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giovedì 28 dicembre 2023

CARMINA BURANA - Il gioello di Ceraino

 CARMINA BURANA

Il gioiello di Ceraino

Memore della passata esperienza maturata sulle rocce della Valsugana e deciso a sfruttare i due soci fino all'osso vado alla ricerca di un qualche osso duro da rosicchiare. Da tempo sentivo nominare su Facebook la gola di Ceraino come il non-plus-ultra, il must dell'arrampicata in Val d'Adige e così, cercando un po' in giro, mi imbatto in questa via, Carmina Burana, una delle prime e storiche della zona. Trovo una relazione che ne parla in toni lusinghieri, che è anche l'unica che riesco a pescare, e così la invio ai soci. 
Le risposte che mi arrivano sono un po' riluttanti, uno prova a deviare il discorso, un altro fa finta di nulla, salta fuori una proposta secondaria ma alla fine, focalizzando tutto il discorso sul profondo camino che bisogna scalare proprio a metà via e sapendo bene come Moreno adori quei meandri muschiosi in cui bisogna strisciare come lombrichi e sudare in ogni centimetro di pelle, riesco a venderla bene e ad ottenere il consenso unanime.

E' il 25 Aprile 2021 e le restrizioni della pandemia sono un po' allentate; siamo i soliti tre io, Bruno e Moreno, il clima non è caldissimo ma neanche tanto fresco e la gola di Ceraino si presta bene alla scalata perché un po' ventilata e nelle ore più calde sulla parete cala l'ombra refrigerante. Fino all'arrivo al parcheggio sulla sponda dell'Adige, il quale scorre cristallino, placido e di colore smeraldo proprio accanto, tutto va come da manuale. Il bello comincia all'attacco.
Le pareti della gola cadono esattamente a picco sull'Adige e solo un piccolo sentierino, peraltro discontinuo, incavato tra le fronde a pelo dell'acqua, consente il passaggio lungo la base della parete. Arrivati ad una piazzola discretamente larga ci perdiamo per un po' col naso all'insù alla ricerca della corretta partenza della via, assomigliamo a tre gonzi in attesa di un asteroide che ponga pietosamente fine ai nostri tormenti ma che, come Godot non arriva mai (per fortuna!!). 
Io sono l'unico dei tre che ha la fotografia col tracciato e fatico a mantenere la disciplina, sembro un sergente maggiore in pensione, e intanto il sole impietoso comincia a sfaldare i nostri cervelli già di prima mattina. Per fortuna, tra le fronde dei salici, invece di appendere la cetra e piangere per Sion, riesco ad individuare la linea corretta di camini che solcano il centro della parete, come graffi di gatto e che danno la direttrice della via. 
Sulla sinistra ci sono delle rocce piuttosto facili ma erbose mentre sopra di noi si staglia una placca lievemente inclinata e liscia come uno specchio e con un caos di fix vecchi e nuovi che spuntano in tutte le direzioni. 
Bruno non indugia, si lega e vuole arrampicare, così parte in quarta a petto in fuori e (occorre dirlo??!) imbocca la linea di fix che va verso sinistra e che corrisponde a "Una faccia, una razza" prendendo come riferimento vago il primo dei camini. 
Rinuncio a trattenerlo facendogli notare come si stia imbarcando verso una fatica decisamente inutile, fiato sprecato, è ammaliato dalla placca come Odisseo dal canto delle sirene e così lo guardo salire, con lo sguardo rassegnato di chi deve seguire il primo impavido compagno oltre il parapetto della trincea sapendo che i nemici avranno aggiustato il tiro. 
Il socio sale dapprima con buon ritmo, poi sempre più lento, poi si blocca circa due metri sotto un cavetto di acciaio che segna il limite della prima placca, ansima, sbuffa, estrae il "furbo" (detto anche il "vigliacco" da altri utenti che non ammettono di usarlo e no, non darò una spiegazione di che cosa sia, segreti del mestiere) e con un allungamento di "gomma" riesce ad accalappiare il cavetto e a passare. Ovviamente non finisce qui perché poi prosegue lungo un pilastro che fa da spigolo al camino con altri passaggi abbastanza rocamboleschi (Una faccia, una razza è molto forzata e compressa tra due vie esistenti nella sua parte iniziale) e finalmente raggiunge la sosta giusta, la quale poteva essere raggiunta con pochi metri di roccette facili (eh, ma sennò è troppo facile). 
Consulto la relazione, dice che la placca iniziale è stata salita dopo l'apertura della via ma che alla fine è facile, un 5c senza troppe pretese. Io e Moreno partiamo e dopo un paio di metri già volano le prime invocazioni alla Santissima Trinità a causa dei movimenti contorti per concatenare i vari buchetti poi, sotto al cavetto di cui prima, forzo il passaggio con un dito della sinistra in un forellino e un paio di sculettate per riuscire a mantenere l'equilibrio sulle punte dei piedi, non male per un 5c. In verità non ricordo dei 5c in cui ci fossero dei monoditi ma forse non ho tutto questo grande repertorio. Raggiungiamo Bruno alla sosta dentro il largo camino e passa il comando a Moreno per la lunghezza successiva. 
La lunghezza di corda non è complicata, un camino largo e bene appigliato che il compagno mangia in un boccone. Purtroppo il camino si chiude a campana ed egli è costretto ad uscire a destra in un camino parallelo scavalcando uno spigolo liscio e verticale che lo costringe ad un paio di tentativi per riuscire a domarlo. Dalla fantasiosa scelta di epiteti che udiamo di sotto, capiamo che deve essere un passaggio rognoso e infatti così è quando anche noi lo passiamo.

Da questo punto in avanti iniziano i grandi strapiombi e la via comincia a farsi molto seria. Riparte Bruno, io faccio il turista e mi faccio scarrozzare su, mentre Moreno osserva con apprensione  e senza dire una parola. Si innalza dentro una specie di canna d'organo rotonda e con la roccia giallastra vincendo un gradone liscio con un colpo di reni e una bestemmia; poi si infila in un camino tubolare, molto caratteristico e nero. Noi, dal nostro trespolo, lo vediamo sbucare più in alto, dopo la condotta e, dall'aumento della quantità e soprattutto della qualità delle bestemmie, capiamo che la rupe si fa sempre più difficile. Ad un certo punto Bruno si pianta, nel bel mezzo di uno strapiombo; noi lo osserviamo con un sentimento misto di angoscia e cupa accettazione della realtà; Moreno, a differenza del sottoscritto, ha un guizzo di ottimismo in più e si lascia andare alle incitazioni più disparate dello sfortunato cavaliere alle prese con lo strapiombo. 
Dopo una lunga, quasi interminabile pausa (ma scoprirò essere stata lunga solo alcuni minuti, la psiche gioca degli strani scherzi) fatta di "dai Brunaccia! Forza Bruno, dai tirati su! Spingi!" a cui seguivano grugniti e blasfemie intraducibili, ecco che arriva il suono tanto atteso "eccolo, eccolo, eccoloooooo!" e in un attimo il socio è oltre l'ostacolo.
Saliamo anche noi il tratto appena percorso e constatiamo che il passaggio che lo aveva bloccato effettivamente richiedeva in po' di inventiva per allungarsi molto in un buco assai arrotondato e con protezioni aleatorie. 
Il tratto successivo viene superato velocemente da Moreno ed è il passaggio che da solo forse vale la salita dell'intera via: una fessura che serpeggia in mezzo ai tetti in grande esposizione sul vuoto sottostante. Non ci sono grossi problemi nell'affrontarlo e in breve siamo ancora tutti e tre riuniti su uno scomodo punto di sosta appeso nel vuoto. E' ciò che viene dopo che ci dà invece del filo da torcere.
Al punto in cui siamo arrivati ci troviamo tutti a sinistra e sotto grandi strapiombi, rispetto alle rocce abbattute dell'uscita, pertanto l'itinerario da seguire compie una traversata a destra su una placca liscia proprio sopra il bordo dei tetti: in cima alla placca occhieggiano due chiodi uniti da un cordino, più in basso a destra se ne vedono altri due abbastanza vicini. Capisco al volo che stiamo per avere un grosso problema!
Riparte Bruno; io gli suggerisco che potrebbe essere una buona idea mettere un moschettone sui due chiodi accoppiati da abbandonare per effettuare un pendolo a destra; ho un vecchio moschettone da ferrata che ha circa quindici anni che è adatto allo scopo e non sarebbe una grande perdita per me. Egli non mi ascolta e in breve arriva ai chiodi, li passa con un rinvio e poi, con l'aiuto della corda, piazza un piccolo friend assai precario in una crepa scende ai chiodi sottostanti; segue una placca spiovente e a buchetti che supera di slancio arrivando alla nicchia di sosta. Per adesso nulla di importante, solo che a noi tocca fare la traversata in discesa e senza l'aiuto della corda, l'incubo di ogni secondo, infatti il rischio di caduta a pendolo è alto.
Parto io, arrivo ai chiodi, tolgo la mia corda e inizio la discesa; il posto è impressionante: sono sul ciglio di enormi soffitti, aggrappato a delle tacche minuscole su una placca sostanzialmente liscia. Grazie al mio sistema di assicurazione personale, frutto di un po' di inventiva e di attacchi di "coniglite" acuta, riesco piano piano a calarmi fino ai chiodi rimanendo appeso al bordo del tetto. Prendo fiato e parte anche Moreno. Subito mi accorgo che stiamo per avere una successione di problemi che potrebbero potenzialmente portare ad una catastrofe: le corde sono tutte attorcigliate, Bruno fatica a recuperarle e Moreno non ha cordini di scorta nel caso volasse dalla traversata; se ciò accadesse si ritroverebbe a penzolare alcuni metri sotto di me completamente nel vuoto, senza la possibilità di risalire e senza contare che il labbro del soffitto (esperienza vissuta sulla Rossi Tramonti) potrebbe anche danneggiare la sua corda complicando ulteriormente la situazione. Il non aver voluto fare il pendolo rischia di produrre una tragedia. 
Ecco, è a questo punto che il "terzo incomodo", cioè il sottoscritto, partorisce al volo una soluzione che salva la capra e i cavoli, come sulla via Zonta in Vasugana (VEDI). Verifico velocemente i chiodi a cui sono appeso, sono così piantati da essersi cementati nella roccia; li collego e mi ci assicuro saldamente con un cordino, poi mi slego (mossa molto azzardata ma sono ben ancorato e tengo la corda saldamente) e ordino a Moreno di aspettare prima di effettuare la discesa. Con ampie bracciate sciolgo il groppo che si era fatto sulle corde e mi rilego, così finalmente Bruno ci recupera lesto, poi allungo la mia assicurazione sul piccolo friend che era rimasto incastrato, ho come la sensazione che questa sarà la mossa vincente.
Moreno riparte e comincia a scendere con estrema lentezza, arriva all'altezza del friend in una posizione arcuata ed estremamente precaria; io lo guardo trattenendo il fiato, è poco sopra la mia posizione. 
L'amico fa per abbassarsi ma non riesce a staccare una mano per afferrare l'appiglio successivo e resta paralizzato nella posizione in cui si trova, sotto di lui l'Adige non è più il placido specchio d'acqua che riflette i raggi del sole illuminandoci come a mezzogiorno, ma le fauci di un Moloch che non aspetta altro che carne fresca da ingurgitare. Lo vedo colto da un fremito che lo fa tremare come una foglia sbattuta da un uragano e grida: "adesso casco, adesso casco!!!!" (cado, n.d.a.) e prova a trovare un qualcosa sotto la mano destra a tentoni a cui reggersi come mossa disperata prima del volo, finendo per trovare il mio cordone!
E' questione di un attimo: le convulsioni cessano di colpo, il corpo si riequilibra, le mani trovano una presa salda e i piedi scendono delicatamente; Moreno scende il difficile passaggio e si ristabilisce alla mia altezza riuscendo a sfilare il friend con facilità (ha retto giusto il necessario) e mettendosi comodo. Io riparto velocemente verso l'alto lungo la placca a buchi tosto seguito dal compagno e finalmente tutti e tre ci riuniamo nella nicchia di sosta, sotto l'ultimo scalino. 
Dopo il difficile momento vissuto più in basso è nuovamente Moreno che riparte, con cattiveria, vorrebbe piegare a sinistra lungo uno strapiombo dove occhieggiano dei fix ma io lo spedisco lungo le rocce facili e poco dopo siamo in cima alla falesia, con un senso di sfinimento ma anche di grossa soddisfazione per la via appena portata a casa.

La discesa si svolge senza intoppi ma non senza fatica in quanto è lungo una ferrata breve ma molto ripida, con evidenti segni di usura dovuti agli innumerevoli passaggi e poco dopo siamo di nuovo al parcheggio presso la sponda dell'Adige, bolliti, stanchi e affamati.

Il primo camino, prima che inizino gli strapiombi

Tiro chiave
Il secondo difficile camino

Fessura del quarto tiro
La fessura che serpeggia tra i tetti


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martedì 26 dicembre 2023

BEETHOVEN - Sonata n. 14 op. 27 n.2 "Chiaro di luna"

BEETHOVEN

Sonata n. 14, op. 27 n. 2

Chiaro di luna 

Ecco un’altra celeberrima sonata, tra le composizioni per pianoforte in assoluto più conosciute e suonate di tutti i tempi. Fu scritta nel 1801 e dedicata alla contessina Giulietta Guicciardi, di cui il compositore all’epoca era innamorato. Come al solito il titolo non è di Beethoven ma le fu attribuito da altri, in questo caso il critico Rellstab.
Come la Pathetique op. 13 di poco precedente, anche questa sonata è fortemente sperimentale e rompe decisamente il legame con la tradizione cambiando la classica successione dei movimenti; infatti si trovano ben pochi precedenti nella storia della musica prima di  questo momento ed ora vediamo cosa succede.

La sonata è articolata in tre movimenti col sottotitolo “Sonata quasi una fantasia” per giustificare la forma poco ortodossa della stessa, infatti l’ordine degli stessi è: Adagio sostenuto, Allegretto, Presto agitato. Questa composizione è tra l’altro gemella dell’op.27 n.1, in Mi bemolle maggiore, anch’essa “Sonata quasi una fantasia” e per certi versi ancora più interessante come struttura ma che ha avuto molto meno riscontro presso il pubblico ed oggi è quasi completamente dimenticata, fatto salvo qualche rara apparizione in concerti tenuti da beethoveniani duri e puri, che vanno alla riscoperta di pezzi dimenticati, o negli esami dei conservatori.

Il fatto di anteporre l’adagio, il movimento lento e distensivo, al consueto movimento concitato non è una novità di Beethoven, infatti lo si può già trovare nella Sonata n.4 K282 di Mozart, il quale affida all’adagio iniziale il fulcro della composizione, facendolo seguire da due piccoli minuetti e un rondò. Altri (pochi) esempi si possono trovare nelle sonate di Haydn (come la 21) senza però essere così sfacciati e senza un vero e proprio crescendo drammatico come quello disegnato da Beethoven. Ciò che contraddistingue questa sonata dalle sue predecessore è però il deciso sbilanciamento delle dimensioni e dell’imponenza dell’architettura verso il finale, il quale è anche il vero movimento in forma sonata, al contrario del primo che è in forma di romanza e del secondo che richiama vagamente un minuetto (solitamente è il contrario). Anche le difficoltà tecniche dell’ultimo movimento sono decisamente superiori non solo a quelli precedenti ma anche alla maggioranza delle precedenti sonate di Beethoven, quasi a voler cominciare una nuova fase di esplorazione della tastiera da cui, di lì a poco scaturiranno capolavori come la sonata 21 op. 53 e la 23 op.57, punto culminante non solo del pianismo del compositore ma di un’intera epoca di classicismo che qui trova la naturale conclusione prima di lasciare il posto alle novità profonde rappresentate dall’ultimo periodo, non solo di Beethoven ma anche del mutato pubblico al quale si rivolgono le opere. Non bisogna dimenticare infatti che l’epoca del Classicismo musicale (figlio dell’Illuminismo) si conclude con la Rivoluzione Francese (1789 e gli anni seguenti) e che il contesto in cui viene scritta l’op.27 è il momento in cui in Francia c’è il Consolato, succeduto al Direttorio dopo un colpo di stato nel 1799, in cui continua la famosa spedizione francese in Egitto (che si conclude proprio in quest’anno) e che la guerra per esportare la Rivoluzione anche oltre i confini infuria in tutta Europa (Napoleone diviene imperatore nel 1804). 

Le due sonate op.27 si staccano quindi da tutto quello che era stato fatto in precedenza pur senza abiurare gli schemi e la prassi del passato, aggiungendo per così dire un’altra crepa nel muro di conservatorismo che rappresentava l’epoca passata.

Il primo movimento della sonata, in Do# minore e in 4/4 è in forma di romanza, con una scrittura ridotta al minimo funzionale per esprimere un’armonia e una pulsazione, costituita da un unico tema a sua volta formato da una nota ribattuta e una breve cadenza al Mi maggiore, seguito da lunghe code che oscillano attorno alla tonica. Il pezzo, se confrontato con i movimenti seguenti o con gli omologhi delle sonate precedenti, è di una semplicità unica, quasi banale, ma al tempo stesso estremamente ardito nell’armonia e nella dinamica e di grande incisività nell'ascoltatore. Questo movimento si riaggancia direttamente al primo tema della Patetica suscitando nell’uditore emozioni immediate e molto forti, quasi come una sorta di malinconia e di cupezza davanti al suo fluire languido e nel modo minore, proprio come quel Grave dell’op.13, massiccio e definito come un monolito e di così profondo impatto emotivo da scolpirsi eterno nella mente.

La struttura dell’intero movimento è formata da tre livelli, o voci, di cui i due estremi hanno un comportamento quasi statico: la voce acuta costituisce il canto, occasionalmente si scambia con quella grave per un breve dialogo e il basso, per l’appunto, scandisce l’armonia. La voce intermedia scandisce delle terzine ininterrotte per l’intera durata del movimento completando i suoni degli accordi sul basso e conferendo movimento e direzione alla massa sonora. E’ interessante notare come sia di pugno dello stesso Beethoven l’indicazione “si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordini” che nella pratica significa col pedale di risonanza abbassato senza interruzione, onde creare un effetto di pienezza. Qui occorre tenere presente che questa cosa ha perfettamente senso sul fortepiano che possedeva, mentre sui pianoforti moderni suonerebbe orrendo (si può fare lo stesso ma crea una gran confusione e con alcune stonature). Ciò è dovuto in parte alla maggiore cassa armonica dei pianoforti odierni, alla maggiore corsa dei martelli e a corde più forti e triplicate da una certa altezza in su.

Il tema viene preceduto da 4 battute introduttive in cui al basso compare un si naturale contro la triade di Do# delle terzine e che risolve in modo poco canonico su un VI grado (La maggiore), questo per giocare sulle dissonanze senza interrompere la graduale discesa del basso e accentuando il senso di profondità che regala l’accordo maggiore al suo arrivo; segue un II- (sesta napoletana) – V – I, classica cadenza affermativa. 

Inizio I Movimento
Battute iniziali I movimento
L'introduzione del I Movimento

Alla fine di battuta 5 entra il tema sull’ultimo quarto (ritmo - > - -). Su questo tema bisogna spendere due parole ancora: è costituito da un sol# ribattuto con un ritmo puntato che sembra quasi la parodia di una marcetta ma in verità è un tipo di scrittura in voga al tempo che significa che il sol# andrebbe sincronizzato con le terzine dando origine ad una placida cantilena e non ha il significato che gli diamo noi oggi, ossia che la semicroma resti leggermente in ritardo rispetto alla terzina costituendo essa una pulsazione più breve (nella fuga della toccata in sol minore di Bach BWV 915 questa scrittura è esplicita, con le note ben allineate e si procrastina fino a Chopin). Oggi, comunque, nessuno esegue questo tema nel modo pensato da Beethoven e lo sfasamento della semicroma rispetto alla terzina contribuisce a dare al movimento un piglio più drammatico al tema. A tutto ciò bisogna pure aggiungere che il tema dura appena 4 battute e che nel corso di queste si conclude in Mi maggiore, il relativo di Do# minore, tonica; tutto ciò che segue sono trasformazioni armoniche dello stesso, rimanendo il canto pressoché immutato, quasi fossero delle metamorfosi.

Il tema viene proposto da btt 5 alla 9 a cui seguono 5 battute di risposta negativa in cui Beethoven gioca attorno alla sesta napoletana (II-) considerandola non un grado alterato ma una tonalità a sé stante che consente movimento tra scale molto lontane tra loro, per poi passare alle dominanti secondarie (a bt 10 vengono levate dalle triadi le alterazioni e alla bt.11 modula a Do maggiore, II- di Si maggiore, poi passa continuamente da Fa# a Si in un continuo scambio di dominanti). 

risposta al tema
Modulazione di risposta al tema

Alle btt.15-22 questa continua ambiguità del punto di arrivo tonale genera una forte dissonanza che mantiene alta la tensione e introducendo l’eco, lo scambio di ruoli tra la voce acuta del canto e il basso (btt.16-18) che si ripete 2 volte, prima di lasciare spazio ad una breve coda che modula ancora e porta la conclusione di questa esposizione alla quinta che nel circolo delle quinte precede il do#, ossia Fa# minore, IV grado. 

Sezione con l'eco tra basso e acuto
L'eco e la forte dissonanza

A battuta 23 finisce questa esposizione, molto breve per gli standard beethoveniani ma molto densa di una nuova ricerca di combinazioni di accordi all’interno dell’armonia classica. Da btt. 23 a 42 c’è una sorta di sviluppo delle idee fin qui esposte che non è una vera e propria parte b come si suole nelle romanze. 

Il tema torna all’acuto alla bt.23 per poi condurre, tramite un breve concatenamento IV-V (btt. 25-26) riferito alla scala di Do#, nuovamente alla tonalità di impianto. A battuta 28 inizia il lungo pedale di dominante (Sol#) che costituisce il cuore dell’episodio e di tutto il movimento ed è suddiviso in due momenti ben distinti: il primo (btt.28-31) dove il compositore ricorre ancora all’espediente dell’eco e facendo ricomparire la stessa figurazione ad altezze diverse (sta poi all’interprete giocare sull’intensità), il secondo (btt.32-39) basato sulla fioritura dell’elemento terzina che si muove attorno ad una 13° e alla tonica compiendo ampie salite e discese lungo la tastiera (è il momento più drammatico del movimento). Alla fine, come prevedibile, l’episodio finisce riportandosi a Do# minore con la consueta cadenza affermativa V-I (btt.41-42).

Sviluppo con pedale di dominante
Inizio del pedale di dominante con gli echi

Arpeggi di settima diminuita
Fioritura della 7- con le terzine

A battuta 42 c’è la ripresa del tema, esattamente come era stato presentato all’inizio e poi, dopo le 5 battute di proposta, si aggancia una risposta negativa in Mi maggiore (btt.46-50) che regala per un momento l’illusione della conquista della luce per poi tornare cupa al minore tramite il medesimo passaggio sul II- (sesta napoletana, bt.50) a cui si aggiunge l’ultima riproposta dell’eco trasportato al IV di Do# minore per mantenere la tonalità di impianto. 
Ripresa
Ripresa

A questo punto, per rompere la ripetizione pedissequa della parte iniziale, Beethoven compie una specie di piccolo miracolo armonico, abbastanza semplice nella concezione ma così di grande effetto da costituire il punto più memorabile ed emozionante di tutta l’intera sonata: terminato l’eco (bt.55) in Fa# minore, IV di Do#, modula improvvisamente a Mi maggiore che però è solo di passaggio, per quanto ben affermato (bt.56) e poi discende ancora a Do# con una piccolissima progressione, giusto una battuta (57) in cui compare una delicata 7° sul II che modula il passaggio attraverso V-I di Do#, quasi impercettibile nella sua dissonanza ma perfettamente amalgamato nell’armonia del passaggio. 

Progressione caratteristica del movimento adagio
La modulazione cruciale che ribalta la conclusione del movimento

Alle battute 58-59 si prepara poi la cadenza conclusiva e definitivamente affermativa di Do# minore con un certo senso di inesorabilità e che lascia spazio alla breve coda in cui il tema ricompare al basso (btt.65-69) e tutto si ferma definitivamente.

II MOVIMENTO: Allegretto

Il secondo movimento è una sorta di intermezzo, in 3/4 e non troppo veloce, che richiama vagamento un minuetto per il carattere e lo scherzo per il tempo. E’ in Re bemolle maggiore e questo lo pone completamente agli antipodi rispetto al movimento precedente, con cui non condivide assolutamente nulla (magari si potrebbe notare un vago richiamo al tema nell’andamento della parte acuta o del basso ma mi sembra una forzatura). Anche questo movimento, malgrado sia all’ascolto che all’esame visivo appaia di una semplicità disarmante, quasi banale (a differenza delle sonate precedenti o del movimento successivo in cui non si fa economia di mezzi sonori) è invece costruito con arguzia e con una scrittura ancora una volta innovativa. 
Tale pezzo è costruito attorno a due singole frasi (btt.1-9 e 17-25 rispettivamente) di cui la prima nettamente preponderante sulla seconda e che viene ripetuta variata con ampio uso delle sincopi (elemento già sperimentato nella Patetica e nella n.12 op.26). 

Inizio allegretto
Prima frase

Seconda frase del tema
Seconda frase

La prima frase addirittura parte da un singolo inciso (btt.1-5) a cui segue una risposta positiva, poi il tutto viene ripetuto variato con sincopi, scomposto in 4 voci e ripetuto con il  ritornello (l’armonia in questo caso è davvero banale). La seconda frase crea un piccolo stacco giocando attorno al V e VI grado di Re bemolle con l’aggiunta del do bemolle al posto della sensibile (do) prima di lasciare spazio ad un’altra piccola variazione della prima frase (btt.25-35) alternando un’omoritmia alle sincopi. Segue una brevissima coda V-I (36-37).
Variazione sincopata
Variazione sincopata

Il Trio è un’altra piccola ma brillante invenzione in quanto parte dall’idea di sincopi e introduce un qualcosa di nuovo ancora che sostanzialmente è l’inverso dell’inciso iniziale. Il Trio è a sua volta suddiviso in due brevi episodi sincopati tra mano destra e sinistra, il primo (btt.37-45) raggiante in Re bemolle maggiore, il secondo (btt.45-61) più dimesso in cui Beethoven asseconda la discesa cromatica del basso per ben due volte prima della conclusione.
Primo episodio del trio
Primo episodio del Trio
Incipit secondo episodio
Inizio secondo episodio

Alla fine, questa piccola botta di allegria svolge il compito di alleviare la cupezza accumulata nel primo movimento, che aveva quella sensazione tetra e drammatica, quasi di morte, preparando l’avvento del vero movimento in forma-sonata che attacca subito dopo la fine del movimento. Inoltre l’alternanza Adagio – Allegretto – Presto rappresenta anche una forma di conquista interiore che parte dalla rassegnazione e dall’immobilità, passa per la speranza e approda poi alla disperazione, condita di ansia e irrequietezza.



III MOVIMENTO: Presto con fuoco

Il terzo movimento, come detto in precedenza, è quello in forma-sonata dell’opera e che, nella mente del compositore, ne è anche il fulcro, il momento più atteso, ossia la parte dove si recita il vero dramma. Questo atteggiamento equivale a dire al pubblico: "vi ho accomodati col primo movimento, tranquillo e orecchiabile, vi ho fornito anche l’avanspettacolo col secondo, ora si fa sul serio".
Innanzi tutto, bisogna esaminare questa parte della sonata dall’alto: essa, come lunghezza e numero di idee impiegate, può tranquillamente fagocitare ciò che c’è stato prima. Anche il pianismo cambia, la scrittura si fa decisamente più virtuosistica, più abbellita e di grande difficoltà tecnica (almeno rispetto a ciò che ha preceduto sia nella sonata stessa che in quelle precedenti). 
E’ in Do# minore, in 4/4 e "Presto agitato", il che significa che deve essere eseguito con una pulsazione al quarto molto serrata, con irruenza e senza posa.
Il movimento è costruito secondo la forma-sonata canonica che consta di esposizione, sviluppo e ripresa, episodi ben definiti nel corso del pezzo ma la costruzione degli stessi si fa più complessa e ricca. 
Beethoven continua la sua sperimentazione e da sfogo alla sua fantasia, questa volta affiancando un vero, classico tema “cantato” nella parte acuta, quindi ben udibile e spiccato al di sopra del marasma che lo contorna, ad un’area tematica composta da idee e gesti pianistici molto distanti tra loro, introducendo anche una variazione al tema stesso. In tutto ciò domina la semicroma, la veloce pulsazione che scorre per l’intero pezzo, fatto salvo alcune brevi pause e che mantiene alta l’”energia” che ne scaturisce.

Esposizione (btt.1-66): è il primo episodio, quello in cui vengono presentati per la prima volta i temi al pubblico, quasi fossero i personaggi del dramma. Il primo tema parte subito, senza nessuna introduzione, nudo e crudo e in Do# minore, con la particolarità che non si tratta di un vero e proprio tema ma più che altro di un’area tematica. Esso comincia (btt.1-8) con una serie di veloci arpeggi che, come le onde contro una scogliera, si infrangono su coppie di accordi (armonicamente è una lunga modulazione alla dominante, Sol#). 

Inizio terzo movimento
Inizio con i lunghi arpeggi

Questa prima idea, o proposta, è esattamente la ripresa del primo movimento, semplicemente allungando la terzina per far quadrare il disegno nel tempo binario, così come l’armonia, presa di pari passo dal primo movimento. Questo espediente chiude così il ciclo che era iniziato nel primo movimento e, con il suo carattere diametralmente opposto a quello del primo movimento, ribalta completamente l’idea consolidata di sonata che si era consolidata (motivo per cui Beethoven la chiama “sonata quasi una fantasia”, si ricordi il ciclo costruito nell'op. 26).
Alle battute 9-14 il fluire delle “onde sugli scogli” viene interrotto da un pedale di dominante (Sol#), anch’esso caratterizzato da due momenti assolutamente peculiari: una sorta di trillo che ruota attorno alla dominante e una vera e propria fermata (bt. 14) che ricomparirà più volte nel movimento come elemento divisorio. Questo pedale prepara la seconda ondata di arpeggi (btt. 15-21) che riprende la concitazione dell’inizio e modula (Do# come IV di Sol#-> IV-II-V-I) al Sol# minore, secondo tema (una sorta di breve ponte modulante).

Pedale di dominante
Pedale di dominante

Il secondo tema di questa esposizione in forma-sonata è nuovamente nel modo minore, come nella sonata n. 8 Pathétique, e con una caratteristica croma puntata seguita da una sfuggente semicroma, come richiamo del tema del primo movimento, così prosegue con l’atmosfera drammatica e tesa che altrimenti sarebbe stata interrotta troppo presto. Questo tema contrasta con quello precedente in quanto qui viene proposta una melodia cantabile (btt. 21-24) sovrapposta ad un basso albertino sempre veloce ed agitato. 

Secondo tema
Fine degli arpeggi e secondo tema


La risposta (btt. 25-28), anche per evitare di inventare materiale nuovo, è semplice ed efficace, ossia è una piccola variazione delle prime quattro battute con l’uso di un sincopato che tende ancora una volta ad affrettare il tempo già concitato. Questo tema rallenta poi gradualmente con una progressione, che si appoggia ai valori delle minime al canto, davvero insolita ma che resta comunque amalgamata all’insieme. Questa piccola progressione (btt. 29-32), che viene poi riproposta anche nella ripresa e che quindi è importante nell’equilibrio generale, nasce dalla sensibile (Fa##) che scende di semitono, portandosi dapprima a Si maggiore e poi ancora (col solito II-V-I) e poi nuovamente a Sol# minore interrompendo bruscamente la naturale risoluzione con l’irruzione e la fermata su un possente accordo di La maggiore, che qui è una vera sorpresa. 

Chiusura del secondo tema
La progressione di chiusura

In verità questo accordo, II gr. Min., è un accordo di Sesta Napoletana che sospende l’armonia e prepara (btt. 33-42) il ritorno del tema. Ciò che segue all’accordo è un disegno melodico, leggiero, in p, che è una semplice fioritura che imita i gesti effettuati in precedenza (a bt. 39 ritornano anche le sincopi). 

Sospensione sulla sesta napoletana
Sospensione sul II-

Per concludere questa esposizione, Beethoven non si accontenta di risolvere alla tonica di Sol# (btt. 41-42) ma riprende variato il secondo tema distribuendolo su degli accordi e passando la melodia tra le voci. Non si tratta di un inciso estemporaneo ma di una sezione ben sviluppata in cui la proposta variata (btt.43-46) è seguita da una piccola coda (btt.47-48) per poi riprendere con ancora più vigore (btt-49-56) per lasciare poi il posto alla coda vera e propria.

Variazione del secondo tema
Variazione

La coda dell’esposizione (btt. 57-65) è un breve inciso in cui riecheggia il secondo tema, sempre sull’agitato basso albertino, che si mantiene ferma sulla tonica di Sol# minore che in questo caso svolge la doppia funzione di punto di arrivo e di ripartenza (V-I col ritornello) o di transizione (dominante secondaria di Fa#) per lo sviluppo.

Coda
Coda

Sviluppo (66-102): rispetto al precedente, questo episodio è relativamente corto e semplice, fatto che suggerisce che qui Beethoven si è focalizzato più sui grandi contrasti e sul lirismo dei temi più che sulle possibilità di invenzione che da questi avrebbero potuto scaturire. Lo sviluppo è formato da tre fasi: la prima (btt. 66-71) che sfrutta una serie di arpeggi per modulare a Fa# minore richiamando il primo tema; 

Arpeggi di inizio sviluppo
Inizio dello sviluppo

la seconda (btt. 72-87) in cui il compositore divaga dapprima attorno ai gradi di Fa# (btt. 72-79) richiamando il secondo tema al basso e poi ripassa improvvisamente alla scala napoletana (che qui è data dal Sol maggiore). 

Seconda fase dello sviluppo
Momento della seconda fase

Durante la seguente modulazione, la caratteristica croma puntata e la semicroma spariscono, lasciando spazio ad una sequenza di sequenza di crome accentate (sf) che stringono sempre di più il tempo per poi fermarsi improvvisamente su un lungo pedale di dominante (btt. 88-102). Questo costituisce la terza fase dello sviluppo ed è costituito da un lungo tremolo di sol# al basso e da una fioritura discendente, prima di crome e poi di accordi che richiama la variazione sul secondo tema già presente nell’esposizione, prima di fermarsi definitivamente su due accordi (btt. 101-102, II-V) in dominante di Do#.

Pedale di attesa alla fine dello sviluppo
Fine della terza fase

Ripresa (btt.103-Fine): episodio decisamente ampio e vario che dichiara esplicitamente come la sonata in tre movimenti derivi dal concerto (inteso concerto per solista e orchestra), infatti, oltre alla ripetizione, appena ritoccata, dei temi dell’esposizione, segue una lunga e ben strutturata cadenza in cui il compositore accosta e collega frammenti già esposti dando libero sfogo alla fantasia, quasi improvvisasse. Questo espediente, da questa sonata in poi, diviene frequente ed assai esplicito, basti ricordare il lungo episodio a carattere improvvisativo della sonata 17 (detta la “Tempesta”), le “volate” alla fine dei primi movimenti delle sonate 21 e 23, ecc.
La ripresa comincia alla battuta 103 con la ripetizione tale e quale del primo tema fino alla sospensione in dominante (btt. 103-116). Essendo già in Do# minore, il raccordo modulante dell’esposizione viene tagliato e si passa direttamente al secondo tema, ora trasportato in Do# (btt. 117-128) e ripetuto tale e quale. Seguno anche l’intercalare sulla Sesta Napoletana (btt. 129-137) e la variazione in crome di accordi, anche queste presenti nell’esposizione (btt. 138-151), poi segue una breve coda (btt. 152-159), sempre in Do# minore. 
Alla fine della codetta la sonata potrebbe anche concludersi ma la comparsa del si e del mi# che portano verso Fa# minore (V-I) prolungando il movimento e introducendo un nuovo episodio a sorpresa. 

Inizio della cadenza
Modulazione che introduce la cadenza

Quello che segue è una lunga cadenza assemblata a partire da parti già scritte in precedenza, intercalate da delle divagazioni del compositore che gioca sui gradi della scala della tonalità, dà un’impressione di bravura e virtuosismo all’ascoltatore e porta al culmine tutta la tensione accumulata durante il frenetico fluire del movimento. 
La cadenza è strutturata così: una partenza sugli arpeggi che passa da Fa# a Do# per giungere su una settima diminuita (btt. 163-165), massimo della dissonanza raggiungibile in questo contesto, presa con rapidissimi arpeggiati che stringono la pulsazione precedente. 

Settima diminuita
Dissonanza sugli arpeggi

La 7°- consente a Beethoven di modulare rapidamente e di tornare in tonica per collegare subito un frammento del secondo tema, in Do# minore, già riproposto tale e quale nella ripresa. Qui, l’accorciarsi dei valori (btt. 166-175) conduce bruscamente a quello che è il punto più intenso, sonoro e memorabile del movimento, una lunga sequenza di ampi arpeggi (btt. 176-188) il cui ritmo è ben cadenzato dall’alternarsi di semicrome e terzine di croma. 

Una fase della cadenza
Tratto della lunga sequenza di arpeggi

La sequenza si muove tra IV(Fa#) - II-(napoletana) – VII – I in rivolto e alla fine V, con un lungo trillo e la seguente discesa libera sulla scala di Do#. Segue una pausa (btt. 187-188) marcata “Adagio”, libera e di attesa e poi la coda (btt. 189-Fine) in cui per l’ultima volta riecheggia il secondo tema. Un ultimo grande arpeggio conclude bruscamente il movimento, regalando la sorpresa finale.

Arpeggio finale
Arpeggio finale
Bibliografia



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domenica 24 settembre 2023

LA CORDA SPEZZATA

 LA CORDA SPEZZATA

La via più dura al Sassolungo di Campetto


Io, Moreno e Bruno abbiamo da poco ripetuto la difficile via Dark Angel quando questi due, non sapendo come ammazzare il tempo, vanno su un pomeriggio a chiodare un diedro obliquo che dalla conca alla base della parete si porta verso sinistra in direzione di un boschetto. 
Poco tempo dopo Moreno mi telefona e mi lancia l'amo senza nemmeno l'esca, a cui  io abbocco senza nemmeno sapere cosa stia facendo: "ciò Sandro, viento con mi e 'l Bruno a vedare la via nova (viene con me e Bruno a il nuovo itinerario)?". 
Io, pensando ad autoincensarmi e a piogge di coriandoli sul mio capo, accetto immediatamente e altrettanto immediatamente me ne pento, specie quando mi vedo a scarrozzarmi sul groppone un enorme carico di materiale su per quella traccetta di m...ahem, molto ripida, a lottare coi rami e a passare ore ed ore appeso come un salame in sosta, a fare a gara a chi inventa la bestemmia più fantasiosa per ammazzare l'attesa. Però il richiamo della via nuova e della gloria ha la meglio e quindi decido di sottopormi alla tortura.
Considerando che i compagni avevano aperto le altre due vie al Sassolungo di Campetto in sveltezza e senza troppi intoppi, è probabile che anche questa via, obbiettivamente meno arcigna delle precedenti e situata al margine sinistro della parete, non debba essere un osso così duro. Anche in questo caso, mai menzogna fu più mendace, aggravata dalla mia scarsa conoscenza della zona, dalla fiducia incrollabile in Moreno, che è quello che trova il selvaggio anche nel parcheggio del supermercato e poi da una lettura molto ottimistica della parete; idea quindi totalmente basata su presupposti inventati. 
Nessuno di noi infatti si immagina che sta per iniziare un'epopea!

E' la fine di Agosto del 2020, fa un caldo bestiale ma la parete è rivolta a nord e ci mantiene all'ombra. Ci avviamo lungo il diedro che era già stato in parte chiodato dai due pochi giorno prima e ci riuniamo su una scomodissima sosta alla base di una placca panciuta e liscia, molto liscia. Fin qui nulla di particolare. 
Traffichiamo coi sacchi e prepariamo il materiale per chiodare la placca che segue, poi carico il tutto sul groppone di Moreno che parte verso l'ignoto. Comincia a salire lentamente, come da prassi, piantando un primo fix nella roccia compatta e poi innalzandosi con dei gancetti dentro dei piccoli buchi; io faccio sicura mentre Bruno mi tiene compagnia; la sosta è decisamente scomoda ma mi sono appollaiato abbastanza bene, mentre Bruno soffre in silenzio appeso come un moschino nella ragnatela. 
Passano le ore e Moreno avanza sempre molto lentamente lungo la placca, sempre liscia e sempre difficile, fino a quando si rivela una cengetta sulla sinistra. Il prode, con molta fatica la raggiunge sparendo alla nostra vista. Moreno vorrebbe proseguire verso un punto più favorevole, perché poverino lui vorrebbe stare comodo e riposare i piedi, cucciolo (!!!) ma in mezzo c'è un intrico di rami  difficile da sbrogliare, perciò insisto affinché si fermi lì e faccia poche storie; l'intuizione si rivela saggia in quanto facciamo già fatica a capirci in questo punto.
Ora però si presenta un nuovo problema: il tiro è obliquo e con degli ostacoli e dobbiamo mandare su lo zaino col chiodame e il resto del materiale; Bruno mi guarda, io lo guardo, insieme guardiamo verso Moreno là in alto e, senza nemmeno discutere, parto salendo come Tarzan sui rinvii per superare la placca polverosa, fino a un punto in cui riesco a vedere entrambi gli uomini. A questo punto, appeso a un fix, recupero a bracciate lo zaino e sbraito a Moreno di trainarlo verso di sé mentre il lo guido con la corda rimasta; poi lo raggiungo e sale anche Bruno. Stranamente la manovra riesce senza intoppi e soprattutto senza obiezioni da parte dei due.
Siamo in un posto strano: sotto di noi la parete a placche lisce forma una specie di rampa, che noi abbiamo risalito con passaggi tutt'altro che semplici; ora ci troviamo in una specie di boschetto pensile sul margine sinistro della parete, chiuso come una sorta di abside e con molte piante secche. Ciò nonostante, il posto è fresco e ombroso e tende a sminuire la serietà del posto in cui è sito.
Bisogna decidere la prossima mossa, guardo l'ora e faccio due conti in tasca notando come sul lato opposto del boschetto ci sia un camino con blocchi incastrati che porta verso un diedro intuibile dalla nostra posizione. Moreno si butta subito verso il posto, alzandosi per una leggera cornice terrosa e lottando coi rami, o meglio facendone strage e, portatosi sotto al camino comincia a scalare tra i blocchi. Dopo un'altra lunga attesa arriva su un pulpitino alla base del diedro visto prima, il quale sale fino in cima alla parete. Vorrebbe recuperarci lì ma io, che sono pigro di natura e previdente, gli dico che sarebbe meglio se lo attendessimo più in basso assicurandoci ad un albero donde, calandoci per il boschetto sospeso, potremmo tornare a terra più velocemente e senza rifare la traversata al contrario.
Moreno mi bestemmia qualcosa che non riesco a capire ma Bruno, che ho contagiato con la mia nullafacenza acuta, è d'accordo con me e alla fine seguiamo il mio piano. Noi infatti possiamo accomodarci in una piazzola larga e comoda, dal fondo morbido mentre l'eroe disgaggia il tiro dai blocchi, in discesa dal pulpito e, malgrado alcuni proiettili di notevoli dimensioni, possiamo starcene seduti al riparo sotto uno strapiombo. Una volta riunitici cominciamo la discesa che avviene comoda comoda e senza intoppi.
Tornati giù volgiamo lo sguardo verso la parte superiore della parete, immaginando che tra quegli strapiombi ci attendano delle rogne ma per il momento demandiamo a data da destinarsi, tanto non c'è fretta di finire il lavoro.

Il tempo passa e arriva Maggio 2021: una domenica io e Moreno ci ritroviamo nuovamente sotto il Sassolungo di Campetto, il tempo non è granché, è umido e non si vede a un palmo dal naso ma la nebbia ci rinfresca e le previsioni hanno annunciato solo nuvolo con qualche isolato piovasco. La nostra idea è quella di salire nei pressi della vetta del monte e poi di calarci giù ripulendo subito tutta la linea da seguire e poi di chiodarla, in modo da terminare l'itinerario tutto in una volta e lasciare gli ultimi ritocchi durante la ripetizione. Arrivati nuovamente alla base del muro attraversiamo a sinistra per una minuscola traccia che si inoltra in un canale che conserva ancora delle chiazze di neve pressata. Giusto per rendere le cose più piccanti la nebbia che inumidisce anche le ossa si va ad unire alla temperatura alta che scioglie i blocchi di ghiaccio ed entrambe trasformano il canale in un pantano che ricorda molto le Paludi della Tristezza di Fantàsia. Non c'è bisogno che il panorama mi rattristi per affondare nel fango, sprofondo già a causa del peso e maledico di essere nato solo per il fatto che esista al mondo la possibilità di infognarsi così tanto; la mia speranza sono i bastoncini da passeggio che in questo momento costituiscono robuste ancore di salvezza a baluardo contro le sabbie mobili, malgrado si flettano con gemiti pietosi mentre li carico. Moreno nella parte di Atreyu è fenomenale: "'Ndemo Sandro, manca poco e semo su! Varda, lì de drìo ghe xe la crestina e se fa mejo." (Forza 'sandro, ancora poco e siamo su, appena lì dietro c'è la cresta). Non ripeto qui gli epiteti che rivolgo sia a lui che alla Santissima Trinità per quella situazione grottesca ma il pensiero di menar vanto della nuova via aperta mi sprona a sopportare quella palude.
Finito il canale giunge il momento di salire sulla groppa del monte che, ovviamente, ben si guarda dallo spianare anche solo un attimo, anzi cerca di respingerci con un bello spiovente di erba umida che, se fosse stato ghiaccio, non saremmo stati in Veneto ma in Hymalaya e noi non saremmo stati due scemi che vanno a cercare rogne, ma Sherpa che cercano di guadagnarsi la pagnotta.
Moreno avanza a colpi di piccozza, furbescamente portata per l'occasione, mentre io mi affido alla bontà delle suole e dei bastoncini, oltre che ai rami di provvidenziali mughi che si tendono quali mani pietose  per strapparmi ad un lugubre destino. 
Tali mani protese però, secondo il vecchio adagio romano "questa mano po esser piuma o po esse fero", diventano subito le braccia dei poliziotti che trattengono la sommossa nel momento in cui il gagliardo compare si accorge di essere salito troppo e che bisogna abbassarsi lungo un po' per beccare il punto giusto di calata, ovviamente attraversando una macchia ben fitta di suddetti mughi. Noi però siamo dei rivoluzionare e, dopo aver persuaso i mughetti a lasciare la presa grazie alle cesoie e alle piccozzate, finalmente arriviamo al terrazzino tanto agognato quale porto sicuro per poter gettare l'àncora.

Mentre riprendo fiato e preparo il materiale per la calata, Moreno si dà da fare a suon di sega (l'attrezzo, eh!) per eliminare i rami che intralciano il cammino. Mi fermo per un attimo inebetito e con la testa completamente vuota a guardare il socio mentre taglia allegramente, compiaciuto dell'opera di distruzione che sta apportando per soddisfare il nostro ego (però di qualche mugaccio se ne può tranquillamente fare a meno) quando, all'improvviso la sega si spezza restando conficcata nel tronco mentre lui mi guarda con la faccia di chi si è trovato una multa proveniente da una città mai visitata prima o che ha sentito gemiti di una coppia in calore provenire dalla propria camera da letto. Mi fissa per alcuni istanti, io pure e non so cosa fare, poi con tono rassegnato bestemmia qualcosa, abbandona il mestiere e comincia ad allestire la sosta di calata. Gli passo la roba per poter chiodare un bel terrazzino più in basso donde possiamo meglio equipaggiarci per poi attrezzare la parte di via rimanente, non manca poi molto.
Moreno scende, cava qualche ciuffo d'erba e poi allestisce la sosta poco sotto, io carico tutto e lo raggiungo. Riprepariamo la calata e questa volta scendo io per capire bene come chiodare quello che poi si rivelerà il passo chiave della via, un lungo diedro sbarrato da un tetto che bisogna superare di petto come Stallone in Cliffhanger. 
Comincio a calarmi lentamente, facendo molta fatica a causa degli scarponi rigidi, tanto preziosi sul fango e l'erba, quanto impedenti sulla roccia e che infatti mi fanno scivolare di continuo però riesco a piazzare un buon fix direzionale e ripulisco un po' la fessura che da la direttrice della scalata. 
Scendo ancora, cavo dei sassi appoggiati e mi studio il passaggio incriminato, appeso come un salame e cercando di capire come posizionare gli ancoraggi affinché non siano né scomodi né troppi. Mentre sono lì che ragiono non mi accorgo nemmeno del tempo che passa e intanto viene il tardo pomeriggio e con esso delle gocce, non mi preoccupo affatto perché penso siano dovute alla condensa della nebbia e proseguo: metto un fix a protezione del tetto, lascio spazio per un bel friend blu, poi scendo anora, altro fix, altra crosta che tolgo per liberare un appiglio e trovo un minuscolo terrazzino con un albero cresciuto in orizzontale. Saggio l'albero, mi sembra ben radicato nella parete, così aggiungo un fix per allestire una sosta; la parete esce di un buon paio di metri dalla verticale, tutt'intorno strapiomba e io sono come un naufrago su una minuscola isoletta in quel mare giallo in burrasca. Non mi rendo assolutamente conto che intanto le gocce cadono con sempre più insistenza lontano da me, però guardo verso il basso e noto che il punto di raccordo non è così distante, giusto un'altra ventina di metri più in basso, sotto un tettino; inoltre le previsioni dicono solo nuvolo per oggi e qualche piccolo e isolato piovasco.
Chiamo Moreno e gli dico che ho trovato un buon punto per sostare e che da qui possiamo calarci ancora fino al boschetto chiudendo la partita. Aspetto che arrivi, con molta lentezza perché nel frattempo disgaggia l'erba e i sassi instabili, facendo un buon lavoro di pulizia; per una volta sono al riparo sotto grandi strapiombi e non devo impensierirmi a correre in trincea per evitare di essere bersagliato da schifezze volanti.
Il compagno mi raggiunge e vorrebbe che andassi giù ancora io ma lo incito a terminare il breve raccordo che manca dato che le corde sono più che sufficienti e non serve recuperarle subito, poi mi calerò a mia volta e ciò che è rimasto da pulire si finirà magari in un secondo momento, sta venendo un'ora tarda. Egli concorda e riparte, lasciandomi all'oscuro di un minuscolo dettaglio che di lì a poco sarebbe stato gravido di conseguenze. 
Moreno scende e termina velocemente il raccordo, cavando anche due grossi macigni pericolanti che precipitano a valle con un tonfo, poi mi calo anche io e lo raggiungo alla sosta sotto il tetto: è fatta, abbiamo terminato un'altra via nuova e ci congratuliamo vicendevolmente, adesso la discesa è pura formalità, visto che siamo allo stesso punto della volta precedente. Il racconto potrebbe anche terminare qui, semplice, asettico, normale se non fosse per quell'azione taciuta in precedenza che adesso arriva a mostrarsi in tutta la sua drammaticità, una cosa così piccola ma dalle conseguenze così grandi; naturalmente non occorre specificare che le disgrazie arrivano sempre ben accompagnate.
Per disgaggiare la parte superiore, Moreno ha passato le corde dietro uno spuntoncino in modo da tenerle in linea con la fessura, senza pensare che, mentre al terrazzo di sopra avremmo avuto qualche possibilità di recuperarle perché molto vicini alla malefatta, adesso eravamo troppo in basso per tentare una qualsivoglia azione. Infatti, proviamo a tirare giù le corde per proseguire la discesa ma esse non si muovono di un millimetro e, in coppia con questo fatto disdicevole, si aggiunge il fatto che la pioggerellina di prima diventa torrenziale. Non è condensa, ne un semplice piovasco, è una tempesta in piena regola e noi siamo nell'epicentro, incapacitati a muoverci, le previsioni hanno fallito in toto; inoltre sta per arrivare anche il buio, l'ingrediente finale per la tragedia. 
Fortunatamente il tetto ci tiene relativamente all'asciutto e possiamo perseverare nei tentativi di sbloccare le corde che però vengono sistematicamente frustrati. La disattenzione è stata grave, il compagno non ricorda nemmeno quale delle due corde bisogna tirare e così tento una risalita disperata con i risalitori: faccio bloccare a Moreno la corda opposta sulla sosta e mi avventuro sull'altra ma, fatti cinque metri, sono sfinito, in parte per la giornata, in parte per la cascata che mi arriva in faccia e in parte perché i risalitori scivolano lungo la fune bagnata e tesa. 
Non c'è nessuna speranza che riesca a risalire fino al punto di incastro e tentare un'azione più risolutiva, almeno non prima del buio completo. 
Torno a malincuore alla sosta e tolgo gli attrezzi, la tensione me ne fa schizzare uno via e lo vedo sparire nell'oscurità del baratro. Guardo le corde sotto di noi, al punto in cui siamo ne abbiamo abbastanza  per calarci di tiro in tiro perciò la soluzione al dramma non può che essere una sola: tagliarle e proseguire la discesa con ciò che rimane. Detto e fatto proseguiamo verso il basso, sotto un fiume in piena di pioggia, cascate di acqua e fango, quasi che la montagna si fosse scatenata contro di noi per aver osato profanare anche il suo ultimo angolo intatto.
Arriviamo alla base completamente fradici, l'unico pezzo asciutto è il trapano che è conservato nello zaino in una busta di plastica; recuperiamo gli spezzoni sopravvissuti e scendiamo di corsa sotto l'imperversare del temporale arrivando alla macchina esausti e con la rabbia per le corde buttate. L'unico dato positivo è che la via è finalmente completa. La nostra disavventura mi rimanda con la mente a un libro che avevo appena letto di Inoue, scrittore giapponese, che narrava un fatto simile al nostro occorso negli anni '50; quale nome quindi poteva essere più appropriato de "la corda spezzata" per la nostra nuova via?

Qualche tempo dopo Moreno e Bruno tornano sulla via per finire la pulizia e tentare il recupero di quello che ci era caduto la volta precedente ma ottengono il risultato di perdere la piccozza, tagliare altre due corde nuove per un errore accorso segando un ramo e far cadere ancora qualcosa, in poche parole la maledizione del Campetto colpisce ancora.

La corda spezzata primo tiro
Il primo diedro


La corda spezzata secondo tiro
Apertura della difficile placca del secondo tiro

La corda spezzata lo strapiombo
Lo strapiombo chiave della via

La corda spezzata fessure
Lungo il diedro



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UNA GITA DOMENICALE

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