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martedì 26 dicembre 2023

BEETHOVEN - Sonata n. 14 op. 27 n.2 "Chiaro di luna"

BEETHOVEN

Sonata n. 14, op. 27 n. 2

Chiaro di luna 

Ecco un’altra celeberrima sonata, tra le composizioni per pianoforte in assoluto più conosciute e suonate di tutti i tempi. Fu scritta nel 1801 e dedicata alla contessina Giulietta Guicciardi, di cui il compositore all’epoca era innamorato. Come al solito il titolo non è di Beethoven ma le fu attribuito da altri, in questo caso il critico Rellstab.
Come la Pathetique op. 13 di poco precedente, anche questa sonata è fortemente sperimentale e rompe decisamente il legame con la tradizione cambiando la classica successione dei movimenti; infatti si trovano ben pochi precedenti nella storia della musica prima di  questo momento ed ora vediamo cosa succede.

La sonata è articolata in tre movimenti col sottotitolo “Sonata quasi una fantasia” per giustificare la forma poco ortodossa della stessa, infatti l’ordine degli stessi è: Adagio sostenuto, Allegretto, Presto agitato. Questa composizione è tra l’altro gemella dell’op.27 n.1, in Mi bemolle maggiore, anch’essa “Sonata quasi una fantasia” e per certi versi ancora più interessante come struttura ma che ha avuto molto meno riscontro presso il pubblico ed oggi è quasi completamente dimenticata, fatto salvo qualche rara apparizione in concerti tenuti da beethoveniani duri e puri, che vanno alla riscoperta di pezzi dimenticati, o negli esami dei conservatori.

Il fatto di anteporre l’adagio, il movimento lento e distensivo, al consueto movimento concitato non è una novità di Beethoven, infatti lo si può già trovare nella Sonata n.4 K282 di Mozart, il quale affida all’adagio iniziale il fulcro della composizione, facendolo seguire da due piccoli minuetti e un rondò. Altri (pochi) esempi si possono trovare nelle sonate di Haydn (come la 21) senza però essere così sfacciati e senza un vero e proprio crescendo drammatico come quello disegnato da Beethoven. Ciò che contraddistingue questa sonata dalle sue predecessore è però il deciso sbilanciamento delle dimensioni e dell’imponenza dell’architettura verso il finale, il quale è anche il vero movimento in forma sonata, al contrario del primo che è in forma di romanza e del secondo che richiama vagamente un minuetto (solitamente è il contrario). Anche le difficoltà tecniche dell’ultimo movimento sono decisamente superiori non solo a quelli precedenti ma anche alla maggioranza delle precedenti sonate di Beethoven, quasi a voler cominciare una nuova fase di esplorazione della tastiera da cui, di lì a poco scaturiranno capolavori come la sonata 21 op. 53 e la 23 op.57, punto culminante non solo del pianismo del compositore ma di un’intera epoca di classicismo che qui trova la naturale conclusione prima di lasciare il posto alle novità profonde rappresentate dall’ultimo periodo, non solo di Beethoven ma anche del mutato pubblico al quale si rivolgono le opere. Non bisogna dimenticare infatti che l’epoca del Classicismo musicale (figlio dell’Illuminismo) si conclude con la Rivoluzione Francese (1789 e gli anni seguenti) e che il contesto in cui viene scritta l’op.27 è il momento in cui in Francia c’è il Consolato, succeduto al Direttorio dopo un colpo di stato nel 1799, in cui continua la famosa spedizione francese in Egitto (che si conclude proprio in quest’anno) e che la guerra per esportare la Rivoluzione anche oltre i confini infuria in tutta Europa (Napoleone diviene imperatore nel 1804). 

Le due sonate op.27 si staccano quindi da tutto quello che era stato fatto in precedenza pur senza abiurare gli schemi e la prassi del passato, aggiungendo per così dire un’altra crepa nel muro di conservatorismo che rappresentava l’epoca passata.

Il primo movimento della sonata, in Do# minore e in 4/4 è in forma di romanza, con una scrittura ridotta al minimo funzionale per esprimere un’armonia e una pulsazione, costituita da un unico tema a sua volta formato da una nota ribattuta e una breve cadenza al Mi maggiore, seguito da lunghe code che oscillano attorno alla tonica. Il pezzo, se confrontato con i movimenti seguenti o con gli omologhi delle sonate precedenti, è di una semplicità unica, quasi banale, ma al tempo stesso estremamente ardito nell’armonia e nella dinamica e di grande incisività nell'ascoltatore. Questo movimento si riaggancia direttamente al primo tema della Patetica suscitando nell’uditore emozioni immediate e molto forti, quasi come una sorta di malinconia e di cupezza davanti al suo fluire languido e nel modo minore, proprio come quel Grave dell’op.13, massiccio e definito come un monolito e di così profondo impatto emotivo da scolpirsi eterno nella mente.

La struttura dell’intero movimento è formata da tre livelli, o voci, di cui i due estremi hanno un comportamento quasi statico: la voce acuta costituisce il canto, occasionalmente si scambia con quella grave per un breve dialogo e il basso, per l’appunto, scandisce l’armonia. La voce intermedia scandisce delle terzine ininterrotte per l’intera durata del movimento completando i suoni degli accordi sul basso e conferendo movimento e direzione alla massa sonora. E’ interessante notare come sia di pugno dello stesso Beethoven l’indicazione “si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordini” che nella pratica significa col pedale di risonanza abbassato senza interruzione, onde creare un effetto di pienezza. Qui occorre tenere presente che questa cosa ha perfettamente senso sul fortepiano che possedeva, mentre sui pianoforti moderni suonerebbe orrendo (si può fare lo stesso ma crea una gran confusione e con alcune stonature). Ciò è dovuto in parte alla maggiore cassa armonica dei pianoforti odierni, alla maggiore corsa dei martelli e a corde più forti e triplicate da una certa altezza in su.

Il tema viene preceduto da 4 battute introduttive in cui al basso compare un si naturale contro la triade di Do# delle terzine e che risolve in modo poco canonico su un VI grado (La maggiore), questo per giocare sulle dissonanze senza interrompere la graduale discesa del basso e accentuando il senso di profondità che regala l’accordo maggiore al suo arrivo; segue un II- (sesta napoletana) – V – I, classica cadenza affermativa. 

Inizio I Movimento
Battute iniziali I movimento
L'introduzione del I Movimento

Alla fine di battuta 5 entra il tema sull’ultimo quarto (ritmo - > - -). Su questo tema bisogna spendere due parole ancora: è costituito da un sol# ribattuto con un ritmo puntato che sembra quasi la parodia di una marcetta ma in verità è un tipo di scrittura in voga al tempo che significa che il sol# andrebbe sincronizzato con le terzine dando origine ad una placida cantilena e non ha il significato che gli diamo noi oggi, ossia che la semicroma resti leggermente in ritardo rispetto alla terzina costituendo essa una pulsazione più breve (nella fuga della toccata in sol minore di Bach BWV 915 questa scrittura è esplicita, con le note ben allineate e si procrastina fino a Chopin). Oggi, comunque, nessuno esegue questo tema nel modo pensato da Beethoven e lo sfasamento della semicroma rispetto alla terzina contribuisce a dare al movimento un piglio più drammatico al tema. A tutto ciò bisogna pure aggiungere che il tema dura appena 4 battute e che nel corso di queste si conclude in Mi maggiore, il relativo di Do# minore, tonica; tutto ciò che segue sono trasformazioni armoniche dello stesso, rimanendo il canto pressoché immutato, quasi fossero delle metamorfosi.

Il tema viene proposto da btt 5 alla 9 a cui seguono 5 battute di risposta negativa in cui Beethoven gioca attorno alla sesta napoletana (II-) considerandola non un grado alterato ma una tonalità a sé stante che consente movimento tra scale molto lontane tra loro, per poi passare alle dominanti secondarie (a bt 10 vengono levate dalle triadi le alterazioni e alla bt.11 modula a Do maggiore, II- di Si maggiore, poi passa continuamente da Fa# a Si in un continuo scambio di dominanti). 

risposta al tema
Modulazione di risposta al tema

Alle btt.15-22 questa continua ambiguità del punto di arrivo tonale genera una forte dissonanza che mantiene alta la tensione e introducendo l’eco, lo scambio di ruoli tra la voce acuta del canto e il basso (btt.16-18) che si ripete 2 volte, prima di lasciare spazio ad una breve coda che modula ancora e porta la conclusione di questa esposizione alla quinta che nel circolo delle quinte precede il do#, ossia Fa# minore, IV grado. 

Sezione con l'eco tra basso e acuto
L'eco e la forte dissonanza

A battuta 23 finisce questa esposizione, molto breve per gli standard beethoveniani ma molto densa di una nuova ricerca di combinazioni di accordi all’interno dell’armonia classica. Da btt. 23 a 42 c’è una sorta di sviluppo delle idee fin qui esposte che non è una vera e propria parte b come si suole nelle romanze. 

Il tema torna all’acuto alla bt.23 per poi condurre, tramite un breve concatenamento IV-V (btt. 25-26) riferito alla scala di Do#, nuovamente alla tonalità di impianto. A battuta 28 inizia il lungo pedale di dominante (Sol#) che costituisce il cuore dell’episodio e di tutto il movimento ed è suddiviso in due momenti ben distinti: il primo (btt.28-31) dove il compositore ricorre ancora all’espediente dell’eco e facendo ricomparire la stessa figurazione ad altezze diverse (sta poi all’interprete giocare sull’intensità), il secondo (btt.32-39) basato sulla fioritura dell’elemento terzina che si muove attorno ad una 13° e alla tonica compiendo ampie salite e discese lungo la tastiera (è il momento più drammatico del movimento). Alla fine, come prevedibile, l’episodio finisce riportandosi a Do# minore con la consueta cadenza affermativa V-I (btt.41-42).

Sviluppo con pedale di dominante
Inizio del pedale di dominante con gli echi

Arpeggi di settima diminuita
Fioritura della 7- con le terzine

A battuta 42 c’è la ripresa del tema, esattamente come era stato presentato all’inizio e poi, dopo le 5 battute di proposta, si aggancia una risposta negativa in Mi maggiore (btt.46-50) che regala per un momento l’illusione della conquista della luce per poi tornare cupa al minore tramite il medesimo passaggio sul II- (sesta napoletana, bt.50) a cui si aggiunge l’ultima riproposta dell’eco trasportato al IV di Do# minore per mantenere la tonalità di impianto. 
Ripresa
Ripresa

A questo punto, per rompere la ripetizione pedissequa della parte iniziale, Beethoven compie una specie di piccolo miracolo armonico, abbastanza semplice nella concezione ma così di grande effetto da costituire il punto più memorabile ed emozionante di tutta l’intera sonata: terminato l’eco (bt.55) in Fa# minore, IV di Do#, modula improvvisamente a Mi maggiore che però è solo di passaggio, per quanto ben affermato (bt.56) e poi discende ancora a Do# con una piccolissima progressione, giusto una battuta (57) in cui compare una delicata 7° sul II che modula il passaggio attraverso V-I di Do#, quasi impercettibile nella sua dissonanza ma perfettamente amalgamato nell’armonia del passaggio. 

Progressione caratteristica del movimento adagio
La modulazione cruciale che ribalta la conclusione del movimento

Alle battute 58-59 si prepara poi la cadenza conclusiva e definitivamente affermativa di Do# minore con un certo senso di inesorabilità e che lascia spazio alla breve coda in cui il tema ricompare al basso (btt.65-69) e tutto si ferma definitivamente.

II MOVIMENTO: Allegretto

Il secondo movimento è una sorta di intermezzo, in 3/4 e non troppo veloce, che richiama vagamento un minuetto per il carattere e lo scherzo per il tempo. E’ in Re bemolle maggiore e questo lo pone completamente agli antipodi rispetto al movimento precedente, con cui non condivide assolutamente nulla (magari si potrebbe notare un vago richiamo al tema nell’andamento della parte acuta o del basso ma mi sembra una forzatura). Anche questo movimento, malgrado sia all’ascolto che all’esame visivo appaia di una semplicità disarmante, quasi banale (a differenza delle sonate precedenti o del movimento successivo in cui non si fa economia di mezzi sonori) è invece costruito con arguzia e con una scrittura ancora una volta innovativa. 
Tale pezzo è costruito attorno a due singole frasi (btt.1-9 e 17-25 rispettivamente) di cui la prima nettamente preponderante sulla seconda e che viene ripetuta variata con ampio uso delle sincopi (elemento già sperimentato nella Patetica e nella n.12 op.26). 

Inizio allegretto
Prima frase

Seconda frase del tema
Seconda frase

La prima frase addirittura parte da un singolo inciso (btt.1-5) a cui segue una risposta positiva, poi il tutto viene ripetuto variato con sincopi, scomposto in 4 voci e ripetuto con il  ritornello (l’armonia in questo caso è davvero banale). La seconda frase crea un piccolo stacco giocando attorno al V e VI grado di Re bemolle con l’aggiunta del do bemolle al posto della sensibile (do) prima di lasciare spazio ad un’altra piccola variazione della prima frase (btt.25-35) alternando un’omoritmia alle sincopi. Segue una brevissima coda V-I (36-37).
Variazione sincopata
Variazione sincopata

Il Trio è un’altra piccola ma brillante invenzione in quanto parte dall’idea di sincopi e introduce un qualcosa di nuovo ancora che sostanzialmente è l’inverso dell’inciso iniziale. Il Trio è a sua volta suddiviso in due brevi episodi sincopati tra mano destra e sinistra, il primo (btt.37-45) raggiante in Re bemolle maggiore, il secondo (btt.45-61) più dimesso in cui Beethoven asseconda la discesa cromatica del basso per ben due volte prima della conclusione.
Primo episodio del trio
Primo episodio del Trio
Incipit secondo episodio
Inizio secondo episodio

Alla fine, questa piccola botta di allegria svolge il compito di alleviare la cupezza accumulata nel primo movimento, che aveva quella sensazione tetra e drammatica, quasi di morte, preparando l’avvento del vero movimento in forma-sonata che attacca subito dopo la fine del movimento. Inoltre l’alternanza Adagio – Allegretto – Presto rappresenta anche una forma di conquista interiore che parte dalla rassegnazione e dall’immobilità, passa per la speranza e approda poi alla disperazione, condita di ansia e irrequietezza.



III MOVIMENTO: Presto con fuoco

Il terzo movimento, come detto in precedenza, è quello in forma-sonata dell’opera e che, nella mente del compositore, ne è anche il fulcro, il momento più atteso, ossia la parte dove si recita il vero dramma. Questo atteggiamento equivale a dire al pubblico: "vi ho accomodati col primo movimento, tranquillo e orecchiabile, vi ho fornito anche l’avanspettacolo col secondo, ora si fa sul serio".
Innanzi tutto, bisogna esaminare questa parte della sonata dall’alto: essa, come lunghezza e numero di idee impiegate, può tranquillamente fagocitare ciò che c’è stato prima. Anche il pianismo cambia, la scrittura si fa decisamente più virtuosistica, più abbellita e di grande difficoltà tecnica (almeno rispetto a ciò che ha preceduto sia nella sonata stessa che in quelle precedenti). 
E’ in Do# minore, in 4/4 e "Presto agitato", il che significa che deve essere eseguito con una pulsazione al quarto molto serrata, con irruenza e senza posa.
Il movimento è costruito secondo la forma-sonata canonica che consta di esposizione, sviluppo e ripresa, episodi ben definiti nel corso del pezzo ma la costruzione degli stessi si fa più complessa e ricca. 
Beethoven continua la sua sperimentazione e da sfogo alla sua fantasia, questa volta affiancando un vero, classico tema “cantato” nella parte acuta, quindi ben udibile e spiccato al di sopra del marasma che lo contorna, ad un’area tematica composta da idee e gesti pianistici molto distanti tra loro, introducendo anche una variazione al tema stesso. In tutto ciò domina la semicroma, la veloce pulsazione che scorre per l’intero pezzo, fatto salvo alcune brevi pause e che mantiene alta l’”energia” che ne scaturisce.

Esposizione (btt.1-66): è il primo episodio, quello in cui vengono presentati per la prima volta i temi al pubblico, quasi fossero i personaggi del dramma. Il primo tema parte subito, senza nessuna introduzione, nudo e crudo e in Do# minore, con la particolarità che non si tratta di un vero e proprio tema ma più che altro di un’area tematica. Esso comincia (btt.1-8) con una serie di veloci arpeggi che, come le onde contro una scogliera, si infrangono su coppie di accordi (armonicamente è una lunga modulazione alla dominante, Sol#). 

Inizio terzo movimento
Inizio con i lunghi arpeggi

Questa prima idea, o proposta, è esattamente la ripresa del primo movimento, semplicemente allungando la terzina per far quadrare il disegno nel tempo binario, così come l’armonia, presa di pari passo dal primo movimento. Questo espediente chiude così il ciclo che era iniziato nel primo movimento e, con il suo carattere diametralmente opposto a quello del primo movimento, ribalta completamente l’idea consolidata di sonata che si era consolidata (motivo per cui Beethoven la chiama “sonata quasi una fantasia”, si ricordi il ciclo costruito nell'op. 26).
Alle battute 9-14 il fluire delle “onde sugli scogli” viene interrotto da un pedale di dominante (Sol#), anch’esso caratterizzato da due momenti assolutamente peculiari: una sorta di trillo che ruota attorno alla dominante e una vera e propria fermata (bt. 14) che ricomparirà più volte nel movimento come elemento divisorio. Questo pedale prepara la seconda ondata di arpeggi (btt. 15-21) che riprende la concitazione dell’inizio e modula (Do# come IV di Sol#-> IV-II-V-I) al Sol# minore, secondo tema (una sorta di breve ponte modulante).

Pedale di dominante
Pedale di dominante

Il secondo tema di questa esposizione in forma-sonata è nuovamente nel modo minore, come nella sonata n. 8 Pathétique, e con una caratteristica croma puntata seguita da una sfuggente semicroma, come richiamo del tema del primo movimento, così prosegue con l’atmosfera drammatica e tesa che altrimenti sarebbe stata interrotta troppo presto. Questo tema contrasta con quello precedente in quanto qui viene proposta una melodia cantabile (btt. 21-24) sovrapposta ad un basso albertino sempre veloce ed agitato. 

Secondo tema
Fine degli arpeggi e secondo tema


La risposta (btt. 25-28), anche per evitare di inventare materiale nuovo, è semplice ed efficace, ossia è una piccola variazione delle prime quattro battute con l’uso di un sincopato che tende ancora una volta ad affrettare il tempo già concitato. Questo tema rallenta poi gradualmente con una progressione, che si appoggia ai valori delle minime al canto, davvero insolita ma che resta comunque amalgamata all’insieme. Questa piccola progressione (btt. 29-32), che viene poi riproposta anche nella ripresa e che quindi è importante nell’equilibrio generale, nasce dalla sensibile (Fa##) che scende di semitono, portandosi dapprima a Si maggiore e poi ancora (col solito II-V-I) e poi nuovamente a Sol# minore interrompendo bruscamente la naturale risoluzione con l’irruzione e la fermata su un possente accordo di La maggiore, che qui è una vera sorpresa. 

Chiusura del secondo tema
La progressione di chiusura

In verità questo accordo, II gr. Min., è un accordo di Sesta Napoletana che sospende l’armonia e prepara (btt. 33-42) il ritorno del tema. Ciò che segue all’accordo è un disegno melodico, leggiero, in p, che è una semplice fioritura che imita i gesti effettuati in precedenza (a bt. 39 ritornano anche le sincopi). 

Sospensione sulla sesta napoletana
Sospensione sul II-

Per concludere questa esposizione, Beethoven non si accontenta di risolvere alla tonica di Sol# (btt. 41-42) ma riprende variato il secondo tema distribuendolo su degli accordi e passando la melodia tra le voci. Non si tratta di un inciso estemporaneo ma di una sezione ben sviluppata in cui la proposta variata (btt.43-46) è seguita da una piccola coda (btt.47-48) per poi riprendere con ancora più vigore (btt-49-56) per lasciare poi il posto alla coda vera e propria.

Variazione del secondo tema
Variazione

La coda dell’esposizione (btt. 57-65) è un breve inciso in cui riecheggia il secondo tema, sempre sull’agitato basso albertino, che si mantiene ferma sulla tonica di Sol# minore che in questo caso svolge la doppia funzione di punto di arrivo e di ripartenza (V-I col ritornello) o di transizione (dominante secondaria di Fa#) per lo sviluppo.

Coda
Coda

Sviluppo (66-102): rispetto al precedente, questo episodio è relativamente corto e semplice, fatto che suggerisce che qui Beethoven si è focalizzato più sui grandi contrasti e sul lirismo dei temi più che sulle possibilità di invenzione che da questi avrebbero potuto scaturire. Lo sviluppo è formato da tre fasi: la prima (btt. 66-71) che sfrutta una serie di arpeggi per modulare a Fa# minore richiamando il primo tema; 

Arpeggi di inizio sviluppo
Inizio dello sviluppo

la seconda (btt. 72-87) in cui il compositore divaga dapprima attorno ai gradi di Fa# (btt. 72-79) richiamando il secondo tema al basso e poi ripassa improvvisamente alla scala napoletana (che qui è data dal Sol maggiore). 

Seconda fase dello sviluppo
Momento della seconda fase

Durante la seguente modulazione, la caratteristica croma puntata e la semicroma spariscono, lasciando spazio ad una sequenza di sequenza di crome accentate (sf) che stringono sempre di più il tempo per poi fermarsi improvvisamente su un lungo pedale di dominante (btt. 88-102). Questo costituisce la terza fase dello sviluppo ed è costituito da un lungo tremolo di sol# al basso e da una fioritura discendente, prima di crome e poi di accordi che richiama la variazione sul secondo tema già presente nell’esposizione, prima di fermarsi definitivamente su due accordi (btt. 101-102, II-V) in dominante di Do#.

Pedale di attesa alla fine dello sviluppo
Fine della terza fase

Ripresa (btt.103-Fine): episodio decisamente ampio e vario che dichiara esplicitamente come la sonata in tre movimenti derivi dal concerto (inteso concerto per solista e orchestra), infatti, oltre alla ripetizione, appena ritoccata, dei temi dell’esposizione, segue una lunga e ben strutturata cadenza in cui il compositore accosta e collega frammenti già esposti dando libero sfogo alla fantasia, quasi improvvisasse. Questo espediente, da questa sonata in poi, diviene frequente ed assai esplicito, basti ricordare il lungo episodio a carattere improvvisativo della sonata 17 (detta la “Tempesta”), le “volate” alla fine dei primi movimenti delle sonate 21 e 23, ecc.
La ripresa comincia alla battuta 103 con la ripetizione tale e quale del primo tema fino alla sospensione in dominante (btt. 103-116). Essendo già in Do# minore, il raccordo modulante dell’esposizione viene tagliato e si passa direttamente al secondo tema, ora trasportato in Do# (btt. 117-128) e ripetuto tale e quale. Seguno anche l’intercalare sulla Sesta Napoletana (btt. 129-137) e la variazione in crome di accordi, anche queste presenti nell’esposizione (btt. 138-151), poi segue una breve coda (btt. 152-159), sempre in Do# minore. 
Alla fine della codetta la sonata potrebbe anche concludersi ma la comparsa del si e del mi# che portano verso Fa# minore (V-I) prolungando il movimento e introducendo un nuovo episodio a sorpresa. 

Inizio della cadenza
Modulazione che introduce la cadenza

Quello che segue è una lunga cadenza assemblata a partire da parti già scritte in precedenza, intercalate da delle divagazioni del compositore che gioca sui gradi della scala della tonalità, dà un’impressione di bravura e virtuosismo all’ascoltatore e porta al culmine tutta la tensione accumulata durante il frenetico fluire del movimento. 
La cadenza è strutturata così: una partenza sugli arpeggi che passa da Fa# a Do# per giungere su una settima diminuita (btt. 163-165), massimo della dissonanza raggiungibile in questo contesto, presa con rapidissimi arpeggiati che stringono la pulsazione precedente. 

Settima diminuita
Dissonanza sugli arpeggi

La 7°- consente a Beethoven di modulare rapidamente e di tornare in tonica per collegare subito un frammento del secondo tema, in Do# minore, già riproposto tale e quale nella ripresa. Qui, l’accorciarsi dei valori (btt. 166-175) conduce bruscamente a quello che è il punto più intenso, sonoro e memorabile del movimento, una lunga sequenza di ampi arpeggi (btt. 176-188) il cui ritmo è ben cadenzato dall’alternarsi di semicrome e terzine di croma. 

Una fase della cadenza
Tratto della lunga sequenza di arpeggi

La sequenza si muove tra IV(Fa#) - II-(napoletana) – VII – I in rivolto e alla fine V, con un lungo trillo e la seguente discesa libera sulla scala di Do#. Segue una pausa (btt. 187-188) marcata “Adagio”, libera e di attesa e poi la coda (btt. 189-Fine) in cui per l’ultima volta riecheggia il secondo tema. Un ultimo grande arpeggio conclude bruscamente il movimento, regalando la sorpresa finale.

Arpeggio finale
Arpeggio finale
Bibliografia



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domenica 24 settembre 2023

LA CORDA SPEZZATA

 LA CORDA SPEZZATA

La via più dura al Sassolungo di Campetto


Io, Moreno e Bruno abbiamo da poco ripetuto la difficile via Dark Angel quando questi due, non sapendo come ammazzare il tempo, vanno su un pomeriggio a chiodare un diedro obliquo che dalla conca alla base della parete si porta verso sinistra in direzione di un boschetto. 
Poco tempo dopo Moreno mi telefona e mi lancia l'amo senza nemmeno l'esca, a cui  io abbocco senza nemmeno sapere cosa stia facendo: "ciò Sandro, viento con mi e 'l Bruno a vedare la via nova (viene con me e Bruno a il nuovo itinerario)?". 
Io, pensando ad autoincensarmi e a piogge di coriandoli sul mio capo, accetto immediatamente e altrettanto immediatamente me ne pento, specie quando mi vedo a scarrozzarmi sul groppone un enorme carico di materiale su per quella traccetta di m...ahem, molto ripida, a lottare coi rami e a passare ore ed ore appeso come un salame in sosta, a fare a gara a chi inventa la bestemmia più fantasiosa per ammazzare l'attesa. Però il richiamo della via nuova e della gloria ha la meglio e quindi decido di sottopormi alla tortura.
Considerando che i compagni avevano aperto le altre due vie al Sassolungo di Campetto in sveltezza e senza troppi intoppi, è probabile che anche questa via, obbiettivamente meno arcigna delle precedenti e situata al margine sinistro della parete, non debba essere un osso così duro. Anche in questo caso, mai menzogna fu più mendace, aggravata dalla mia scarsa conoscenza della zona, dalla fiducia incrollabile in Moreno, che è quello che trova il selvaggio anche nel parcheggio del supermercato e poi da una lettura molto ottimistica della parete; idea quindi totalmente basata su presupposti inventati. 
Nessuno di noi infatti si immagina che sta per iniziare un'epopea!

E' la fine di Agosto del 2020, fa un caldo bestiale ma la parete è rivolta a nord e ci mantiene all'ombra. Ci avviamo lungo il diedro che era già stato in parte chiodato dai due pochi giorno prima e ci riuniamo su una scomodissima sosta alla base di una placca panciuta e liscia, molto liscia. Fin qui nulla di particolare. 
Traffichiamo coi sacchi e prepariamo il materiale per chiodare la placca che segue, poi carico il tutto sul groppone di Moreno che parte verso l'ignoto. Comincia a salire lentamente, come da prassi, piantando un primo fix nella roccia compatta e poi innalzandosi con dei gancetti dentro dei piccoli buchi; io faccio sicura mentre Bruno mi tiene compagnia; la sosta è decisamente scomoda ma mi sono appollaiato abbastanza bene, mentre Bruno soffre in silenzio appeso come un moschino nella ragnatela. 
Passano le ore e Moreno avanza sempre molto lentamente lungo la placca, sempre liscia e sempre difficile, fino a quando si rivela una cengetta sulla sinistra. Il prode, con molta fatica la raggiunge sparendo alla nostra vista. Moreno vorrebbe proseguire verso un punto più favorevole, perché poverino lui vorrebbe stare comodo e riposare i piedi, cucciolo (!!!) ma in mezzo c'è un intrico di rami  difficile da sbrogliare, perciò insisto affinché si fermi lì e faccia poche storie; l'intuizione si rivela saggia in quanto facciamo già fatica a capirci in questo punto.
Ora però si presenta un nuovo problema: il tiro è obliquo e con degli ostacoli e dobbiamo mandare su lo zaino col chiodame e il resto del materiale; Bruno mi guarda, io lo guardo, insieme guardiamo verso Moreno là in alto e, senza nemmeno discutere, parto salendo come Tarzan sui rinvii per superare la placca polverosa, fino a un punto in cui riesco a vedere entrambi gli uomini. A questo punto, appeso a un fix, recupero a bracciate lo zaino e sbraito a Moreno di trainarlo verso di sé mentre il lo guido con la corda rimasta; poi lo raggiungo e sale anche Bruno. Stranamente la manovra riesce senza intoppi e soprattutto senza obiezioni da parte dei due.
Siamo in un posto strano: sotto di noi la parete a placche lisce forma una specie di rampa, che noi abbiamo risalito con passaggi tutt'altro che semplici; ora ci troviamo in una specie di boschetto pensile sul margine sinistro della parete, chiuso come una sorta di abside e con molte piante secche. Ciò nonostante, il posto è fresco e ombroso e tende a sminuire la serietà del posto in cui è sito.
Bisogna decidere la prossima mossa, guardo l'ora e faccio due conti in tasca notando come sul lato opposto del boschetto ci sia un camino con blocchi incastrati che porta verso un diedro intuibile dalla nostra posizione. Moreno si butta subito verso il posto, alzandosi per una leggera cornice terrosa e lottando coi rami, o meglio facendone strage e, portatosi sotto al camino comincia a scalare tra i blocchi. Dopo un'altra lunga attesa arriva su un pulpitino alla base del diedro visto prima, il quale sale fino in cima alla parete. Vorrebbe recuperarci lì ma io, che sono pigro di natura e previdente, gli dico che sarebbe meglio se lo attendessimo più in basso assicurandoci ad un albero donde, calandoci per il boschetto sospeso, potremmo tornare a terra più velocemente e senza rifare la traversata al contrario.
Moreno mi bestemmia qualcosa che non riesco a capire ma Bruno, che ho contagiato con la mia nullafacenza acuta, è d'accordo con me e alla fine seguiamo il mio piano. Noi infatti possiamo accomodarci in una piazzola larga e comoda, dal fondo morbido mentre l'eroe disgaggia il tiro dai blocchi, in discesa dal pulpito e, malgrado alcuni proiettili di notevoli dimensioni, possiamo starcene seduti al riparo sotto uno strapiombo. Una volta riunitici cominciamo la discesa che avviene comoda comoda e senza intoppi.
Tornati giù volgiamo lo sguardo verso la parte superiore della parete, immaginando che tra quegli strapiombi ci attendano delle rogne ma per il momento demandiamo a data da destinarsi, tanto non c'è fretta di finire il lavoro.

Il tempo passa e arriva Maggio 2021: una domenica io e Moreno ci ritroviamo nuovamente sotto il Sassolungo di Campetto, il tempo non è granché, è umido e non si vede a un palmo dal naso ma la nebbia ci rinfresca e le previsioni hanno annunciato solo nuvolo con qualche isolato piovasco. La nostra idea è quella di salire nei pressi della vetta del monte e poi di calarci giù ripulendo subito tutta la linea da seguire e poi di chiodarla, in modo da terminare l'itinerario tutto in una volta e lasciare gli ultimi ritocchi durante la ripetizione. Arrivati nuovamente alla base del muro attraversiamo a sinistra per una minuscola traccia che si inoltra in un canale che conserva ancora delle chiazze di neve pressata. Giusto per rendere le cose più piccanti la nebbia che inumidisce anche le ossa si va ad unire alla temperatura alta che scioglie i blocchi di ghiaccio ed entrambe trasformano il canale in un pantano che ricorda molto le Paludi della Tristezza di Fantàsia. Non c'è bisogno che il panorama mi rattristi per affondare nel fango, sprofondo già a causa del peso e maledico di essere nato solo per il fatto che esista al mondo la possibilità di infognarsi così tanto; la mia speranza sono i bastoncini da passeggio che in questo momento costituiscono robuste ancore di salvezza a baluardo contro le sabbie mobili, malgrado si flettano con gemiti pietosi mentre li carico. Moreno nella parte di Atreyu è fenomenale: "'Ndemo Sandro, manca poco e semo su! Varda, lì de drìo ghe xe la crestina e se fa mejo." (Forza 'sandro, ancora poco e siamo su, appena lì dietro c'è la cresta). Non ripeto qui gli epiteti che rivolgo sia a lui che alla Santissima Trinità per quella situazione grottesca ma il pensiero di menar vanto della nuova via aperta mi sprona a sopportare quella palude.
Finito il canale giunge il momento di salire sulla groppa del monte che, ovviamente, ben si guarda dallo spianare anche solo un attimo, anzi cerca di respingerci con un bello spiovente di erba umida che, se fosse stato ghiaccio, non saremmo stati in Veneto ma in Hymalaya e noi non saremmo stati due scemi che vanno a cercare rogne, ma Sherpa che cercano di guadagnarsi la pagnotta.
Moreno avanza a colpi di piccozza, furbescamente portata per l'occasione, mentre io mi affido alla bontà delle suole e dei bastoncini, oltre che ai rami di provvidenziali mughi che si tendono quali mani pietose  per strapparmi ad un lugubre destino. 
Tali mani protese però, secondo il vecchio adagio romano "questa mano po esser piuma o po esse fero", diventano subito le braccia dei poliziotti che trattengono la sommossa nel momento in cui il gagliardo compare si accorge di essere salito troppo e che bisogna abbassarsi lungo un po' per beccare il punto giusto di calata, ovviamente attraversando una macchia ben fitta di suddetti mughi. Noi però siamo dei rivoluzionare e, dopo aver persuaso i mughetti a lasciare la presa grazie alle cesoie e alle piccozzate, finalmente arriviamo al terrazzino tanto agognato quale porto sicuro per poter gettare l'àncora.

Mentre riprendo fiato e preparo il materiale per la calata, Moreno si dà da fare a suon di sega (l'attrezzo, eh!) per eliminare i rami che intralciano il cammino. Mi fermo per un attimo inebetito e con la testa completamente vuota a guardare il socio mentre taglia allegramente, compiaciuto dell'opera di distruzione che sta apportando per soddisfare il nostro ego (però di qualche mugaccio se ne può tranquillamente fare a meno) quando, all'improvviso la sega si spezza restando conficcata nel tronco mentre lui mi guarda con la faccia di chi si è trovato una multa proveniente da una città mai visitata prima o che ha sentito gemiti di una coppia in calore provenire dalla propria camera da letto. Mi fissa per alcuni istanti, io pure e non so cosa fare, poi con tono rassegnato bestemmia qualcosa, abbandona il mestiere e comincia ad allestire la sosta di calata. Gli passo la roba per poter chiodare un bel terrazzino più in basso donde possiamo meglio equipaggiarci per poi attrezzare la parte di via rimanente, non manca poi molto.
Moreno scende, cava qualche ciuffo d'erba e poi allestisce la sosta poco sotto, io carico tutto e lo raggiungo. Riprepariamo la calata e questa volta scendo io per capire bene come chiodare quello che poi si rivelerà il passo chiave della via, un lungo diedro sbarrato da un tetto che bisogna superare di petto come Stallone in Cliffhanger. 
Comincio a calarmi lentamente, facendo molta fatica a causa degli scarponi rigidi, tanto preziosi sul fango e l'erba, quanto impedenti sulla roccia e che infatti mi fanno scivolare di continuo però riesco a piazzare un buon fix direzionale e ripulisco un po' la fessura che da la direttrice della scalata. 
Scendo ancora, cavo dei sassi appoggiati e mi studio il passaggio incriminato, appeso come un salame e cercando di capire come posizionare gli ancoraggi affinché non siano né scomodi né troppi. Mentre sono lì che ragiono non mi accorgo nemmeno del tempo che passa e intanto viene il tardo pomeriggio e con esso delle gocce, non mi preoccupo affatto perché penso siano dovute alla condensa della nebbia e proseguo: metto un fix a protezione del tetto, lascio spazio per un bel friend blu, poi scendo anora, altro fix, altra crosta che tolgo per liberare un appiglio e trovo un minuscolo terrazzino con un albero cresciuto in orizzontale. Saggio l'albero, mi sembra ben radicato nella parete, così aggiungo un fix per allestire una sosta; la parete esce di un buon paio di metri dalla verticale, tutt'intorno strapiomba e io sono come un naufrago su una minuscola isoletta in quel mare giallo in burrasca. Non mi rendo assolutamente conto che intanto le gocce cadono con sempre più insistenza lontano da me, però guardo verso il basso e noto che il punto di raccordo non è così distante, giusto un'altra ventina di metri più in basso, sotto un tettino; inoltre le previsioni dicono solo nuvolo per oggi e qualche piccolo e isolato piovasco.
Chiamo Moreno e gli dico che ho trovato un buon punto per sostare e che da qui possiamo calarci ancora fino al boschetto chiudendo la partita. Aspetto che arrivi, con molta lentezza perché nel frattempo disgaggia l'erba e i sassi instabili, facendo un buon lavoro di pulizia; per una volta sono al riparo sotto grandi strapiombi e non devo impensierirmi a correre in trincea per evitare di essere bersagliato da schifezze volanti.
Il compagno mi raggiunge e vorrebbe che andassi giù ancora io ma lo incito a terminare il breve raccordo che manca dato che le corde sono più che sufficienti e non serve recuperarle subito, poi mi calerò a mia volta e ciò che è rimasto da pulire si finirà magari in un secondo momento, sta venendo un'ora tarda. Egli concorda e riparte, lasciandomi all'oscuro di un minuscolo dettaglio che di lì a poco sarebbe stato gravido di conseguenze. 
Moreno scende e termina velocemente il raccordo, cavando anche due grossi macigni pericolanti che precipitano a valle con un tonfo, poi mi calo anche io e lo raggiungo alla sosta sotto il tetto: è fatta, abbiamo terminato un'altra via nuova e ci congratuliamo vicendevolmente, adesso la discesa è pura formalità, visto che siamo allo stesso punto della volta precedente. Il racconto potrebbe anche terminare qui, semplice, asettico, normale se non fosse per quell'azione taciuta in precedenza che adesso arriva a mostrarsi in tutta la sua drammaticità, una cosa così piccola ma dalle conseguenze così grandi; naturalmente non occorre specificare che le disgrazie arrivano sempre ben accompagnate.
Per disgaggiare la parte superiore, Moreno ha passato le corde dietro uno spuntoncino in modo da tenerle in linea con la fessura, senza pensare che, mentre al terrazzo di sopra avremmo avuto qualche possibilità di recuperarle perché molto vicini alla malefatta, adesso eravamo troppo in basso per tentare una qualsivoglia azione. Infatti, proviamo a tirare giù le corde per proseguire la discesa ma esse non si muovono di un millimetro e, in coppia con questo fatto disdicevole, si aggiunge il fatto che la pioggerellina di prima diventa torrenziale. Non è condensa, ne un semplice piovasco, è una tempesta in piena regola e noi siamo nell'epicentro, incapacitati a muoverci, le previsioni hanno fallito in toto; inoltre sta per arrivare anche il buio, l'ingrediente finale per la tragedia. 
Fortunatamente il tetto ci tiene relativamente all'asciutto e possiamo perseverare nei tentativi di sbloccare le corde che però vengono sistematicamente frustrati. La disattenzione è stata grave, il compagno non ricorda nemmeno quale delle due corde bisogna tirare e così tento una risalita disperata con i risalitori: faccio bloccare a Moreno la corda opposta sulla sosta e mi avventuro sull'altra ma, fatti cinque metri, sono sfinito, in parte per la giornata, in parte per la cascata che mi arriva in faccia e in parte perché i risalitori scivolano lungo la fune bagnata e tesa. 
Non c'è nessuna speranza che riesca a risalire fino al punto di incastro e tentare un'azione più risolutiva, almeno non prima del buio completo. 
Torno a malincuore alla sosta e tolgo gli attrezzi, la tensione me ne fa schizzare uno via e lo vedo sparire nell'oscurità del baratro. Guardo le corde sotto di noi, al punto in cui siamo ne abbiamo abbastanza  per calarci di tiro in tiro perciò la soluzione al dramma non può che essere una sola: tagliarle e proseguire la discesa con ciò che rimane. Detto e fatto proseguiamo verso il basso, sotto un fiume in piena di pioggia, cascate di acqua e fango, quasi che la montagna si fosse scatenata contro di noi per aver osato profanare anche il suo ultimo angolo intatto.
Arriviamo alla base completamente fradici, l'unico pezzo asciutto è il trapano che è conservato nello zaino in una busta di plastica; recuperiamo gli spezzoni sopravvissuti e scendiamo di corsa sotto l'imperversare del temporale arrivando alla macchina esausti e con la rabbia per le corde buttate. L'unico dato positivo è che la via è finalmente completa. La nostra disavventura mi rimanda con la mente a un libro che avevo appena letto di Inoue, scrittore giapponese, che narrava un fatto simile al nostro occorso negli anni '50; quale nome quindi poteva essere più appropriato de "la corda spezzata" per la nostra nuova via?

Qualche tempo dopo Moreno e Bruno tornano sulla via per finire la pulizia e tentare il recupero di quello che ci era caduto la volta precedente ma ottengono il risultato di perdere la piccozza, tagliare altre due corde nuove per un errore accorso segando un ramo e far cadere ancora qualcosa, in poche parole la maledizione del Campetto colpisce ancora.

La corda spezzata primo tiro
Il primo diedro


La corda spezzata secondo tiro
Apertura della difficile placca del secondo tiro

La corda spezzata lo strapiombo
Lo strapiombo chiave della via

La corda spezzata fessure
Lungo il diedro



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mercoledì 17 maggio 2023

PICCOLI RACCONTI SOTTO AL CASTELLO - Episodio 1

 PICCOLI RACCONTI 

SOTTO AL CASTELLO

Ascensioni a Rocca Pendice

Ep. 1


In questo momento (Maggio 2023) in cui è ritornato "maggembre" e si intravede la fine della lunga siccità che ha attanagliato l'Italia fin dai tempi dalla pandemia, ripenso con affetto al monte di casa, il caro, vecchio Rocca, su cui ho vissuto veramente tanti momenti. Così mi è venuta voglia di ricordarli, anche perché, questa piccola fortezza situata al centro dei Colli Euganei in provincia di Padova, proprio al centro della Pianura Padana, è stata la salvezza di interi fine settimana per molta gente.
Rocca Pendice è un po' casa, un posto da cui magari si può stare lontani a lungo ma a cui prima o poi si torna sempre, anche con un po' di nostalgia e dove a volte vi si trovano delle novità, qualcuna simpatica e qualcun'altra meno.
Del mio primo approccio ho già parlato qui, quelli che seguono sono altri episodi non necessariamente in ordine cronologico, che si sono svolti negli anni successivi. Il Rocca Pendice è stata non sola la prima "montagna" ma anche un luogo per sperimentare e perfezionare l'uso del materiale, le manovre e i movimenti che poi sono venuti buoni in situazioni ben più stressanti.

LO SPIGOLONE

E' a mio avviso la più bella via del Pendice (la descrizione la si trova qua), percorsa sovente anche dai corsi CAI e riservata agli allievi più bravi, anche se per un periodo ha subito una forte decadenza.
La tentai subito la prima volta che misi piede a Rocca con Stefano, per provare l'ebbrezza di una via a più tiri, non ricordo esattamente il contesto, ma ricordo perfettamente che ero più una macchietta (o meglio uno scemo) che un rocciatore: pantaloncini corti riciclati da un ex costume da bagno, scarpette d'arrampicata larghe come ciabatte per cui assomigliavo più a Charlot, una manciata di rinvii e uno spezzone di corda regalatomi da mio padre, che a sua volta era stato infinocchiato dal venditore che gli aveva rifilato un inutile spezzone da neanche 20 m, e anche un friend (il BD rosso per l'esattezza, lo stesso che mi cavò fuori d'impaccio nel camino Carugati).
Conciato in questo modo grottesco mi avviai su per la ripida placca con cui inizia la via, sotto gli occhi dubbiosi di uno Stefano che già aveva subodorato cosa stesse per avvenire ma che comunque provava ad infondermi fiducia nel destino.
Risalii in modo elefantesco il primo balzo fino all'enorme anellone che sbuca dalla fessura che si doveva afferrare e poi mi avviai lungo un breve traverso a destra del tutto strapiombante, passaggio che mette tutt'ora alla prova le cordate che prendono lo Spigolone sottogamba. Infilai la mano dentro un buco con un rovo (a volte compare, altre volte lo estirpano), mi inarcai a destra ad afferrare una tacca per trovarmi a gambe divaricate spalmato sulla placca spanciante e abbandonato completamente alle braccia: oltre al dolore provocato dalle spine sentii anche una profonda ondata di calore pervadermi, con i tricipiti che erano in procinto di esplodere. Provai a buttare il bacino più a destra ma continuavo a sentirmi precario, provai ad allungare la mano ancora più a destra ma niente.
Mi portai di nuovo a sinistra sull'anellone, guardando in tono supplichevole Stefano ma senza avere il coraggio di cedergli il passo, dopo tutto ero io l'esperto, mentre lui mi guardava immobile con l'espressione di chi stia osservando i babbuini allo zoo.
Nel frattempo sopraggiunse un'altra cordata, due uomini di mezza età che ci guardarono come si guardano i sopravvissuti alla disfatta dell'Armir sul Don e ci offrirono il loro aiuto per superare la placca. Grazie ai loro rinvii e salendo come se fossi Tarzan potei raggiungere una stretta cengetta dove vi era una sosta posticcia con un cavetto metallico e decisi di fermarmi, anche perché il nostro spezzone di corda era fortemente limitante. Gli altri due intanto proseguirono a grande velocità e sparendo dopo un po' alla nostra vista. Recuperai Stefano che salì molto lentamente e ci appollaiammo sulla cengetta pensando al da farsi, in verità un po' scossi visto il battesimo del fuoco appena ricevuto. 
All'improvviso echeggiò un urlo selvaggio, di quelle urla che gelano il sangue nelle vene e che lasciano intendere perfettamente che sia successo qualcosa di grave: uno dei membri della cordata di prima era caduto dalla parte superiore della via ed era volato per l'intera lunghezza della corda disponibile arrivando a poca distanza da noi. Fortunatamente era caduto oltre il bordo dello spigolo finendo a penzolare nel vuoto (avrà fatto 50 m di volo!!!) e senza toccare la roccia, cavandosela solo con un gran spavento.
Fu chiaro a quel punto che non era cosa saggia insistere con la via e buttammo una corda doppia disarrampicando poi le ultime roccette perché lo spezzone non era sufficiente.

Io e Stefano tornammo l'anno successivo, dopo la salita della Carugati, con una corda degna di questo nome e più equipaggiamento e anche molta più motivazione. Era primavera, faceva caldo e mi ritrovai nuovamente alle prese con la famigerata placca. Ricordandomi più o meno cosa avevo fatto la volta precedente affrontai nuovamente lo strapiombo spostandomi a destra ma ancora una volta venni respinto. Riprovai ancora, questa volta senza usufruire della fessura con l'anello ma del solo buco e sfruttando un appoggio più giù: mi resi conto che avevo fatto una fatica del diavolo per nulla quando alla fine era sufficiente restare un po' più bassi. Raggiunsi la cengetta della volta precedente dopo una gran fatica e recuperai Stefano a cui cedetti ben volentieri il comando e che risolse il passaggio successivo con il suo proverbiale "colpo di anca" per poi sparire al di sopra di un doccione. Giunsi in sosta, la vera prima sosta e trovai l'amico bellamente al telefono intento a subire improperi da parte della propria ragazza, la quale trovava la nostra uscita del tutto inconcepibile. 
A me gli improperi della mia erano già arrivati la sera antecedente, con un promemoria di prima mattina!! Eh, a quel tempo eravamo giovani ma per fortuna dagli errori si impara.
Stefano riprese la via verso l'alto affrontando il bellissimo diedro del secondo tiro, bestemmiando giusto un poco nel superamento del tettino, poi lo raggiunsi con abbastanza disinvoltura. 
Mi toccò il tiro lungo il camino seguente, che richiedeva una scalata più da panzer nelle steppe russe che un'arrampicata ma lo superai e mi ritrovai su un terrazzino sotto il passo chiave della via: un corto diedro strapiombante che richiede aderenza su placche lisce, protetto solo da un chiodo resinato mal posizionato. Provai ad innalzarmi infilando le mani nella fessura di fondo ma, quasi alla sommità il piede mi scivolò sulla placca e restai incastrato solo coi pugni. Ritentai ancora la fessura provando a fare più forza col piede ma scivolai ancora, così mi sfilai uno dei soli tre friend che avevo (due in più rispetto al tentativo precedente) per notare, con orrore, come questo fosse troppo piccolo e che restasse a malapena appoggiato nella fessura, giusto nell'unico posto dove potevo piazzare le mani. 
Scesi al nuovamente al chiodo un po' scazzato e cercando un modo per superare l'ostacolo e provai a buttare l'occhio a sinistra, oltre lo spigolo e notando un altro diedro coperto dal fogliame e dai rami. Provai a raggiungerlo, muovendomi come una fata su una cengetta coperta di muschio ma venni inesorabilmente trattenuto dall'attrito pazzesco della corda contro lo spigolo.
E' necessario specificare che, anche allungando il chiodo con un cordino, la corda faceva il medesimo attrito? Ma certo che no, le disgrazie viaggiano sempre a coppie.
Non ci fu che una soluzione: recuperai Stefano sul chiodo e lo spedii ad esplorare il diedro nascosto, malgrado mi maledicesse in una lingua arcana e oscura (oggi la variante che evita il passo difficile è ben ripulita, ma allora non lo era). Io nel frattempo mi appollaiai comodo su un alberello, seguendo le sue mosse con attenzione e spiegandogli dove sarebbe dovuto andare quando mi accorsi di aver disturbato la quiete di un formicaio e vidi con orrore le legittime proprietarie dichiararmi guerra.
Quasi a vendicarsi dell'ulteriore fatica a cui lo sottoponevo, Stefano se la prese molto comoda, un passetto alla volta con molta calma; anche il recupero della corda alla sosta fu fatto con tutta tranquillità, mentre io combattevo la mia lotta personale contro l'Armata Rossa.
Quando finalmente mi diede l'ok a salire, lo raggiunsi come un razzo e con un "leggiero" prurito addosso. Scalai l'ultimo facile tiro e insieme sbucammo sulla cresta sommitale del Rocca, proprio sopra la falesia, con la soddisfazione di aver portato a casa una bella via.

2020

Riaperte momentaneamente le gabbie dalle clausure della pandemia di Covid, incontro Stefano mentre è di passaggio a casa, in riposo da una delle sue peregrinazioni. Insieme ricordiamo i vecchi tempi e notiamo come siano dieci anni esatti che arrampichiamo insieme, un po' a fasi alterne. Bisogna dunque festeggiare, e quale posto se non dove è tutto cominciato, ossia Rocca Pendice?
La scelta più ovvia sarebbe stata la Carugati ma Stefano ha un legame particolare con lo Spigolone e così la scelta cade su questo. L'amico non è in forma mentre io sono al massimo, dopo essermi sciroppato mostruosità come Dark Angels, la Zonta-Gnoato e altro perciò andrò io da primo su tutti i tiri.
Fa caldo, è pomeriggio inoltrato ma tutto sommato è ventilato e si riesce a scalare in scioltezza. La prima placca, che dieci anni prima ci aveva fatto penare ridimensionando grandemente il nostro ardimento, me la lascio alle spalle senza nemmeno accorgermene; l'amico mi segue senza fiatare ma ritrovando il piacere della roccia. Poco dopo anche il secondo tiro è passato e subito sono impegnato col terzo, quello col famigerato diedro. Arrivato sotto il punto incriminato risalgo la fessura e piazzo un friend per proteggere il passaggio, questa volta più grosso del tentativo precedente ma, quando lo carico per fare il passaggio, vedo inorridito l'aggeggio sfilarsi dalla fessura e per poco non finisco a disintegrarmi le gambe sul terrazzino. Niente da fare, ci vuole una camma ancora più grossa.
Nessun problema, aggiro nuovamente l'ostacolo a sinistra e recupero la corda in sosta. Quando alzo lo sguardo e faccio per chiamare l'amico vedo un muro opaco e grigiastro, dietro cui i colli svaniscono: sta arrivando un violento temporale estivo ed è appena dall'altra parte della valle. Urlo al compagno di darsi una mossa e di tirare tutto ciò che gli capita a tiro ma il poveretto è fuori allenamento e fa quello che può. Il temporale nel frattempo si avvicina e lambisce le case di Castelnuovo. 
Stefano finalmente raggiunge la sosta e vi si aggancia, io riparto senza nemmeno attendere che mi assicuri, tanto sono roccette facili e per di più le conosco e, nel giro di un paio di minuti sono già alla fine del tiro, mentre il vento alza turbini di polvere accecante. Recupero il compare ad ampie bracciate, quasi a tirarlo su di peso e, riunitici, ci sleghiamo. Con pochi balzi superiamo anche le ultime rocce che ci separano dal sentiero di discesa; intanto cominciano a cadere i primi goccioloni. Guardo il compagno leggermente spaesato e gli grido di seguirmi imperterrito, non abbiamo nulla per coprirci dalla pioggia (e forse dalla grandine) perciò bisogna correre; perciò via, lungo il sentiero della falesia mentre il muro d'acqua divora anche la vetta del Rocca. Corriamo senza voltarci indietro e sbuchiamo sulla strada di Castelnuovo dove avevo fatto sapientemente parcheggiare Stefano per accorciare la discesa.
Arriviamo alla macchina, apriamo il bagagliaio e immediatamente si scatena il finimondo; appena in tempo!! Sembra quasi di essere sotto un idrante da quanta acqua viene giù dal cielo in un colpo solo.
Torniamo a casa con l'anniversario del nostro sodalizio in tasca, contenti e soddisfatti.

2022

C'è brutto tempo in montagna e io e Bruno ripieghiamo su Rocca Pendice, dato che lui non ci ha mai arrampicato, una domenica con un affollamento pazzesco. Quel giorno decidiamo di concatenare più vie e partiamo dai Diedri delle Nebbie per passare poi allo Spigolone e ai Diedri Bettella. Questa volta porto il friend 3 BD, sapendo che ci toccherà il famigerato diedro. E' quello giusto e con una pressione su una piccola tacca che la volta prima non avevo visto finalmente anche il tratto chiave è passato, pulito!

Rocca Pendice Spigolone
Lo spigolone

lo Spigolone
Nel diedro del secondo tiro

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domenica 14 maggio 2023

FINO ALL'ULTIMO RESPIRO - via Zonta sul Col Molton

 FINO ALL'ULTIMO RESPIRO

La via Zonta-Gnoato-Bertan al Col Molton

Appena passata la scampagnata sul Monte Caliano, che malgrado tutto ci aveva regalato una bella giornata di vero alpinismo, viene il mio turno di lavare il cervello agli altri due. 
Cerco qualcosa che sia all'altezza delle aspettative e che soprattutto sia difficile fino all'esasperazione dato che sennò mi dicono dalla cabina di regia che non c'è il divertimento. Cerco quindi di coniugare la comodità alla bestialità e so che la Valsugana fa al caso in questione. 
Il diavolo che è in me mi fa tornare alla mente una via che avevo adocchiato anni addietro e  che si trova giusto alle spalle di Cismòn, su quell'altura brutta a vedersi che si chiama Col Moltòn (richiama qualcosa di fangoso, chissà perché eh, anche se avrò occasione di ricredermi) e che era da poco stata riattrezzata per poterne permettere la frequentazione (magre speranze).
Sapendo come far radicare un'idea nella testa dei miei sventurati compagni di viaggio manipolando le loro menti, scrivo a Moreno mandandogli uno schema della via un poco vago e disegnato con le linee tutte storte come un bimbo e nel mentre lo rassicuro mefistofelicamente sul fatto che la via sia chiodata ravvicinata, comoda e che sia l'occasione per fare valere l'allenamento accumulato fino a quel momento. 
L'entusiasmo si accende immediatamente, ho toccato le corde giuste e "l'amico fritz" coinvolge subito anche Bruno, il quale però fiuta che c'è qualcosa che non va. Non posso lasciarmi sfuggire l'occasione e così lo rassicuro prontamente sul fatto che conosco bene la zona e che per un po' di difficoltà possiamo invece apprezzare la comodità del rapido accesso e dell'ancora più comodo rientro in corda doppia. Questi fatti fugano immediatamente tutti i dubbi e la domenica siamo a Cismòn, con i due compari che già pregustano la salita pensando che si tratti di una vietta sportiva con giusto qualche passaggio che gli farà grattare il capo più del solito. Io, purtroppo, conosco la Valsugana e sento, anzi so che ci saranno delle sorprese di lì a poco ma non dico nulla, un po' perché ho voglia di misurarmi con la salita, un po' per non spegnere l'entusiasmo dei compagni che sono così carichi.

Dopo la solita colazione al bar, ci portiamo in breve all'attacco della via, un po' nascosto in un minuscolo boschetto: la partenza consiste in un camino verticale, un po' sporco di terra e foglie e che richiede i piedi di piombo. Moreno parte direttamente con la marcia innestata per poi rallentare bruscamente come un treno di fronte al capolinea appena arriva sotto uno strapiombo; qualche sbuffo, una bestemmia e tra larghe spaccate e un paio di bracciate, riesce ad intrufolarsi dentro il camino sgusciando poi sul lato opposto dello sperone che lo forma. Seguiamo io e Bruno, col sottoscritto che si incastra nello stretto camino a causa dello zaino e che è costretto ad uscirne strisciando come un verme.
Ci riuniamo alla prima sosta e malgrado la titubanza iniziale il proseguo dell'itinerario pare promettente; riparte Bruno per la prima lunghezza sulle placche nere (valgono da sole un giro in Valsugana), c'è ancora dell'esitazione a causa di un passaggio obbligato proprio alla partenza ma poi prende il ritmo e risale tutta la placca, poi seguiamo io e Moreno. Io tiro anche fuori le "scalette" per risparmiare energie preziose per la parte alta che, a prima vista, sembra mostrare una certa severità, sovrastandoci arcigna e possente, sento infatti una vocina che mi dice che da lì a poco ne vedremo delle belle.
Anche le due lunghezze successive scorrono via veloci e ben presto arriviamo sulla grande cengia mediana, ormai alti sopra le case di Cismòn: il posto è incantevole, sotto di noi le case del paese che sembrano dei modellini, il sole ci tocca di striscio perché la parete è rivolta a nordovest e siamo tranquillamente appollaiati sull'erba in una gigantesca nicchia mentre in lontananza scorrono placide la tangenziale e il Brenta, i cui rumori arrivano appena quassù.

Guardo verso gli enormi strapiombi che ci sovrastano e intuisco il passaggio successivo attraverso un diedro sbarrato da un tetto, poi osservo gli altri e mi rendo conto di cosa sta per accadere: sono l'unico ad avere le staffe (le famigerate scalette) e ovviamente non ho nessuna intenzione di dividerle; il primo di cordata sarà enormemente agevolato dai chiodi ravvicinati, potendo sfruttare la trazione esercitata dal secondo che lo mantiene in posizione, a guisa di carrucola e quindi può cavarsela a buon mercato. 
Ma il secondo di cordata? 
Non può usufruire della tensione della corda, anzi la sporgenza contribuisce a farlo penzolare nel vuoto, col rischio che si distacchi dalla roccia e non sia più in grado di toccarla. Uno stallo del genere, se non si è più che preparati a gestirlo, può finire male.
Guardo ancora verso il tetto, è piccolo e non sporge poi tanto, i chiodi poi sono molto vicini, dato che parte Moreno rinuncio a un po' di comodità e porgo a Bruno uno dei miei cordoni, così che possa mantenersi attaccato ai chiodi mentre sale.
Il tiro di corda si rivela assolutamente estenuante e Moreno lo vince con molta fatica, dapprima issandosi su chiodi che sembrano avanzati da una rapina in ferramenta, poi sbuffando e contorcendosi per scavalcare un naso sulla destra e immettendosi nel diedro con un passo elefantesco, sparendo in seguito alla nostra vista.
Dopo un po' arriva il fatidico richiamo e lascio partire Bruno che inizialmente si trova un po' impacciato a gestire il coordinamento cordone, moschettoni e salita; io lo seguo serratamente e lo correggo sulla manovra cosicché riesca a prendere il ritmo e a superare l'ostacolo del tetto. L'azione riesce e poco dopo si trova oltre l'ostacolo. 
Arrivo anche io, invero senza troppo sforzo fino a quando scavalco il nasetto e mi immetto nel diedro dove c'è un passaggio obbligato abbastanza burbero; lo faccio, mi parte giustamente l'appoggio da sotto il piede e resto appeso con le mani riuscendo poi a issarmi con la forza disperazione, impiegando notevoli risorse per vincere il diedro obliquo e strapiombante, raggiungendo poi la sosta senza fiato. 
Ci accomodiamo sulla stretta cornice di sosta guardando verso l'alto: il diedro strapiombante continua presentando un rigonfiamento molto marcato quasi al suo termine, si vedono dei chiodi un po' distanziati che seguono la linea dello stesso.
Mentre gli altri due sono indaffarati io studio il passaggio; ho come il sentore che questo sarà peggio di tutto quello che abbiamo trovato in precedenza. Guardo gli altri: Bruno è momentaneamente cotto dallo strapiombo precedente, Moreno conserva ancora delle energie o ci fa credere di averne ancora. 
Potrei andare io che sono quello messo meglio ma vengo preceduto ancora una volta  da Moreno che si butta a capofitto verso l'ignoto per il bene collettivo; inutile dire che non rivolgo nessuna obiezione, dato cotanto ardore.

Comincia a salire lentamente lungo il diedro, molto più lentamente di prima; questa volta non è più un'arrampicata ritmica e di ragionamento, ma forza bruta concentrata nella rotonda fessura che a mano a mano sporge sempre di più nel vuoto. Dà quasi un senso di protezione, di ambiente raccolto, che avvolge e isola dal mondo esterno nascondendone le insidie, almeno fino a quando qualcuno non guarda giù e si rende conto che si ritrova centinaia di metri di aria sotto i piedi.
Moreno guadagna il diedro centimetro dopo centimetro con grande sforzo, non ha nemmeno l'energia per bestemmiare; arriva sotto la pancia dove la fessura si allarga e ci si trova penzolanti verso l'esterno: il prossimo chiodo è lontano, le pareti del diedro lisce e la fessura molto arrotondata, troppo per fare ben forza con le mani. Prova a puntare i piedi e si lancia verso il chiodo ma non riesce, il piede scivola; prova ancora ma non si slancia abbastanza e si abbandona di peso all'ancoraggio sottostante. 
Io e Bruno lo guardiamo con una certa apprensione, il nostro guerriero che viene respinto così dalla rupe è un pessimo segno. Resta appeso in quella posizione per qualche istante, come arreso ad una forza più grande di lui, poi, in un ritorno di fiamma di italica virilità, adocchia un appoggio minuscolo sul labbro del diedro, ci appoggia il tallone e con una contorsione di braccia spalma il piede destro sotto lo strapiombo alzandosi poco a poco, fino ad arrivare a portata del chiodo. Rapidamente Moreno sfila un rinvio (moschettoni), si lancia sul chiodo e questi entra al volo, mentre mantiene saldamente la presa. E' fatta! Il durissimo passo nel cuore degli strapiombi è vinto. Arriva alla scomodissima sosta successiva e ci chiama guardandoci con aria sfinita, come di chi avesse trasceso la sua condizione umana di prigionia nella carne dando l'ultimo respiro nello sforzo per uscirne.
Adesso però viene il bello.

Dopo che "l'amico fritz" si è sistemato io e Bruno ci mettiamo in marcia. Gentilmente gli riporgo il cordone ma stavolta lo rifiuta e parte a razzo lungo il diedro compiendo ampie bracciate e senza curarsi dello sforzo fino a ritrovarsi a metà completamente appeso nel vuoto. Io lo seguo con un po' più di malizia, facendo ampio uso delle staffe perché so che di lì a un momento lo spettacolo si farà avvincente, però non posso neanche essere da meno e quindi velocizzo la marcia stando alle calcagna del compare.
D'un tratto Bruno tenta di superare di slancio la pancia che aveva sfibrato Moreno solo poco prima e, data la distanza degli ancoraggi, si ritrova catapultato in fuori non riuscendo minimamente a tenere la fessura di fondo. Prova alcune volte ma l'aggetto è eccessivo e non riesce a stare aggrappato, poi si arrende, si stacca dalla roccia e resta lì appeso con la rassegnazione di chi ha dato tutto. Io sono immediatamente sotto e assisto al concretizzarsi di quello che temevo, una situazione di stallo, in cui si è impossibilitati tanto a scendere quanto a salire.
Fortunatamente la nostra cordata è composta di tre persone ed è in casi come questo che il terzo gioca un ruolo fondamentale, conservando lo spirito, le forze e il raziocinio necessari a trarsi d'impaccio e infatti il mio ruolo risulta decisivo.
Mi si presentano due opzioni per risolvere la questione: una è quella di scavalcare Bruno e porgergli una delle mie staffe su cui possa issarsi con tranquillità ma vengo scoraggiato dal fatto che lo spazio è assai angusto e me lo ritroverei di peso addosso finendo per ingarbugliare la situazione già di per sé non facile. L'altra idea è quella che risulta vincente: egli ha appesi all'imbrago un paio di friend (camme meccaniche a incastro) e uno di questi è della misura giusta, così gli grido di infilarlo nella fessura e usarlo per tenersi quel che basta ad acchiappare il famigerato chiodo e dare modo a Moreno di recuperare la corda.
Bruno mi guarda con gli occhi di chi ha avuto un'epifania, sfila il friend, lo incastra nella fessura facendo attenzione che non gli scappi di mano e da uno strattone possente riuscendo nuovamente ad avvicinarsi alla roccia poi, con una mossa che non mi so spiegare, balza ad afferrare finalmente il chiodo risolutivo superando il passaggio e arrivando in sosta con la fierezza del fante sull'Isonzo. Io sopraggiungo con tutta tranquillità poco dopo. 
Sempre Bruno riparte immediatamente per togliersi dalla sosta stretta e scomodissima in cui siamo; seguono ancora dei camini stretti, strapiombanti prima di uscire su un minuscolo terrazzino sul ciglio della parete, fuori dalle difficoltà.
E' ormai sera e siamo allucinati dalla fatica e dalle difficoltà affrontate.
Ci apprestiamo a gettare le corde doppie lungo la via che giustamente riserbano ancora delle emozioni come l'enorme pendolo che fa Bruno quando leva un ancoraggio che serviva a direzionare le corde, volteggiando libero sopra i tetti di Cismòn.
Arriviamo alla macchina che è ormai notte, guardandoci negli occhi e pensando che mai, fino ad allora, avevamo affrontato una via tanto mostruosa.



Col Molton
Il Col Moltòn alle spalle del paese di Cismòn del Grappa

placche sulla Zonta

placche del Col Molton
Sequenza lungo le placche nere

tetto sulla Zonta
Il tetto dopo la grande cengia

diedro della via Zonta
Il famigerato diedro



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