LA CORDA SPEZZATA
La via più dura al Sassolungo di Campetto
Io, Moreno e Bruno abbiamo da poco ripetuto la difficile via Dark Angel quando questi due, non sapendo come ammazzare il tempo, vanno su un pomeriggio a chiodare un diedro obliquo che dalla conca alla base della parete si porta verso sinistra in direzione di un boschetto.
Poco tempo dopo Moreno mi telefona e mi lancia l'amo senza nemmeno l'esca, a cui io abbocco senza nemmeno sapere cosa stia facendo: "ciò Sandro, viento con mi e 'l Bruno a vedare la via nova (viene con me e Bruno a il nuovo itinerario)?".
Io, pensando ad autoincensarmi e a piogge di coriandoli sul mio capo, accetto immediatamente e altrettanto immediatamente me ne pento, specie quando mi vedo a scarrozzarmi sul groppone un enorme carico di materiale su per quella traccetta di m...ahem, molto ripida, a lottare coi rami e a passare ore ed ore appeso come un salame in sosta, a fare a gara a chi inventa la bestemmia più fantasiosa per ammazzare l'attesa. Però il richiamo della via nuova e della gloria ha la meglio e quindi decido di sottopormi alla tortura.
Considerando che i compagni avevano aperto le altre due vie al Sassolungo di Campetto in sveltezza e senza troppi intoppi, è probabile che anche questa via, obbiettivamente meno arcigna delle precedenti e situata al margine sinistro della parete, non debba essere un osso così duro. Anche in questo caso, mai menzogna fu più mendace, aggravata dalla mia scarsa conoscenza della zona, dalla fiducia incrollabile in Moreno, che è quello che trova il selvaggio anche nel parcheggio del supermercato e poi da una lettura molto ottimistica della parete; idea quindi totalmente basata su presupposti inventati.
Nessuno di noi infatti si immagina che sta per iniziare un'epopea!
E' la fine di Agosto del 2020, fa un caldo bestiale ma la parete è rivolta a nord e ci mantiene all'ombra. Ci avviamo lungo il diedro che era già stato in parte chiodato dai due pochi giorno prima e ci riuniamo su una scomodissima sosta alla base di una placca panciuta e liscia, molto liscia. Fin qui nulla di particolare.
Traffichiamo coi sacchi e prepariamo il materiale per chiodare la placca che segue, poi carico il tutto sul groppone di Moreno che parte verso l'ignoto. Comincia a salire lentamente, come da prassi, piantando un primo fix nella roccia compatta e poi innalzandosi con dei gancetti dentro dei piccoli buchi; io faccio sicura mentre Bruno mi tiene compagnia; la sosta è decisamente scomoda ma mi sono appollaiato abbastanza bene, mentre Bruno soffre in silenzio appeso come un moschino nella ragnatela.
Passano le ore e Moreno avanza sempre molto lentamente lungo la placca, sempre liscia e sempre difficile, fino a quando si rivela una cengetta sulla sinistra. Il prode, con molta fatica la raggiunge sparendo alla nostra vista. Moreno vorrebbe proseguire verso un punto più favorevole, perché poverino lui vorrebbe stare comodo e riposare i piedi, cucciolo (!!!) ma in mezzo c'è un intrico di rami difficile da sbrogliare, perciò insisto affinché si fermi lì e faccia poche storie; l'intuizione si rivela saggia in quanto facciamo già fatica a capirci in questo punto.
Ora però si presenta un nuovo problema: il tiro è obliquo e con degli ostacoli e dobbiamo mandare su lo zaino col chiodame e il resto del materiale; Bruno mi guarda, io lo guardo, insieme guardiamo verso Moreno là in alto e, senza nemmeno discutere, parto salendo come Tarzan sui rinvii per superare la placca polverosa, fino a un punto in cui riesco a vedere entrambi gli uomini. A questo punto, appeso a un fix, recupero a bracciate lo zaino e sbraito a Moreno di trainarlo verso di sé mentre il lo guido con la corda rimasta; poi lo raggiungo e sale anche Bruno. Stranamente la manovra riesce senza intoppi e soprattutto senza obiezioni da parte dei due.
Siamo in un posto strano: sotto di noi la parete a placche lisce forma una specie di rampa, che noi abbiamo risalito con passaggi tutt'altro che semplici; ora ci troviamo in una specie di boschetto pensile sul margine sinistro della parete, chiuso come una sorta di abside e con molte piante secche. Ciò nonostante, il posto è fresco e ombroso e tende a sminuire la serietà del posto in cui è sito.
Bisogna decidere la prossima mossa, guardo l'ora e faccio due conti in tasca notando come sul lato opposto del boschetto ci sia un camino con blocchi incastrati che porta verso un diedro intuibile dalla nostra posizione. Moreno si butta subito verso il posto, alzandosi per una leggera cornice terrosa e lottando coi rami, o meglio facendone strage e, portatosi sotto al camino comincia a scalare tra i blocchi. Dopo un'altra lunga attesa arriva su un pulpitino alla base del diedro visto prima, il quale sale fino in cima alla parete. Vorrebbe recuperarci lì ma io, che sono pigro di natura e previdente, gli dico che sarebbe meglio se lo attendessimo più in basso assicurandoci ad un albero donde, calandoci per il boschetto sospeso, potremmo tornare a terra più velocemente e senza rifare la traversata al contrario.
Moreno mi bestemmia qualcosa che non riesco a capire ma Bruno, che ho contagiato con la mia nullafacenza acuta, è d'accordo con me e alla fine seguiamo il mio piano. Noi infatti possiamo accomodarci in una piazzola larga e comoda, dal fondo morbido mentre l'eroe disgaggia il tiro dai blocchi, in discesa dal pulpito e, malgrado alcuni proiettili di notevoli dimensioni, possiamo starcene seduti al riparo sotto uno strapiombo. Una volta riunitici cominciamo la discesa che avviene comoda comoda e senza intoppi.
Tornati giù volgiamo lo sguardo verso la parte superiore della parete, immaginando che tra quegli strapiombi ci attendano delle rogne ma per il momento demandiamo a data da destinarsi, tanto non c'è fretta di finire il lavoro.
Il tempo passa e arriva Maggio 2021: una domenica io e Moreno ci ritroviamo nuovamente sotto il Sassolungo di Campetto, il tempo non è granché, è umido e non si vede a un palmo dal naso ma la nebbia ci rinfresca e le previsioni hanno annunciato solo nuvolo con qualche isolato piovasco. La nostra idea è quella di salire nei pressi della vetta del monte e poi di calarci giù ripulendo subito tutta la linea da seguire e poi di chiodarla, in modo da terminare l'itinerario tutto in una volta e lasciare gli ultimi ritocchi durante la ripetizione. Arrivati nuovamente alla base del muro attraversiamo a sinistra per una minuscola traccia che si inoltra in un canale che conserva ancora delle chiazze di neve pressata. Giusto per rendere le cose più piccanti la nebbia che inumidisce anche le ossa si va ad unire alla temperatura alta che scioglie i blocchi di ghiaccio ed entrambe trasformano il canale in un pantano che ricorda molto le Paludi della Tristezza di Fantàsia. Non c'è bisogno che il panorama mi rattristi per affondare nel fango, sprofondo già a causa del peso e maledico di essere nato solo per il fatto che esista al mondo la possibilità di infognarsi così tanto; la mia speranza sono i bastoncini da passeggio che in questo momento costituiscono robuste ancore di salvezza a baluardo contro le sabbie mobili, malgrado si flettano con gemiti pietosi mentre li carico. Moreno nella parte di Atreyu è fenomenale: "'Ndemo Sandro, manca poco e semo su! Varda, lì de drìo ghe xe la crestina e se fa mejo." (Forza 'sandro, ancora poco e siamo su, appena lì dietro c'è la cresta). Non ripeto qui gli epiteti che rivolgo sia a lui che alla Santissima Trinità per quella situazione grottesca ma il pensiero di menar vanto della nuova via aperta mi sprona a sopportare quella palude.
Finito il canale giunge il momento di salire sulla groppa del monte che, ovviamente, ben si guarda dallo spianare anche solo un attimo, anzi cerca di respingerci con un bello spiovente di erba umida che, se fosse stato ghiaccio, non saremmo stati in Veneto ma in Hymalaya e noi non saremmo stati due scemi che vanno a cercare rogne, ma Sherpa che cercano di guadagnarsi la pagnotta.
Moreno avanza a colpi di piccozza, furbescamente portata per l'occasione, mentre io mi affido alla bontà delle suole e dei bastoncini, oltre che ai rami di provvidenziali mughi che si tendono quali mani pietose per strapparmi ad un lugubre destino.
Tali mani protese però, secondo il vecchio adagio romano "questa mano po esser piuma o po esse fero", diventano subito le braccia dei poliziotti che trattengono la sommossa nel momento in cui il gagliardo compare si accorge di essere salito troppo e che bisogna abbassarsi lungo un po' per beccare il punto giusto di calata, ovviamente attraversando una macchia ben fitta di suddetti mughi. Noi però siamo dei rivoluzionare e, dopo aver persuaso i mughetti a lasciare la presa grazie alle cesoie e alle piccozzate, finalmente arriviamo al terrazzino tanto agognato quale porto sicuro per poter gettare l'àncora.
Mentre riprendo fiato e preparo il materiale per la calata, Moreno si dà da fare a suon di sega (l'attrezzo, eh!) per eliminare i rami che intralciano il cammino. Mi fermo per un attimo inebetito e con la testa completamente vuota a guardare il socio mentre taglia allegramente, compiaciuto dell'opera di distruzione che sta apportando per soddisfare il nostro ego (però di qualche mugaccio se ne può tranquillamente fare a meno) quando, all'improvviso la sega si spezza restando conficcata nel tronco mentre lui mi guarda con la faccia di chi si è trovato una multa proveniente da una città mai visitata prima o che ha sentito gemiti di una coppia in calore provenire dalla propria camera da letto. Mi fissa per alcuni istanti, io pure e non so cosa fare, poi con tono rassegnato bestemmia qualcosa, abbandona il mestiere e comincia ad allestire la sosta di calata. Gli passo la roba per poter chiodare un bel terrazzino più in basso donde possiamo meglio equipaggiarci per poi attrezzare la parte di via rimanente, non manca poi molto.
Moreno scende, cava qualche ciuffo d'erba e poi allestisce la sosta poco sotto, io carico tutto e lo raggiungo. Riprepariamo la calata e questa volta scendo io per capire bene come chiodare quello che poi si rivelerà il passo chiave della via, un lungo diedro sbarrato da un tetto che bisogna superare di petto come Stallone in Cliffhanger.
Comincio a calarmi lentamente, facendo molta fatica a causa degli scarponi rigidi, tanto preziosi sul fango e l'erba, quanto impedenti sulla roccia e che infatti mi fanno scivolare di continuo però riesco a piazzare un buon fix direzionale e ripulisco un po' la fessura che da la direttrice della scalata.
Scendo ancora, cavo dei sassi appoggiati e mi studio il passaggio incriminato, appeso come un salame e cercando di capire come posizionare gli ancoraggi affinché non siano né scomodi né troppi. Mentre sono lì che ragiono non mi accorgo nemmeno del tempo che passa e intanto viene il tardo pomeriggio e con esso delle gocce, non mi preoccupo affatto perché penso siano dovute alla condensa della nebbia e proseguo: metto un fix a protezione del tetto, lascio spazio per un bel friend blu, poi scendo anora, altro fix, altra crosta che tolgo per liberare un appiglio e trovo un minuscolo terrazzino con un albero cresciuto in orizzontale. Saggio l'albero, mi sembra ben radicato nella parete, così aggiungo un fix per allestire una sosta; la parete esce di un buon paio di metri dalla verticale, tutt'intorno strapiomba e io sono come un naufrago su una minuscola isoletta in quel mare giallo in burrasca. Non mi rendo assolutamente conto che intanto le gocce cadono con sempre più insistenza lontano da me, però guardo verso il basso e noto che il punto di raccordo non è così distante, giusto un'altra ventina di metri più in basso, sotto un tettino; inoltre le previsioni dicono solo nuvolo per oggi e qualche piccolo e isolato piovasco.
Chiamo Moreno e gli dico che ho trovato un buon punto per sostare e che da qui possiamo calarci ancora fino al boschetto chiudendo la partita. Aspetto che arrivi, con molta lentezza perché nel frattempo disgaggia l'erba e i sassi instabili, facendo un buon lavoro di pulizia; per una volta sono al riparo sotto grandi strapiombi e non devo impensierirmi a correre in trincea per evitare di essere bersagliato da schifezze volanti.
Il compagno mi raggiunge e vorrebbe che andassi giù ancora io ma lo incito a terminare il breve raccordo che manca dato che le corde sono più che sufficienti e non serve recuperarle subito, poi mi calerò a mia volta e ciò che è rimasto da pulire si finirà magari in un secondo momento, sta venendo un'ora tarda. Egli concorda e riparte, lasciandomi all'oscuro di un minuscolo dettaglio che di lì a poco sarebbe stato gravido di conseguenze.
Moreno scende e termina velocemente il raccordo, cavando anche due grossi macigni pericolanti che precipitano a valle con un tonfo, poi mi calo anche io e lo raggiungo alla sosta sotto il tetto: è fatta, abbiamo terminato un'altra via nuova e ci congratuliamo vicendevolmente, adesso la discesa è pura formalità, visto che siamo allo stesso punto della volta precedente. Il racconto potrebbe anche terminare qui, semplice, asettico, normale se non fosse per quell'azione taciuta in precedenza che adesso arriva a mostrarsi in tutta la sua drammaticità, una cosa così piccola ma dalle conseguenze così grandi; naturalmente non occorre specificare che le disgrazie arrivano sempre ben accompagnate.
Per disgaggiare la parte superiore, Moreno ha passato le corde dietro uno spuntoncino in modo da tenerle in linea con la fessura, senza pensare che, mentre al terrazzo di sopra avremmo avuto qualche possibilità di recuperarle perché molto vicini alla malefatta, adesso eravamo troppo in basso per tentare una qualsivoglia azione. Infatti, proviamo a tirare giù le corde per proseguire la discesa ma esse non si muovono di un millimetro e, in coppia con questo fatto disdicevole, si aggiunge il fatto che la pioggerellina di prima diventa torrenziale. Non è condensa, ne un semplice piovasco, è una tempesta in piena regola e noi siamo nell'epicentro, incapacitati a muoverci, le previsioni hanno fallito in toto; inoltre sta per arrivare anche il buio, l'ingrediente finale per la tragedia.
Fortunatamente il tetto ci tiene relativamente all'asciutto e possiamo perseverare nei tentativi di sbloccare le corde che però vengono sistematicamente frustrati. La disattenzione è stata grave, il compagno non ricorda nemmeno quale delle due corde bisogna tirare e così tento una risalita disperata con i risalitori: faccio bloccare a Moreno la corda opposta sulla sosta e mi avventuro sull'altra ma, fatti cinque metri, sono sfinito, in parte per la giornata, in parte per la cascata che mi arriva in faccia e in parte perché i risalitori scivolano lungo la fune bagnata e tesa.
Non c'è nessuna speranza che riesca a risalire fino al punto di incastro e tentare un'azione più risolutiva, almeno non prima del buio completo.
Torno a malincuore alla sosta e tolgo gli attrezzi, la tensione me ne fa schizzare uno via e lo vedo sparire nell'oscurità del baratro. Guardo le corde sotto di noi, al punto in cui siamo ne abbiamo abbastanza per calarci di tiro in tiro perciò la soluzione al dramma non può che essere una sola: tagliarle e proseguire la discesa con ciò che rimane. Detto e fatto proseguiamo verso il basso, sotto un fiume in piena di pioggia, cascate di acqua e fango, quasi che la montagna si fosse scatenata contro di noi per aver osato profanare anche il suo ultimo angolo intatto.
Arriviamo alla base completamente fradici, l'unico pezzo asciutto è il trapano che è conservato nello zaino in una busta di plastica; recuperiamo gli spezzoni sopravvissuti e scendiamo di corsa sotto l'imperversare del temporale arrivando alla macchina esausti e con la rabbia per le corde buttate. L'unico dato positivo è che la via è finalmente completa. La nostra disavventura mi rimanda con la mente a un libro che avevo appena letto di Inoue, scrittore giapponese, che narrava un fatto simile al nostro occorso negli anni '50; quale nome quindi poteva essere più appropriato de "la corda spezzata" per la nostra nuova via?
Qualche tempo dopo Moreno e Bruno tornano sulla via per finire la pulizia e tentare il recupero di quello che ci era caduto la volta precedente ma ottengono il risultato di perdere la piccozza, tagliare altre due corde nuove per un errore accorso segando un ramo e far cadere ancora qualcosa, in poche parole la maledizione del Campetto colpisce ancora.
Apertura della difficile placca del secondo tiro
Lo strapiombo chiave della via
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