abbaglio che prendemmo: per più di 100 m scendemmo attraverso un pendio erboso ripidissimo saltando da un affioramento roccioso all'altro come naufraghi in un mare in tempesta che cercano disperatamente di aggrapparsi al relitto. 
Dopo un grande patema d'animo in cui i piedi non ebbero mai un appoggio orizzontale e stabile venne il canale: un solco con sassi affilati come il coltello del Piramid Head a guardia di Silent Hill, da percorrere seduti tanto era ripido e che presto mi lasciò in mutande (sopravvisse solo l'elastico dei pantaloni) esponendo al vento le mie orrende zampe pelose. 
Ad un tratto Paolo esclamò: "Da qui non passa neanche San Giuseppe!": il canale compiva un salto verticale completamente composto da un accatastamento di sassi e erba, tenuti insieme dal fango secco. Ecco che toccò disfare le corde, calarci lungo il salto e riprendere la "slitta" nel canalone. Arrivammo comunque a sera domandandoci quanto "intelligenti" siamo stati a non aver forzato quel muro, stanchi morti, però con uno spiraglio nel cuore.



Roccandagia
La Roccandagia col tracciato della cresta.

Campocatino
Campocatino

camini della Roccandagia
Nei profondi camini che solcano lo spigolo

placca lungo la cresta Roccandagia
Bellissimo passaggio lungo il filo di cresta

placca finale della Roccandiagia
La placca finale

vetta della Roccandagia
Al termine della cresta

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