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giovedì 20 aprile 2023

MONTE CALIANO - Ossia dell'arte di infognarsi in posti insignificanti

 MONTE CALIANO

Ossia dell'arte di infognarsi in posti insignificanti


Moreno si ritrova con del tempo libero a disposizione, forse un po' troppo tempo libero, così per passarlo comincia a scrivermi e mandarmi foto di questo sasso a forma di patata che s'appella Monte Caliano, una montagna che francamente non saprei nemmeno se appartiene alla Terra. Comincia prima in sordina, poi a menzionare più volte la parola "spigolo", poi inizia a mandarmi le foto di questa cresta, che non mi dicono poi molto ma che forse potrebbe avere un interesse, poi ancora mi tampina sempre più forte convincendomi che potrebbe avere sette o otto tiri belli di cresta e così finisce per lavarmi il cervello e convincermi ad andare a ficcanasare.
Moreno coinvolge anche il solito Bruno che viene, almeno in apparenza, ben convinto di quel che apprestiamo a fare (mmm, che fiducia cieca!), così la solita macchina alpinistica si mette in moto e, dopo la solita colazione a Valli del Pasubio, andiamo a Sella Novegno. 
C'è però una variante nella routine: a differenza delle altre uscite, questa volta non ho consultato le previsioni del tempo la sera prima, tanto siamo in tre e quindi almeno uno degli altri avrà controllato (ancora più fiducia!), poi il clima è secco, caldo e siamo a ridosso della pianura, cosa mai potrebbe andare storto?!

Dalla Sella Novegno imbocchiamo un bel sentiero riposante che taglia il versante passando sotto uno sperone del Monte Riòn e poi comincia a scendere in ripide svolte. Dopo un paio di queste, Moreno, al grido "conosco la strada" esce dal sentiero e comincia a tagliare il bosco in orizzontale, senza una méta ben precisa, l'importante è solo non perdere quota. 
Solo che il bosco è un pochettino ripido, il sottobosco folto e i rami, che sono cresciuti indisturbati per decine di anni, ostacolano l'incedere in modo un pochetto fastidioso. Siccome le disgrazie non vengono mai sole ecco che da valle monta anche la nebbia, una nebbia fitta e fredda che in pochi minuti infradicia tutto e tra i meandri della foresta si sentono anche i passi strascicati della Piramide di Silent Hill.
Moreno, come un fante d'Italia, procede petto in fuori con la sua scorciatoia fino a quando becca una traccia che risale in mezzo a tronchi bagnati e su un pendio di ortiche. Ovviamente mi pare superfluo dire che per superare i tronchi bisogna aggrapparsi proprio alle ortiche, con Bruno che brontola e io che sto seriamente pensando a un TSO. Inutile anche dire che ogni passo nella selva richiede anche un'attenta ispezione anti-zecche che rallenta di molto la marcia. 
Dopo un tempo indefinito passato in quell'incubo arriviamo a un ghiaione; piuttosto che ravanare ancora ancora selva meglio faticare sulla ghiaia perciò prendo il comando e comincio a risalirlo. Gli altri due mi urlano che sono fuori strada ma io continuo ad andare avanti e in cima al ghiaione raggiungo i resti di una vecchia mulattiera, ormai sepolta dall'erba. Finalmente un passaggio in cui tenere almeno i piedi orizzontali.
Bruno prende l'iniziativa e segue la strada fino ad una cresta, nella nebbia non capisce dove si trova e scende un po' in mezzo alla selva per trovarsi di punto in bianco sopra un burrone; niente da fare, si continua a seguire la mulattiera che poco oltre scompare in un prato. Seguiamo il prato che si mantiene a ridosso di una parete rocciosa, senza aver bene chiaro in che punto siamo, quando ad un tratto arriviamo su un crinale di mughi, al di sotto del quale si apre la valle: abbiamo attraversato praticamente tutto il Novegno per arrivare fin lì, dopo circa due ore di lotta con la natura primordiale infradiciata e fangosa. 
Un breve momento in cui le nubi si diradano e possiamo vedere come lo spigolo del Caliano si eriga esattamente sopra di noi, mentre sotto di noi si scorge un capanno con un comodo sentiero che vi arriva; vorrei coprire di insulti Moreno e le sue tagliate nel bosco ma sono momentaneamente concentrato su quello che ci sovrasta.

Ci sistemiamo alla bell'e meglio in cima al prato, dove un chiodo segna l'inizio della nostra via, mentre la nebbia torna a ricoprirci e a infittirsi ancora più di prima penetrando fino nelle ossa. 
Parte Moreno che scala un diedrino estremamente rotto, io e Bruno lo seguiamo cercando di indovinare qualcosa nel grigiore: sale con molta fatica perché le rocce sono instabili, specie un grosso spuntone a forma di incudine che invita un piede malaccorto a posarvisi sopra, poi sentiamo battere un chiodo, una bestemmia, un altro chiodo e infine un "bon, faccio sosta qui".
Altri chiodi tintinnano nella roccia e poi finalmente arriva il richiamo: parto io e lascio a Bruno il compito di levare i chiodi lungo il diedro, arrampicandomi come se fossi sulle uova per evitare di scaricargli sassi addosso quando all'improvviso risuona un fragoroso boato che probabilmente sarà stato udito anche a Sella Novegno: Bruno ha messo il piede sul pilastrino, che cadendo ha coinvolto un macigno, che rotolando ha cavato una crosta, che scendendo ha mosso dei sassi, che alla fiera dell'est mio padre comprò.
Guardiamo i sassi rotolare giù lungo il prato dove eravamo prima e scendere giù infondo fino al sentiero, il crepitio dovuto al loro rotolamento dura per alcuni secondi; "così ho fatto pulizia" mi dice Bruno.
Ci riuniamo alla stretta sosta su una specie di cornice sotto un pronunciato strapiombo, scomodissima. Parte Bruno, non avendo la più pallida idea di dove andare ma cogliendo il mio suggerimento di piegare verso sinistra dove s'intravedeva un buon terrazzo alla base di un altro salto. Bruno inizia chiodando arditamente lo strapiombo, uno, due, tre chiodi, poi qualche accidente e si trae d'impaccio e traversa a sinistra, ne esce un bel tiro su roccia buona e raggiunge il terrazzo dove ci fa un fischio che è presente una sosta a chiodi. Ripartiamo io e Moreno schiodando il passaggio appena fatto e arriviamo al terrazzo.
Nel mentre facciamo le manovre, sempre in una nebbia fittissima tanto da non vedere a quindici metri, sento una goccia. Lì per lì penso alla condensa, poi ne sento un'altra e ne sentono una ciascuno anche i compagni. Segue un tuono, molto sordo e in lontananza: "massì dai, te vedarè che el va zo par el Pasubio (vedrai che andrà giù verso il Pasubio)" dice Moreno cercando di farsi coraggio; io lo guardo preoccupato e Bruno già si riavvia su per la prossima paretina da cui sbuca un chiodo; non fa in tempo ad alzarsi quattro metri che rimbomba un altro tuono, questa volta molto vicino. 
Estraggo la mantella dallo zaino mentre Moreno mi rincuora "gavèm preso altre volte la piova su in montagna (abbiamo preso altre volte la pioggia in montagna)"; io lo guardo in modo compassionevole replicando un semplice "pure io" e intanto mi avvolgo nella mantella, mentre Bruno grugnisce qualcosa restando aggrappato alla roccia poco sopra. In un attimo, le gocce si trasformano in un torrente e dalla parete cominciano a scendere rivoli di acqua gelida: Bruno è sempre fermo nella stessa posizione, Moreno si chiude l'impermeabile e si rassegna alla lavata mentre io mi accosto alla parete cercando di coprirmi il più possibile, soprattutto lo zaino che altrimenti si trasformerebbe in un bidone in pochi istanti.
Passano i minuti e l'acqua continua a scendere copiosa, mentre i tuoni risuonano molto vicini; io e Moreno ci rannicchiamo come possiamo mentre Bruno sopporta nella sua ingrata posizione (lo so bene che vuol dire, avendo subito la medesima sorte sul campanile Dulfer, vedi qui). 
Dopo un po' i tuoni si allontanano e comincia a scemare anche la pioggia fino a scomparire del tutto; l'umidità risale rapidamente e ci troviamo ben presto nuovamente avvolti nella nebbia. 
Passa ancora qualche minuto e Bruno prova a ripartire, facendo attenzione a piazzare bene i piedi zuppi di acqua sulla roccia ancora umida ma riesce ad avere sorprendentemente una buona presa e guadagna terreno arrivando abbastanza in fretta, date le circostanze, ad un punto dove poter allestire una sosta. Ci chiama e lo raggiungiamo scalando la paretina a larghe bracciate (io per poco non mi tiro addosso un piastrone pericolante dato che la cresta continuava ad essere molto rotta).
Quando arriviamo da Bruno abbiamo un'amara sorpresa: siamo sull'erba, davanti a noi si stende uno stretto crinale di mughi e tra le ombre evanescenti create dalle nebbie si indovina la vetta del monte. Morale della favola: abbiamo fatto tutta questa fatica per una sessantina di metri di arrampicata su sfasciumi; l'abbaglio è totale!
Non perdo tempo, lascio agli altri l'incomodo di sbrigarsela con le corde e mi butto lungo la cresta, seguendo il filo di roccette in mezzo ai mughi e superando anche una profonda spaccatura, alla fine aggiro verso sinistra l'ultima paretina e mi isso sul terrazzo sovrastante trovandomi improvvisamente sotto la piccola croce di vetta del Caliano. E' fatta, la via è già finita. Pochi istanti dopo mi raggiungono anche i compagni che si guardano un po' increduli, incapaci di decidere se essere delusi o passare oltre e annotare un'altra salita fatta. Li incito a decidere qualcosa avviandomi verso la discesa, seguendo una piccola traccia ad ometti che mi permette di aggirare un ripido salto proprio sotto la cima. La nebbia comincia ad alzarsi ma ci perdiamo su una forcella, indecisi su quale traccia seguire; decido arbitrariamente di scendere dalla parte del versante da cui siamo saliti e, alcuni metri più in basso, intercetto nuovamente i resti della mulattiera militare incontrati all'andata.
Mi rilasso pensando che ormai sia finita e che la strada possa portarsi molto vicino al sentiero un poco più a monte ma la speranza viene brutalmente stroncata da un franamento. Superfluo dire che questo fatto ci obbliga all'ennesimo andirivieni nel bosco, dato che non lo avevamo già gustato abbastanza al mattino. Ancora una volta decido unilateralmente per tutti di ripercorrere esattamente la traccia fatta all'andata e dopo poco più di un'ora rientriamo a Sella Novegno che splende il sole, mentre cala dolcemente dietro la Catena delle Tre Croci.

spigolo del Monte Caliano
La partenza dello spigolo

strapiombo sullo spigolo del Caliano
Partenza brutale del secondo tiro

cresta del Monte Caliano
Sull'ultimo tratto di cresta

vetta del Monte Caliano
Vetta del Caliano

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martedì 18 aprile 2023

SASSOLUNGO DI CAMPETTO - Angeli e demoni sulle Tre Croci

 SASSOLUNGO DI CAMPETTO

Via Dark Angels 


Subito dopo il Fratòn è la volta di questa montagna dimenticata che sorge alle spalle della Gabiòla, nei pressi di Recoaro Mille. Qui Moreno e Bruno hanno aperto due vie sportive che salgono dritte la lavagna posta a sinistra del grande pilastro che la contraddistingue.
Vengo trascinato in questa faccenda con fraudolenza dal solito Moreno "massì, xe fazile, tanto basta che te zeri (basta che tiri i chiodi)" perché, dopo l'apertura della seconda via c'è bisogno di una ripetizione e di darle un grado, cavare qualche scheggia rimasta in bilico ed eventualmente mettere qualche cordino.

Il caldo è ancora opprimente ma anche in questo caso la parete è rivolta a nord e le previsioni meteo annunciano un po' di nuvolosità a mitigare la crudeltà delle radiazioni solari. Come di consueto c'è il ritrovo mattutino al bar per la colazione, in centro a Recoaro, poi partiamo alla volta della Gabiòla, un bar posto all'inizio del Sentiero dei Grandi Alberi donde parcheggiamo, ci ri-fermiamo a perdere tempo e solo in seguito ci incamminiamo verso la parete (tanto è vicina...!!).
"Massì, ghe xe vinti minuti par 'rivarghe" (ci vogliono 20 min. pe arrivarci), dice Moreno all'ignaro ospite, omettendo però di dire cosa si troverà in quei 20 minuti, ossia il riassunto di tutti i terreni di montagna e relative infestazioni, meno il ghiacciaio perché siamo in stagione inoltrata (altrimenti anche il ghiaccio sarebbe stata un'opzione), con tanto di lotta coi rami e fango e relativi accidenti a chi ha avuto l'idea malsana di cacciarsi in quei posti che era meglio restassero ai leoni. 

Dopo bestemmie su bestemmie per la lotta con le frasche e il ghiaino arriviamo in una bucolica conchetta alla base della parete, che si presenta come una lavagna giallastra e compatta e che ci aspetta già sapendo i numeri da circo che di lì a poco ci appresteremo a fare.
Parte Moreno che giustamente conosce già i movimenti sul primo e strapiombante muro giallo; io lo osservo cercando di memorizzare come concatenare la sequenza di prese ma poi più in alto mi perdo, ponendo più attenzione alla sicura che sto facendo e ai grovigli di corda (ne pagherò le conseguenze di lì a poco).
Quando Moreno arriva alla sosta, l'immancabile Bruno parte tirandosi baldanzosamente sui rinvii e sale su veloce, dopo viene il mio turno: la via parte con un pronunciato pancione che supero agevolmente avendo visto come fare, poi mi innalzo senza problemi sulla successiva placchetta liscia (passaggio atletico che, verrò a sapere in seguito, ha reso la vita difficile ai primi ripetitori) e comincio ad addentrarmi nel muro giallo. I muscoli sono ancora un po' freddi e la mente non è ancora al massimo della sua concentrazione ma mi innalzo piano piano, su tacchette minuscole che sono sfuggenti anche alle punte delle dita. 
Dopo circa cinque metri di movimenti delicati con ogni fibra in tensione arrivo sotto un tettino formato da una grande lama strapiombante, qui bisogna traversare a sinistra; la corda è tesa tanto da poterla suonare e tende a sbilanciarmi, le mie fibre muscolari sono ancora più tese ma tengo duro; allungo  il piede sinistro per poggiarlo su una rugosità ma scivolo; riprovo ancora ma niente e sto per avere un crampo alle braccia, se mi lasciassi andare andrei a sbattere lungo una sporgenza sulla sinistra e mi troverei poi in difficoltà a risalire la corda. Retrocedo un poco e riprovo, questa volta incrociando le braccia per essere in assetto quando riallungherò il piede sinistro; mi tengo alle piccole tacche con tutte le forze e finalmente riesco a spostarmi a sinistra e a traversare fino a prendere la grande lama. 

Mi blocco; lo sforzo mi ha messo in crisi e mi sento stanchissimo. 
Resto per qualche minuto appeso come un salame con una vocina in testa che mi suggerisce che potrei dire agli altri due di calarmi alla base della via e me ne starei lì spaparanzato ad attendere ma alla fine l'orgoglio prende il sopravvento e riparto aggrappandomi alla lama e raggiungendo la sosta dove i simpaticoni mi aspettano.
Quando arrivo in sosta Moreno mi guarda e mi dice: "ciò 'Sandro, questo l'è almeno un 6c!". Apperò!!! Ecco perché ho avuto un momento di crisi mentre procedevo!
Le lunghezze successive si svolgono molto più tranquillamente, anche perché decisamente più facili; a mano a mano prendo confidenza con la roccia, malgrado aumenti sempre più un certo dolore ai piedi nato a forza di stare sulle punte.
All'ultimo tiro arriva anche un temporale che per fortuna non scarica nulla e alza solo il vento tenendoci finalmente un po' al fresco.
Il resto della giornata non ha storia e trascorre tra i soliti scherzi nuovamente giù verso il mondo,  nell'attesa paradossale dell'alpinismo di poter tornare ancora una volta su, fuori dal mondo.


Sassolungo di Campetto
Il Sassolungo di Campetto

partenza di Dark Angel
La terribile placca iniziale

placche al Sassolungo di Campetto

parte superiore di Dark Angel
Lungo i tiri superiori

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mercoledì 12 aprile 2023

FRATON

 FRATON

Il gioiello del Pasubio

E' l'anno 2020. 
Un anno che rimarrà nella storia contemporanea come l'anno della pandemia di Covid, momento storico che costringe una cospicua fetta di umanità a restare in casa per mesi, durante tutta la primavera. Poco male per me perché per motivi di salute sarei comunque in una pausa forzata e quindi alla fine non perdo nulla, buona scusa per dedicarsi completamente allo studio.

Arriva l'estate, passano i problemi e si attenua anche la pandemia, al punto da poter andare a prendere una "boccata d'aria fresca". E' decisamente inutile dire che, dopo tutte le peripezie del tempo trascorso a casa, posso vantare un fisico da vero pensionato, di quelli che compiono un'impresa da eroi quotidiana per alzarsi dal divano! Però sono anche stufo di stare fermo e di sentirmi inflaccidito, ho bisogno di sentire un po' di forza fisica nei muscoli.
Arriva prontamente il messaggio di Moreno ruggente come il motore di un tank con le candele ammuffite che di colpo viene riacceso: inutile cincischiare, si ricomincia col botto, si va sul Fratòn; d'altronde cosa potrebbe esserci di meglio del ricominciare la vita sportiva se non con qualche bello strappo muscolare, carni matte in ogni centimetro del corpo e un sonno letargico per una settimana? Naturalmente c'è anche Bruno, sono in una botte ferro (ma col fondo di argilla).
Sono assai allettato all'idea perché il Fratòn lo sbirciavo in segreto da molto tempo però sono anche preoccupato dal mio stato psicofisico di uomo appena tratto dall'ibernazione, la cui ginnastica è consistita fino a poco prima nel cambiare i canali della televisione e nell'allenare gli avambracci sollevando una matita. Beh, al diavolo, questa volta arrischio il passo più lungo della gamba, tanto ormai so come trarmi fuori d'impaccio e nemmeno gli altri due aprono le noci coi bicipiti, quindi posso andare in totale relax.

Giusto per presentare un po' il posto, il Fratòn di Sorapache è una bellissima guglia di roccia solida nascosta in un anfratto piuttosto selvaggio del massiccio del Pasubio, visibile per poco solo dalla strada che sale al Passo Bòrcola o che fa capolino dalla vegetazione dall'alta Val Sorapache, lungo un vecchio sentiero militare che sale alle Porte del Pasubio. Pochi sono gli scalatori che si avventurano da queste parti, un po' per l'accesso disagevole e un po' per le zecche, anche se Tranquillo Balasso ha tracciato numerose belle vie sulle pareti della valle.

E' il 6 di Luglio e fa caldo; il tempo è ottimo, soleggiato e caldo, in particolare è umido e caldo (non l'avevo già detto?!) come si confà ad una vera estate padana ma per fortuna la via è esposta a nord. Partiamo la mattina presto con una frugale colazione al bar di Valli del Pasubio per anticipare i turisti che arriveranno per salire la Strada delle 52 Gallerie e ci avviamo tutti e tre a Bocchetta Campiglia scoprendo che siamo intelligenti come, se non meno (molto meno), la media delle persone sulla Terra, infatti siamo in coda per il parcheggio alle 8,00 del mattino. Dopo aver arricchito il mio rosario con i sacramenti fantasiosi dettati dall'impazienza degli altri due finalmente riusciamo a trovare un posto auto in bilico su un fosso, appena oltre il parcheggio e pure a pagamento per evitare che quei demoni chiamati "vigili urbani" puntino giusto alla nostra vettura per arrotondare le finanze comunali. 
Con sforzo stoico per non compiere una strage di ignari turisti con al seguito bimbi frignanti, ci avviamo per la strada degli Scarrubbi, sotto un sole feroce come il lampo di un'esplosione nucleare malgrado sia solo mattina.
Dopo circa 3 km di strada arsa come il deserto di Atacama arriviamo al tanto sospirato terzo tornante donde diparte una traccia ripida e angusta che tagliando il fianco del monte, valica una forcella e scende verso la Val Sorapache: ciò significa che passiamo dalla fonderia alle giungle del Vietnam in meno di 100 m.
Il problema è che noi non siamo Rambo con i Berretti Verdi, anzi siamo bolliti, anzi malediciamo questo posto per esistere, anzi meglio: speriamo in un asteroide che ci porti dritti al Giudizio Finale per aver avuto la splendida idea di venire quassù in estate senza avere una guerra da combattere ma per nostra scelta. Inoltre ci sono le zecche, in agguato tra le fronde dei mughi e l'erba alta, che aspettano solo sangue fresco e ricco di vitamine. 
Mentre gli altri avanzano io faccio una fermata ogni tot passi a controllarmi, sono in pantaloni corti e maniche corte e non penserei nemmeno un istante a coprirmi di più, tra il colpo di caldo e le zecche scelgo le seconde. Per fortuna non raccolgo ospiti lungo il sentiero.

Superata una stretta forcella il Fratòn appare ancora meglio di come lo avevo scorto quella volta dalla vicina Torre Gabrisa: un razzo pronto alla partenza, come il Saturno V della missione lunare Apollo 11, se non fosse per quell'incudine posta sulla sua sommità che gli conferisce l'aspetto di un frate in preghiera.
Ci portiamo sotto la parete nord attaccando la via El Duro, forse la linea più bella e logica della torre, su roccia fessurata magnifica e con una chiodatura parsimoniosa. 
La scalata procede senza interruzioni significative, liscia, grazie all'esposizione a nord e ad una leggera nebbia che mitiga la calura, anche se ho dovuto escogitare un razionamento "intelligente" per l'acqua in modo da distribuirla su tutta la giornata, così intelligente che in vetta mi rimane solamente un sorso per tutto il viaggio di ritorno, rimasuglio che custodisco gelosamente e difendo fino all'ultimo specie dalle zampe fameliche dei due compagni che sono rimasti a secco da un po'.
Infatti arriviamo in cima un po' stanchi, decisamente bolliti, assolutamente rinsecchiti: Moreno non sente più i piedi, ormai ridotti a due fuscelli ritorti, io ho le braccia e le gambe di legno e Bruno parla con San Pietro e gli Apostoli. Buttiamo le corde doppie lungo la via di salita che puntualmente si incastrano ma ormai siamo esperti (e soprattutto poco pazienti) e quindi non è un problema, poi risaliamo penosamente verso la forcella che adduce alla Strada degli Scarrubbi dove io vuoto anche l'ultimo e tanto racimolato sorso d'acqua. Moreno nel frattempo rimane ipnotizzato da una zecca che gli pascola tranquillamente sul braccio alla ricerca di una vena che non trova e che non può trovare perché ormai tutti i liquidi sono evaporati, poi la lancia via con uno schiocco restituendola a quel mondo vegetale infestante dove aspetterà un'altra vittima consapevole ma rassegnata con cui banchettare.
Arriviamo alla macchina con le tenebre, sognando cibo e birra.


Fraton
Il Fratòn

attacco di El Duro del Fraton
Partenza

strapiombo su El Duro del Fraton
Il grande diedro della parte superiore

fessura su El Duro del Fraton
La magnifica fessura al centro della parete nord

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mercoledì 3 agosto 2022

MARTIN MIETTO

V TORRE DEL TRICORNO

Via Martin-Mietto

E' estate, per la precisione l'estate del 2019 e ho voglia di arrampicare. 
Il Covid non è ancora arrivato; in quel momento nessuno immaginava ciò che sarebbe arrivato di lì a poco. 
Telefono al Bocia e gli propongo lo spigolo Soldà sul Cornetto, giusto per muoversi un po' e poi perché con quella via avevo un conto in sospeso. Lui accetta subito in quanto aveva già adocchiato l'itinerario e insieme ci dirigiamo al Pian delle Fugazze. 
Carichiamo il materiale sul groppone, niente pesi da schiavi questa volta e ci incamminiamo lungo il sentiero quando, d'un tratto, con la voce contrita di chi ha rotto la finestra e l'ha nascosta tirando la tenda, egli mi fa presente che ha un dolore ad un piede a causa di un'unghia incarnita. 
Per qualche breve istante sono perplesso, come qualcuno che inserisce i soldi nella macchinetta del caffè e riceve solo un bicchiere con lo zucchero, fisso a terra e poi mi guardo attorno: fa un caldo bestiale, neanche una nuvola e la via che dovremmo percorrere è esposta a sud. 
Non mi lamento, anzi mi sento sollevato perché il pensiero di non avere neanche un po' di nebbia a rinfrescarci mi rende un poco inquieto. Cambio velocemente programma e gli propongo la via nuova di un nostro amico sulle torri del Tricorno, con un avvicinamento decisamente più comodo e ombroso rispetto all'idea iniziale. 
Ci avviamo lentamente su per il canalone di attacco, che ovviamente non è né comodo e né ombroso, anzi è ripido, anzi potrei baciarlo se mi sporgessi un po' con le labbra, meglio: trasuda vapore dall'erba grassa. Dopo un'interminabile ora passata a sudare come reclute della Legione Straniera a causa dell'umidità penetrante, raggiungiamo la base della torre. 
L'amico Fritz guarda la torre dubbioso, non sa cosa fare, è bollito, si nasconde dietro l'unghia incarnita. Io la guardo, col pensiero di dover scendere lungo il canalone e di essere arrivato fin lì per nulla che mi punzecchia come una zanzara vicino all'orecchio, senza avere il coraggio di osare nemmeno qualche passaggio su roccia. 
Sono momenti in cui la nullafacenza si impadronisce di noi e mina fortemente la nostra volontà di agire.
Tutto d'un tratto, mentre confido nella contrazione dell'Universo per il ritorno alla macchina, noto che tra le vie esistenti su questa piccola torre c'è una porzione libera di roccia su una grande placca grigia e, visto che con me ho qualche chiodo, penso che si possa fare un tentativo di aprire una via nuova; la parete non è alta ma è molto estetica, piramidale, di roccia lavorata e verticale.
Convinco il socio con fatica, predicando come Gesù nel tempio, proprio ora che sta imitando alla perfezione Ramsete disteso tra i sassi;  mi lego e mi preparo a partire. 
I primi metri sono facili e non ho problemi a superarli. Subito dopo però il muro si impenna e mi ritrovo con la corda a penzoloni, completamente avvolto dalla nebbia, che nel frattempo è sopraggiunta, ai piedi di un camino gocciolante. Questo tratto è coperto da toppe erbose che con l'umidità sono diventate fangose e la roccia si presenta ovunque compatta. 
Con un po' di fatica riesco a piazzare un chiodo e a sbirciare un po' in avanti: non si vede nulla, a parte un unico e insondabile pallore grigiastro e, se la roccia della placca fosse troppo compatta, si necessiterebbe dei fix per assicurarci a dovere. 
Mi faccio calare fino al compare e torniamo verso il basse facendo il giro del gruppo di torri; in teoria la discesa sarebbe dovuta essere meglio, più percorsa, segnalata e veloce, rispetto al canalone salito all'andata. Ovviamente si rivela un incubo lungo un prato umido e spiovente da percorrere praticamente seduti, fatto che ci fa pensare che sia opportuno attrezzare una discesa lungo il canalone di andata e secondo, che l'autore della guida in cui ho trovato questa torre si diverta a mandare in malora le persone perché è giusto condividere le inchiappettate.

Passano due mesi e torniamo all'attacco: è Ottobre, il clima è più gradevole, la nebbia è più persistente ma perdura l'alta pressione e questa volta partiamo carichi di tutto il materiale necessario, ben decisi ad approfondire il tentativo. 
E' decisamente inutile dire che le bestemmie lungo il canalone di accesso escono dalle nostre fauci più volentieri della volta precedente ma sopportiamo stoicamente per la gloria. 
Arriviamo dopo una fatica da schiavi nella piantagione alla base della guglia e apparecchiamo il "campo base" e facciamo una piccola siesta. Mi riavvio lungo il pezzo percorso la volta precedente con l'artiglieria pesante già armata. 
Alla base del camino, che è bagnato e gocciolante anche questa volta se non di più, entra in azione un bel fix, poi mi innalzo lavorando bene di friend in una fessura e raggiungo un terrazzino alla base della grande placca. La roccia è compatta ovunque, dove pensavo ci fosse una bella clessidra ci sono invece solo due macchie nella roccia e mi sento contento di non aver insistito la volta precedente, perché avrei dovuto recuperare il Bocia e il materiale su un mughetto decisamente robusto, tanto da flettersi sotto il peso dei ragni. 
Piazzati due bei fix e apparecchiato il magro terrazzo recupero il Bocia che piano piano arriva, con calma, molta calma. 
Arriva, deposita il materiale e appollaia in posizione per farmi procedere oltre: la base della placca strapiomba, potrei traversare sulla destra lungo una cornice erbosa ma è un passaggio scomodo, oltre che umido. Sopra la sosta c'è una bella fessura perciò decido di affrontarla coi friend, compiendo un bel passaggio in artificiale, prima di piazzare un bel fix di sicurezza. Compare a questo punto una lama provvidenziale, invisibile dal basso, che mi porta verso destra con dei movimenti delicati (sono anche carico come un mulo) e mi fa scoprire una fessura che nella ricognizione precedente e nelle fotografie scattate non si vedeva affatto. E' una magnifica sorpresa!
Comincio a scalare la fessura, utilizzando i friend e le clessidre che vi trovo e innalzandomi lentamente; la roccia di fa sempre più umida e scivolosa a causa della nebbia, fino al punto di gocciolare; il lichene depositato sopra poi completa la goduria. 
Malgrado questo scalo la fessura un mezzo metro alla volta fino ad un magro gradino con una clessidra. La nebbia è talmente fitta da poter essere tangibile, addirittura mi palpa e la parete è completamente fradicia; a tratti pioviggina. Sono momentaneamente indeciso sul da farsi quando il Bocia mi chiama da sotto: è quasi notte! 
Non mi ero minimamente accorto dello scorrere del tempo, ho proceduto in avanti come una macchina, senza pensieri, concentrato solo sulla progressione. Piazzo un fix con l'intenzione di attrezzare una sosta assieme alla clessidra e mi faccio calare giù, poi entrambi rientriamo alla base della torre. Ci prendiamo una meritata pausa perché l'idea di scendere il vajo sottostante non è una di quello che ti mettono allegria, specie ora che è totalmente bagnato ma, dopo aver sgranocchiato qualche nocciolina che porta un po' di ristoro allo stomaco, mettiamo mano al trapano e ai fix residui e ci avventuriamo verso il basso in corda doppia. Il canalone, coperto d'erba, è talmente bagnato che anche da legati non riusciamo a stare in piedi, si scivola ad ogni passo e solo le corde ci impediscono di scivolare rovinosamente di sotto. Dopo cinque calate nel canale finalmente raggiungiamo il sentiero col buio pesto; io tiro fuori la pila frontale che naturalmente si scarica appena accesa, così sono costretto a fare il sentiero alla luce del telefono. Arriviamo giù alla macchina all'ora di cena, giusti per andare a mangiare qualcosa di caldo. Ovviamente una giornata da manuale come quella vissuta non poteva non avere uno strascico tragicomico e infatti, in modo decisamente inaspettato, una volta inserite le chiavi nel quadro esso si accende come un albero di Natale per poi lasciarci nel buio più completo.
Meglio mantenere un decoroso riserbo su tutto ciò che accade dopo e sul rocambolesco rientro a casa, si lascia all'immaginazione del lettore.

E' il 2020 e arriva il Covid con le conseguenze ben note. In estate la situazione migliora un po' e, al 20 di agosto sono abbastanza allenato per poter tornare a chiudere i conti sulla piccola torre che tanto ci ha dando da penare. Questa volta è con noi anche Piero che con animo nobile ci da una mano col trasporto del ferramenta. Partiamo così nuovamente all'attacco salendo il solito canalone, carichi sotto un enorme peso tanto che sembriamo orsi marsicani appena usciti da un trenino (no, non il treno che viaggia sui binari) ma, citando Tolkien, in tre si è in compagnia.
Dopo un'ora e mezza di interminabile fatica, in cui il socio prende pure uno strappo muscolare per un movimento un po' troppo brusco col carico, arriviamo finalmente alla base della via pregando che sia l'ultima volta. Parto sui tiri già aperti e recupero il Bocia, Piero invece ci aspetta alla base. Ripercorro tutta la fessura della volta precedente e proseguo, decidendo di spostare la scomoda sosta precedente un po' più in alto, su una cengetta. Isso poi il compagno e mi avventuro su terreno gradinato che, malgrado l'enorme peso che mi opprime, riesco a salire senza troppe difficoltà trascinandomi fino alla base della cuspide finale. 
Nel frattempo il cielo si annuvola e scende un'altra stramaledetta volta la nebbia, peggio della  precedente: a questo giro non aspetta nemmeno ad infittirsi, diventa subito buio e pioviggina. Mi trovo davanti a un rebus: i due camini che vedevo dal basso sono occupati da due vie, una a me nota e l'altra nuova e di cui non sapevo l'esistenza e ovviamente non voglio né sovrapporre le mie idee e né sfruttare il lavoro altrui. Noto che tra le due vie c'è un pilastrino rigato da delle crepe, mi armo di pazienza e lo scalo a suon di friend fino a che non mi trovo davanti ad una placca compatta, di circa due metri. Si sta facendo tardi e non ho intenzione di rimanere lì a studiare un metodo ortodosso per superarla, la buco senza pietà e salgo sulla cresta sommitale, dove ritrovo i chiodi della via accanto che mi guidano in cima alla guglia. Ridiscendo dal Bocia che mi guarda con aria sofferente ma soddisfatta e per agevolarlo mi carico il sacco sulle spalle, poi entrambi ci caliamo di sotto da Piero. Ancora una volta rientriamo col buio pesto e un'umidità tale da sentirla entrare nelle ossa. Differentemente dal passato però, ora siamo tutti e tre rilassati e andiamo a festeggiare.

La via è dedicata proprio all'amico Piero Martin, che ci ha aiutati a portare a termine l'ascensione offrendo in sacrificio le sue spalle alla causa ed a Gregorio Mietto, uno degli istruttori della scuola di alpinismo della sezione CAI di Dolo, purtroppo scomparso di recente.


Torre del Tricorno sul Cornetto
La Torre del Tricorno


partenza della via Martin Mietto
In apertura

partenza della Martin Mietto
I soci in preparazione

secondo tiro della via Martin Mietto
La placca del secondo tiro vista dall'alto

uscita della via Martin Mietto
Il pilastro finale

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giovedì 21 luglio 2022

Liszt: 12 Études d'exécution transcendante

 LISZT

12 STUDI D'ESECUZIONE TRASCENDENTALE

I "12 Studi d'esecuzione trascendentale", o più brevemente gli Studi Trascendentali, sono una raccolta di dodici pezzi per pianoforte tra le più note ed eseguite di Franz Liszt (1811-1886). Sfortunatamente, essendo tra i pezzi più eseguiti del compositore (assieme alla Rapsodia Ungherese n.2, la "Aprés une lecteur du Dante", la parafrasi del Rigoletto, la Campanella e la Liebestraum n. 3 o "sogno d'amore") sono anche i più abusati, sfruttati, rinnegati e denigrati non solo del compositore ungherese, ma di una buona parte del repertorio ottocentesco. Purtroppo non basta agitare bene le dita per essere un musicista, bisogna anche capire cosa si fa e perché lo si fa e così, complice la nomea di pianista virtuoso che ha accompagnato Liszt per tutta la vita mettendone in ombra il compositore, fatto che si è consolidato poi anche nelle accademie e nell'immaginario collettivo, la musica di codesto uomo è divenuta letteralmente "note per fare i fenomeni da baraccone".
Specificando che Liszt ha scritto una serie di pezzi apposta per fare il fenomeno, ciò non deve essere esteso automaticamente a tutta la sua produzione, anzi, la maggior parte delle sue opere sono lavori profondi, meditati, curati fin nel minimo dettaglio e di alto contenuto intellettuale, talvolta pure visionari, come l'album "troisieme années de Pelerinage". Bisogna quindi fare una bella pulizia di tutta la pattumiera prodotta da schiere di pianisti che sono più stenografi del tribunale che musicisti ed entrare nel dettaglio dell'opera per meglio comprenderla.

Genesi dell'opera

La creazione di questa raccolta di brani pianistici è stata lunga e travagliata e ha richiesto ben 25 anni. La prima versione di questi, pubblicata nel 1826 come Op. 1 da un Liszt quindicenne, è intitolata Études en douze exercices ed era la prima parte di un progetto di 48 studi, similmente al Clavicembalo ben Temperato di J. S. Bach. Liszt si fermò ai primi 12 procedendo per quinte discendenti lungo le scale del sistema temperato (Do-Fa-Sib...) e non continuò, probabilmente preso da progetti più stimolanti. Questa raccolta giovanile è una bella opera didattica tutt'ora studiata nei conservatori, è formata dagli embrioni di quello che diverranno in seguito gli Studi Trascendentali veri e propri che compongono degli esercizi su una particolare difficoltà senza mai eccedere in lunghezza e pedanteria.
Nel 1837 il ventiseienne Liszt, affermato virtuoso del pianoforte in fuga d'amore con la contessa Marie d'Agoult e la loro figlioletta Blandine, riprende in mano gli schizzi di undici anni prima ed effettua una riscrittura radicale degli studi. Il risultato è la raccolta 12 Grandes Études formata da pezzi che, se confrontati con la raccolta precedente parrebbero scritti da un alieno: le dimensioni, intese come quantità di note, si sono decuplicate, le difficoltà sono aumentate esplorando quasi tutto ciò che dieci dita possono fare su ottantotto tasti, i temi e le armonie sono più elaborati e audaci rispetto alle cellule originarie. Tuttavia la musica di questi studi è solo un pretesto per giustificare l'abbondanza di virtuosismi fine  a se stessi e la massiccia presenza di interi episodi ridondanti e ripetitivi che hanno lo scopo di abbagliare il pubblico ma che al fine della "narrazione" musicale non contano nulla. Si tratta comunque di composizioni ben ragionate, come dimostrato dalle abbondanti agogiche che guidano l'esecutore passo dopo passo e che possono risultare pregevoli per scopi esibizionistici, ossia per mostrare a tutti di che pasta si è fatti. Sfortunatamente questa versione degli studi non ha avuto molto successo ed è finita presto nel dimenticatoio, anche per lo stesso compositore al punto che li rielabora una terza volta.
Nel 1851, durante uno dei periodi più prolifici dell'attività creativa di Liszt, vede la luce la terza e ultima versione degli studi che è quella con cui sono entrati di diritto nella storia. Ancora una volta gli studi vengono modificati profondamente ma viene mantenuto sia il materiale musicale che l'impianto tecnico (la difficoltà specifica che si propongono di approfondire) della raccolta del 1837.

Gli Studi Trascendentali

La nuova raccolta di studi pianistici dedicati al trascendentale, ossia a tutto ciò che va oltre la normale tecnica dello strumento, si presenta a mezza via tra le due precedenti. I 12 Grandes Études si presentano ripuliti da tutto il materiale rutilante e inutilmente complicato, con dei tagli decisivi a molte sezioni cadenzali di bravura e invece la cura dell'effetto coloristico dato da alcune tecniche come gli accordi alternati, le scale cromatiche o gli arpeggi di accordi (non gli accordi arpeggiati) sia come didattica che come onomatopea musicale. Dopo la pulitura e la sistemazione del materiale tematico tutti gli studi sono stati raccolti in una suite, come la prima versione del 1826 e anche se paiono indipendenti gli uni dagli altri sono invece in qualche modo collegati tra loro. A dieci di essi Liszt ha assegnato un titolo, coerentemente alla sua filosofia che vedeva la musica non solo come un mezzo espressivo ma anche come un mezzo descrittivo, infatti nel frattempo egli stava componendo anche i suoi 12 poemi sinfonici (1848-1858) che sono l'emblema stesso della musica  a programma, ossia il tentativo di imitare con la musica qualcosa ad essa estraneo e di tentare di comunicarlo agli altri.

Bisogna a questo punto fare una precisazione: il mondo musicale del XIX secolo (almeno una parte di esso e soprattutto di area germanica) si divise sulla effettiva rappresentazione oggettiva della musica. Da una parte stavano Liszt e coloro i quali erano fervidi sostenitori della capacità della musica di catturare e imitare il mondo circostante nei suoi archetipi (volgarmente: di scimmiottare i rumori più vari) e di poterli comunicare anche agli ascoltatori. Dall'altra parte stavano i sostenitori della musica come astrazione pura, quali Brahms e il critico Hanslick, che affermavano che essa non rappresenta altro che se stessa e che si limita a guidare e suscitare delle emozioni negli individui, già esistenti in loro e per nulla collegate al tipo di suono ascoltato (anche qui volgarmente: la musica stimola gioia o tristezza se un individuo è già felice o triste di suo, al massimo può istigare la felicità nella tristezza o viceversa ma la musica resta solo un insieme di suoni). 
Questa diatriba non venne mai risolta e i musicisti proseguirono per la loro strada con tutto ciò che ne conseguì. 
Oggi si possono però trarre delle conclusioni, ossia che la verità stia nel mezzo delle due posizioni con uno sbilanciamento verso Liszt e i suoi: la musica è si un insieme di suoni dal significato astratto che guida le emozioni ma, grazie al teatro prima e al cinema dopo (per non parlare del mondo digitale) ha cominciato a legarsi convenzionalmente a taluni oggetti e talune emozioni tali per cui diventa difficile svincolarla da ciò che in automatico noi, come ascoltatori, le associamo. Per farla breve, è diventato per noi difficile associare ad una musica leggera e saltellante un bombardamento aereo piuttosto che degli gnomi o degli insetti o ancora associare ad una musica ritmata e marziale la scena di un bacio romantico piuttosto che la marcia di un battaglione. Sono stati fatti anche tentativi di rottura dei paradigmi che si erano venuti a instillare nella memoria collettiva ma, a parte la sorpresa iniziale, tali paradigmi non sono stati scalfiti. 

Dopo questa puntualizzazione, peraltro molto parziale ma che rischiava di andare fuori contesto, possiamo esaminare la suite degli studi come un corpo unico di pezzi che ha un suo inizio e una sua fine ben precisa, anche se a prima vista non sembra; i titoli dei brani ci aiutano in tal senso. La suite inizia con un Preludio in do maggiore, il più corto tra i dodici ma che ha la funzione di introdurre tutto il resto lasciando intendere che ci sarà di sicuro un seguito e che gli il turbine di elementi esposti avrà uno sviluppo nei pezzi successivi. Il n. 2 è senza titolo, in la minore e non contrasta con il pezzo precedente, anzi ne continua lo slancio frenetico, costruito su un unico tema di 4 note ribattute. Il n. 3 si intitola Paysage, in fa maggiore, titolo abbastanza generico che lascia spazio alla fantasia di adattare una propria immagine alla musica, questa volta decisamente contrastante ai primi due studi e che funge da intermezzo in preparazione a ciò che arriva dopo, il n.4 in re minore, Mazeppa. Quest'ultimo è un pezzo violento, drammatico, che si prefissa di narrare la tragica cavalcata di un eroe incontro al suo destino ma con un finale a sorpresa. E' seguito da Feux follets, in si bemolle maggiore, rimasto abbastanza fedele alla versione del 1837 e pertanto è il titolo che è stato modellato su ciò che la musica poteva suggerire, accostamento perfettamente riuscito ai rapidi guizzi del breve tema. Il n. 6 in sol minore è Vision, altro titolo decisamente generico ma che non abbisogna di ulteriori descrizioni in quanto è la musica stessa a suggerirci di che tipo di visione si tratta, grandiosa ed estatica col finale in sol maggiore. 
Dunque sino a qui abbiamo compiuto un viaggio che dal preludio e dal suo complementare (come a simboleggiare grande aspettativa contro massima incertezza e ansia, di qui l'inutilità del titolo del secondo) ci ha portato in un paesaggio che viene attraversato dalla tragedia di un uomo, popolato di fuochi fatui e che porta ad una visione. Siamo solo a metà del cammino e già le situazioni viste sono molte, diverse e incisive.
Il n. 7 ha il generico titolo di Eroica, in mi bemolle maggiore, anche questo abbastanza generico ma che descrive bene il carattere marziale e risoluto del brano, tra l'altro ben si collega al condottiero Mazeppa (difficile che Liszt scegliesse a caso i titoli). Segue lo studio 8 in do minore Wilde Jagd, la Caccia Selvaggia, tratto da una leggenda in cui gli Dei o comunque esseri soprannaturali compivano una retata di anime da portare con loro. Tra i dodici è uno dei pezzi più ricchi di inventiva (resta sempre negli argomenti della guerra, della violenza e della tragedia). Il n. 9 in la bemolle maggiore è intitolato Ricordanza e non c'è titolo più adatto a descriverne l'atmosfera, creata con un abile gioco di equilibrio tra abbellimenti, melodie e dinamiche. Il n. 10 non ha titolo, è in fa minore e decisamente violento e potrebbe rappresentare l'altro lato dei ricordi, quelli dolorosi, che suscitano sentimenti molto forti, come lo studio in la minore esso rappresenta il complementare de la Ricordanza. Il n. 11 è Harmonies du soir in re bemolle maggiore, un pezzo creato da forti contrasti e che si adatta all'omonima poesia di Lammartine e l'ultimo è il n. 12, Chasse-neige, uno dei pezzi a programma più riusciti di Liszt che rappresenta una tormenta di neve evocata da scale cromatiche e tremoli. La suite si conclude qui, agli antipodi dell'inizio sia come tonalità che come carattere. 
Dopo essere passati attraverso atti eroici, la caccia, i ricordi e il crepuscolo delle armonie della sera, la suite termina drammaticamente in una bufera di neve, chiudendo l'esplorazione del pianoforte ma anche dei sentimenti che la musica può suscitare, compresi tra due estremi opposti ma complementari. 
La suite può considerarsi compiuta così come è anche se l'accordo solitario e sospeso (su un rivolto della tonica di Sib min.) che chiude lo studio 12 lascerebbe aperta la speranza di una continuazione (cosa che cinquant'anni dopo avviene: Sergej M. Lyapounov scrive altri 12 studi trascendentali sulle tonalità mancanti chiudendo così il ciclo di 24 scale maggiori e minori).
Vediamo ora più nel dettaglio i dodici studi.

n.1 Preludio

Il primo studio è in Do maggiore e in 4/4. E' intitolato Preludio e la sua agogica è "Presto"; date le sole 23 battute, la sua durata è ridotta ad una manciata di secondi. E' strutturato per "gesti" (o cellule tematiche, ma gesti rende di più l'idea della dipendenza della musica dall'approccio alla tastiera) differenti, come un'improvvisazione, tuttavia c'è un ordine secondo cui essi appaiono in logica successione. Ogni singolo gesto è ripetuto e iterato, procedimento che nel corso degli studi vedremo spesso, ossia esso si ripete con l'aggiunta di una parte nuova che porta alla successione seguente. L'armonia di questo preludio è costruito interamente sui gradi del Do maggiore, perciò è inutile e noioso approfondirne la costruzione armonica. Quello che c'è di interessante è invece come questo contenga dei frammenti, delle anticipazioni di ciò che seguirà. Non saprei dire se questo era già nelle intenzioni del Liszt dei 12 Grandes Études o se è un caso, in quanto anche questo preludio è una semplice rielaborazione del primo studio del 1837, ma sarebbe strano che Liszt abbia perso tempo e fatica per concepire un pezzetto così corto e ordinario senza dargli una specifica funzione. 
Dunque, se lo si esamina accuratamente si può notare quanto segue:
  • La battuta iniziale, ripetuta anche a btt. 3, con le doppie ottave di do ben premute e il conseguente arpeggio contiene già l'incipit dello studio n. 7 Eroica, che comincia in maniera molto similare.
  • L'ascesa di quartine su doppie note della batt. 2 e delle btt. 5 e seg. sono un anticipo di ciò che avverrà negli studi n. 4 e n. 5, specie in quest'ultimo che è completamente basato su questa tecnica.
  • Alle btt. 9-11 c'è una sorta di frenata su degli accordi in rapida successione basati su una scala discendente che parte da un accordo lontanissimo da Do maggiore (Mib in 7°col bemolle che modula a Reb maggiore) e si porta alla classica cadenza II-V-I. E' un assaggio di diversi passaggi degli studi: nel n. 2, 4, 8 ci sono passaggi analoghi mentre negli studi n. 10, 11 e 12 avviene un'accelerata.
  • La sequenza di trilli delle battute 12 e 13 viene ripresa nella Ricordanza, studio n. 9.
  • Le due battute di arpeggi con l'appoggiatura Lab-Sol (btt. 14-15) potrebbero anticipare il n. 6 Vision, interamente basato su questa oscillazione attorno ai gradi fondamentali.
Il resto del preludio è una coda, che tra l'altro cita lo studio n. 1 op. 10 di Chopin e si riporta definitivamente a Do maggiore chiudendo bruscamente questa introduzione alla suite (da notare che la fine è su una cadenza plagale IV-I). Ora Liszt ha colmato il cuore dell'ascoltatore di aspettative, molto positive. 

n.2

In La minore, 3/4 e "Molto vivace". Come detto in precedenza questo studio continua la concitazione del Preludio ma con un altro spirito: il tono minore, l'insistenza dell'inciso iniziale, dei crescendo sonori che si esauriscono nuovamente nel piano, creano un clima di ansia e irrequietezza che sostanzialmente completa e risponde a ciò che il breve predecessore aveva proposto. Questo rende inutile il bisogno del titolo perché più che un'immagine esso esprime un sentimento negativo e molto soggettivo, anche se talvolta è stato chiamato "Feux d'artifice" per i suoi guizzi scintillanti che vagamente li richiamano alla mente.
Malgrado questa disquisizione metafisica si tratta di uno studio ben specifico dell'alternanza tra le due mani ed è totalmente ricavato dal breve inciso iniziale che forma il leitmotiv principale, quasi ossessivo. Il pezzo inizia con un inciso di quattro note, quattro Mi ribattuti, tre crome più una semiminima. A queste seguono quattro bicordi Mi-Fa che subito dopo diventano gli accordi di incastro a quelli melodici della mano sinistra. E' difficile non fare il parallelismo con la Quinta Sinfonia di Beethoven che inizia con un motivetto straordinariamente simile (Sol-Sol-Sol-Mib). 
Introdotto il tema portante di tutta l'impalcatura melodica e armonica, notiamo che la struttura del pezzo è anomala: l'inciso monolitico iniziale è si il nucleo che da origine al tutto ma è anche un piccolo elemento che si incastra di volta in volta col tema vero e proprio; a ciò si aggiunge che gli episodi in cui il materiale è ordinato ricalcano solo vagamente la forma di una Romanza e, se l'esposizione del tema è chiara, la zona di sviluppo e di ripresa sono fuse in un tutt'uno. Si può quindi riassumere che il pezzo è strutturato in un A-(A+B)-(A'+C) in cui ogni armonia e melodia si appoggiano a quattro note ribattute. 
Dopo la breve introduzione della cellula tematica fondamentale e della tecnica sviluppata nello studio (si noti l'interessante accordo inziale dalla risoluzione anomala: un accordo di II abbassato, scala napoletana e con un urto di semitono che non va da nessuna parte ma si innalza alla 7° di V, risoluzione ottenuta per cromatismo), inizia l'esposizione del tema (btt. 7-19) che è formata da tre elementi: 
  • 4 battute sull'ostinato di Mi della cellula tematica su cui si inserisce una scala di La minore scandita dal ritmo del pezzo (in levare sulla terza croma di sei, risulta - - />) che termina ancora in dominante, più una breve cadenza di 2 battute.
  • 3 battute di un arpeggio di La minore sulla cellula di quattro accordi sempre di La. La terza battuta presenta di nuovo l'accordo sulla scala napoletana, questa volta con una 7° di quarta specie che si porta alla 7° di V.
  • 4 battute di coda in La minore in cui la cellula tematica iniziale diviene un'ostinato di la mentre una scala di La minore compare alle doppie terze di accompagnamento.
In poco meno di 11 battute Liszt ha presentato tutti gli elementi di costruzione del pezzo, abbastanza diversi ma coerenti: agli accordi alternati sul pedale di mi finiscono all'affermazione di La minore che è caratterizzato dalla comparsa di terzine inserite nella pulsazione e che riportano ad un misto tra i due, un rapido arpeggio di terzine seguito da accordi alternati. Questi elementi costituiscono anche le diverse difficoltà che sono materia di studio: scioltezza nei polsi per mantenere l'alternanza tra le due mani, allargamenti importanti alla mano sinistra marcando delle note negli accordi, movimento delle dita deboli della mano destra nelle 3 battute di La minore.
Alla battuta 20 inizia un lungo sviluppo delle idee appena esposte senza che vi sia stata una conclusione dell'esposizione  ma anzi i due episodi si saldano con soluzione di continuità. Dopo una brusca frenata sugli accordi alle btt. 29-30 per cambiare armonia ed elemento tematico da sviluppare, Liszt continua costruendo una lunga progressione, sempre con alternanza tra le due mani e in cui la cellula tematica ritorna ossessivamente determinando di volta in volta il cambio di armonia. Essa porta alla ripresa di battuta 50, anomala, perché ritorna il primo elemento del tema con le scale di La minore sul pedale di dominante (V) e la breve cadenza di risoluzione, ripetuto due volte prima del "Prestissimo" di battuta 58 e seguenti che costituisce l'apice di tutta la parte centrale. Ecco quindi l'anomalia: la ripresa inizia prima della cadenza conclusiva dello sviluppo, facendo poi apparire la stessa più corta e tronca.
La sezione in Prestissimo rappresenta un piccolo intermezzo di sfogo prima dell'episodio finale, in cui gradualmente si riconquista la tonalità di impianto.
A battuta 70 ricominciano le 3 battute di La minore seguite dalla breve coda di 4 battute che confluiscono direttamente nella stretta finale, una lunga coda di accordi alternati e ribattuti.
Alla fine si ode per l'ultima volta il frammento di quattro mi che conclude in La minore, questa volta definitivamente.
Dopo questo excursus sulla struttura dello studio, possiamo vedere come Liszt abbia realizzato uno stato d'animo ansioso ed agitato in una scarica di accordi alternati che, oltre a permettere una certa velocità, consente anche di mantenere il ritmo serrato che non consente mai di riposare, fino al precipitato finale. Come detto in precedenza, questo è un pezzo che ha il vero carattere di studio in quanto è incentrato solo su un certo tipo di tecnica che viene utilizzata in tutte le maniere possibili unendo quindi l'intento didattico all'espressività di un sentimento. Esso è anche uno studio di composizione in quanto l'autore gioca sul rimescolamento di brevi idee musicali che ritornano assemblate sempre in modi diversi e che danno l'impressione di dire sempre qualcosa di nuovo. Lo si vedrà anche nei pezzi seguenti (e in molte altre opere dello stesso).

n.3 Paisage

Studio in Fa maggiore, in 6/8. L'agogica riporta "Poco Adagio" che è abbastanza ambigua ma che probabilmente indica che non deve essere eseguito troppo lentamente ma con un po' di moto, come una cantilena. Il titolo è vago, un paesaggio generico e che quindi viene lasciato alla fantasia dell'ascoltatore e dell'interprete. Io personalmente ci leggo un paesaggio invernale simile a quelli ritratti da Camille Pissarro, suggeritomi dalla somiglianza tra la melodia del basso iniziale e "Stille Nacht", sempre in un'atmosfera placida e natalizia.

Pissarro: inverno a Monfuoco

Oltre a fungere da intermezzo nella suite degli studi, che altra funzione svolge questo pezzo? Perché Liszt lo ha mantenuto dalla versione del 1837? Cosa ha di trascendentale questo brano?
L'apparenza bonaria non deve trarre in inganno: è sicuramente il più facile di tutta la raccolta ma è reso complicato dalle note tenute, apposta per allargare le dita e dalle legature che obbligano ad ingegnarsi con la diteggiatura onde poter mantenere i fraseggi dati. Inoltre esso è un altro "studio" di composizione, contrappuntistico, in cui due o talvolta tre linee melodiche sono obbligate a incastrarsi in un'armonia (le composizioni di Liszt sono un concentrato di idee che sembrano assemblate alla meglio per fare scena ma sono molto ricercate e ragionate, lo dico perché spesso mi è capitato di sentire parlare delle "fanfaronate" che scrive e che nei pezzi giovanili ci sono).
Il pezzo è costruito attorno a due melodie, formanti l'unico tema che si ripete continuamente con alcune piccole varianti; non si tratta di vere e proprie variazioni ma piuttosto di un ritornello molto simile alle attuali canzoni pop, che ritorna a volte a voci invertite, a volte con l'aggiunta di un'altra voce o inquadrato in accordi.
Le due melodie formanti il tema sono presentate nelle prime 12 battute: una sulle doppie terze e con un pedale di tonica Fa maggiore al basso e l'altra rinforzata in ottava all'acuto. Da battuta 13 a 18 le parti si invertono. Malgrado i raddoppi timbrici funzionali allo strumento, le voci, le linee melodiche sono quattro come in un corale. Alle btt 19-24 c'è un breve intercalare dove la melodia in doppie terze viene inquadrata negli accordi basati sul basso e modula a Re bemolle maggiore, lontanissimo da Fa maggiore eppure qui accostato con grande maestria giocando sulla posizione del fa nelle scale di Re bemolle e Sol bemolle.
Una piccola ripresa in Re bemolle maggiore tra le btt. 25-36 porta alla sezione centrale dello studio, di nuovo in Fa maggiore e "Un poco più animato il tempo". Qui viene isolata la parte più acuta della melodia del basso con le doppie terze e viene posizionata all'estremità superiore di accordi a sei parti e si incastra con la sua ripetizione nelle voci intermedie come lo stretto di una fuga; inoltre al basso figurano delle note ribattute che costituiscono dei pedali che permettono di riassumere il corposo episodio (che dura da btt. 37 a 80) in I - III=V di Re - VI=I di Re - V (Do maggiore) - I. Alle btt. 71-80 c'è quello che è il culmine del pezzo, dopo la riaffermazione della melodia portante, con un brusco passaggio a La maggiore, poi per Mi maggiore e riportandosi sui bemolli per enarmonia e conseguentemente a Fa maggiore con una 7° diminuita che diventa enarmonicamente sensibile di Fa (sul mi), accostamenti accordali abbastanza arditi da "melodia infinta" come la chiamerà Wagner nelle sue opere (chissà perché). Alla battuta 81 inizia una breve ripresa che funge anche da coda dove ritorna anche la melodia acuta ridotta al minimo sindacale, tutto rigorosamente in Fa maggiore.
Come illustrato fino ad adesso, possiamo capire che l'intero pezzo è sostanzialmente costruito su un motivetto molto semplice, che il compositore inserisce in una struttura molto variegata e sostanzialmente introducendo una forma nuova che piega la forma tradizionale A-B-A al suo volere senza però abbandonarla del tutto e accontentando l'ascoltatore con un discorso compiuto. Anche lo studio n.2 era costruito interamente sopra un motivetto molto semplice (decisamente minimalista) inserito in un contesto complesso e questo pezzo ne è l'ideale successore, un po' come se nel corso della suite Liszt procedesse per gradi, aggiungendo sempre qualcosa di nuovo.

n.4 Mazeppa

T. Gericault: Mazeppa

Questo studio è di gran lunga il più famoso della raccolta ed uno dei pezzi più famosi di Liszt, da lui stesso evidentemente amato, tanto da ricavarne un poema sinfonico. Ivan Mazeppa è stato un principe ucraino (1639-1709) che partecipò alla Grande Guerra del nord accanto agli svedesi di Carlo XII contro il Regno Russo (che diventerà impero con Pietro il Grande nel 1721). Mazeppa, a suo tempo, cercò in tutti modi di realizzare un'Ucraina indipendente, prima servendo sotto i Russi e poi, quando questi non stettero ai patti non aiutando i cosacchi contro i turchi e non rispettando la loro autonomia, cambiò fazione e passò dalla parte degli svedesi. Sfortunatamente andò male, dovette scappare e rifugiarsi presso il sultano Ahmed III, presso cui morì. Il suo mito della lotta per l'indipendenza della sua terra però sopravvisse e nel XIX secolo divenne un eroe celebrato da diversi artisti quali Gericault nella pittura, da Byron e da Hugo nella poesia e da Liszt nella musica. Proprio da un poemetto di Victor Hugo raccolto ne Les Orientales il Nostro ha tratto ispirazione per la sua narrazione drammatica ed eroica. Ricordiamo che l'800 è stato un secolo di enormi fermenti nazionalisti e di rivendicazioni indipendentiste e sindacali, nel corso di quel secolo nascono il Socialismo in tutte le sue forme (il Comunismo, anche se già esistente con Marx ed Engels, diventerà tale solo con Lenin nel 1917), l'Anarchismo e altri ancora, quindi ogni storia che poteva stimolare la volontà di combattere per un mondo meno oppressivo e più giusto era ben accetta e anche molto romanzata. 
Il poemetto di Victor Hugo narra del principe legato per punizione al suo cavallo e lanciato in una folle corsa attraverso la steppa fino a quando, stremato, cade dal destriero e viene raccolto da una tribù di Ucraini che ne fanno il loro capo: "cadde e si levò re", così sta scritto alla conclusione. Quale finale migliore di un così grande riscatto per un condannato a morte? Impossibile ignorare una tale occasione per scrivere qualcosa di eroico. Occasione che Liszt coglie appieno.
Questa volta però Liszt bara, e anche di brutto: infatti il pezzo era già stato scritto nel 1837 e nella versione definitiva subisce poche modifiche, soprattutto nella parte finale, adattando quindi meglio la musica al poemetto. Qui si può affermare che il compositore, contrariamente alla sua filosofia che la musica sia in grado di evocare oggetti ben precisi imitandoli, abbia adattato il titolo alla musica, aggiustando poi alcuni dettagli per far quadrare il tutto. Malgrado l'azzardo, l'impresa riesce alla perfezione e ascoltando lo studio siamo perfettamente in grado di immaginare la tragica cavalcata del Principe verso il suo destino che si riscatta nel suo finale eroico: un cammino verso la luce, travagliato ma dal lieto fine che stimola in chiunque l'ascolti un senso di positività e di ottimismo.
I cambiamenti più grandi tra la versione del 1837 e quella definitiva riguarda la tessitura: Mazeppa è uno studio per le doppie terze, da sempre cruccio di ogni essere umano che metta le mani su una tastiera: lo studio del 1837 era difficile ma gestibile, quello definitivo ha aggiunto due complicazioni date dagli incroci delle mani e dai salti, unite a tutto il resto.

Lo studio n. 4 Mazeppa è un pezzo in 4/4, in Re minore; ha una struttura molto articolata basata su un unico tema che ritorna continuamente, similmente allo studio precedente ma in questo caso si può parlare di vere e proprie variazioni, tanti e tali sono i cambiamenti che intercorrono da un ritornello ad un altro. 
Dunque, lo studio comincia con un'introduzione "Allegro", di 5 battute di arpeggi di settime più una cadenza che ruota intorno al La, dominante di Re minore. Lungo momento di attesa e preparazione. Al termine della cadenza inizia lo studio vero e proprio, col potente e drammatico tema accompagnato dalle scale di doppie terze che obbligano a fare delle contorsioni che continua per 15 battute. Segue una lunga cadenza in cui Liszt gioca su delle scale che obbligano a lavorare bene con le dita forti 1-2-3 su VII in 7° e V in 7° a cui seguono delle cascate di ottave, veloci, forti e strepitose che cavalcano l'onda del dramma e hanno lo scopo di mantenere viva la tensione perché il tema sta per rientrare sempre drammatico ma mutato (probabilmente è l'imitazione del turbine di polvere sollevata dal cavallo).
A battuta 25 c'è il ritornello ma è anche avvenuto il primo cambiamento, il tema è accompagnato da terzine sfasate rispetto alla scansione ritmica degli accordi conferendogli un andamento strascicato, come se il cavallo che trasporta l'eroe cominciasse a sentire la fatica ma continuasse a correre imperterrito. Il tutto dura da battuta 25 a 40 quando comincia la seconda cadenza (tutto il tema, che se preso nota per nota potrebbe sembrare ardito e di armonia un po' astrusa, è costruito abilmente attorno al I e al V di Re, utilizzando enarmonicamente le alterazioni). 
La cadenza coinvolge una parte del tema, con le doppie terze che si perdono verso l'alto e conclude in Re maggiore, segue nuovamente un inciso di dominante con le solite scale sulle dita forti e poi una nuova cascata di ottave alternate alle due mani sulla scala di re minore (ha cambiato ancora, il dramma non è finito, "Ils vont. Dans les vallons comme un orage ils passent...").
Inizia la parte centrale dello studio (btt. 56 e seg.), altra variazione del tema ma in Si bemolle maggiore ("Ils vont. L'espace est grand. Dans le désert immense, dans l'horizon sans fin qui toujours recommence,, ils se plongent tous deux..."), arricchito di arpeggi di doppie terze e conclude in Re maggiore, quasi a prepararsi a modulare a Sol minore (btt. 73) ma invece rimane in Sib maggiore e itera il tema subito con una nuova variazione accompagnato da accordi ribattuti e lavoro di mignolo alla mano sinistra prima di chiudere con una lunga cadenza (btt. 86 e seg.) che dapprima raggiunge il culmine dell'episodio a Do maggiore e poi si porta tramite scale cromatiche al La maggiore, dominante di Re minore, per la ripresa; episodio di grande virtuosismo tecnico, più complicato dell'originale del 1837 (quello del 1826 non lo conto nemmeno, era solo uno studio di scalette di doppie terze).
A battuta 103 si ripresenta la cadenza con le ottave che imita il turbine di polvere del cavallo. Dopo aver lasciato vagare lo sguardo nelle immensità della steppa, piatta e arida, nella solitudine, ecco si ritorna alla cavalcata veloce e sfiancante verso il destino. La ripresa in Re minore arriva puntuale a battuta 108, il tema torna mutato in 6/8 "Animato" imitando un galoppo ("Le cheval, qui ne sent ni le mors ni la selle...") fino alle btt. 123-126 con la cadenza sulla dominante e una contrazione del passaggio di ottave semicrome-croma che traghetta il tempo da 6/8 a 2/4. Altra variazione "Allegro deciso", ancora più stretta che da battuta 130 porta al dramma finale che arriva dopo un'ultima progressione (btt. 146-153): si tratta di 8 battute di arpeggi in cui al basso risuonano i pesanti accordi dell'armonia fondamentale del pezzo, degli accordi che si appoggiano cromaticamente alla triade di Re minore e poi una cadenza plagale a Re maggiore, seguite da 7 battute di V-I rotte all'improvviso dal VII in 7° diminuita (su scala minore) e da una serie di accordi sempre di 7°e diminuite ("Enfin le terme arrive... il court, il vole, il tombe..."), una brusca frenata che spezza il momento luminoso della conquista della tonalità maggiore.
A battuta 172 c'è un breve Recitativo: come accade in tutte le composizioni davvero importanti, Liszt inserisce delle sospensioni che chiama recitativi come i corrispondenti tratti di narrazione nelle opere, in cui una breve melodia entro certi intervalli (una quinta diminuita in questo caso Do#-Sol) ferma tutto e si sviluppa anche al di fuori del tempo. Si tratta di un momento riflessivo e di silenzio, riempito col minimo sindacale che in qualche modo continua a portare avanti la narrazione (espediente che utilizza anche Beethoven nella sonata 17, op. 31 n.2 e nella 28, op. 101) mantenendosi sempre sugli stessi accordi incerti e tesi (le 7°e diminuite). Il recitativo dura qui ben 12 battute e prepara l'ingresso trionfale della coda in Re maggiore: Et se relève roi ! Una breve citazione del tema seguita da una cascata di accordi di tonica conclude gloriosamente lo studio.

n.5 Feux Follets

Immagine di un fuoco fatuo (da Wikipedia)

E' senza dubbio il più difficile brano dell'intera suite, modificato pochissimo rispetto alla versione del 1837, giusto alcuni passaggi per renderlo più eseguibile e più fluido. Anche questo pezzo ha avuto un titolo dopo la sua stesura che non poteva essere più azzeccato: fuochi fatui. Questo fenomeno, dovuto all'accensione dei gas della decomposizione (tenuto conto che ai tempi i sistemi fognari erano in via di costruzione nelle città Europee per combattere il colera, che da quarant'anni flagellava la popolazione, cagionato nel 1815 dalla grande eruzione del Tambora) era ben noto e molte sono le leggende che li descrivono. 
E' uno studio di articolazione delle dita in tutte le posizioni possibili, scale, scale di doppie seste e doppie terze, salti e note tenute, Liszt qui si è sbizzarrito. E' anche uno dei pezzi che ha il carattere di vero e proprio studio tecnico, molto utile per il pianista. 
Il pezzo è strutturato in maniera bizzarra, si basa su più cellule tematiche piccole che non formano mai nessun tema duraturo, infatti esse si ricombinano sempre in maniera differente. La resa del fuoco fatuo non è stata ottenuta solo tramite scelte timbriche che imitano banalmente qualcosa che corre, ma anche nella struttura stessa del brano e nel continuo ripetersi dei brevi ma sempre riconoscibili incisi. E' questo un connubio perfetto tra immagine e musica dove l'idea suggerita dai suoni prende la forma definitiva con la parola.

Lo studio è in 2/4 in Si bemolle maggiore, "Allegretto". L'intera struttura è abbastanza nebulosa perché composta da molte idee diverse rielaborate tanto da apparire sempre nuove. Reputo pertanto lo studio diviso in episodi autoconclusivi. 
Dopo 6 battute di introduzione V in 11° e 9° minore, molto veloci e ornate da una lunga scala cromatica, presenta subito i due frammenti che combinandosi formano tutta la composizione: il primo a btt-7-8 è un guizzo formato da un rapido arpeggio discendente alla mano destra e doppie terze alla sinistra costruito su settime diminuite e battuta 9 un piccolo cromatismo all'acuto appoggiato ad una 13° sul fa, V di Si bemolle (Reb-Do-Dob-Sib). Alle btt 10-15 il bizzarro accostamento viene iterato in V in 7° con una piccola coda che, dopo questa breve e veloce presentazione, porta a quello che potremmo definire il I Episodio.
Il I Episodio introduce ancora un elemento nuovo che ha un suo inizio e una sua fine e che poi non torna più, un disegno cromatico all'acuto (mano destra) che finalmente si appoggia a Si bemolle maggiore (al basso) e che oscilla dentro delle quarte (fa-sib; sib-mib). Lo scampanellio ben ritmato dei bicordi del disegno cromatico, oltre a rappresentare il fulcro tecnico dello studio, suggerisce anche qualcosa di delicato e tremolante ben distinguibile assimilabile al tremore di una fiammella. L'idea viene proposta alle btt. 18-26 dove segue una breve coda rinforzata con ottave che si riporta in dominante (btt. 26-30). L'idea fin qui esposta viene ripetuta leggermente variata (gli accordi al basso sono sotituiti da dei salti con acciaccatura) ma sostanzialmente immutata, ancora seguita dalla coda alle btt. 38-41 e conclude in Si bemolle maggiore.
Adesso lo studio cambia decisamente: dopo la delicatezza e il garbo dell'episodio precedente ritornano le due cellule precedenti, invertite, prima il piccolo cromatismo e poi la discesa sulle 7°e. Le fiammelle danzanti di prima qui cominciano a spostarsi velocemente, a sparire e riapparire in un altro posto e ciò viene reso grazie ai due rapidi e versatili frammenti dell'inizio.
Il II Episodio tra le btt. 42-73 è costruito su delle progressioni interamente basate sui due frammenti tematici iniziali che conducono a dei momenti di forte tensione. La prima è tra btt. 45-48, col restringimento delle discese di 7°e, seguita dal frammento cromatico ben affermato al basso sotto una scampanellante discesa cromatica, segue un'ulteriore iniziativa tra bt. 53-61 di contrasto tra salite e discese sulle 7°e diminuite che riporta all'affermazione del secondo e caratteristico frammento con un deciso cambio di tonalità (btt. 62 e seg.). La tonalità qui resta ambigua oscillando attorno al Fa diesis minore senza affermarlo mai e l'episodio si conclude con una cadenza su lunghe scale cromatiche (btt. 67-72).
Il III Episodio è una sorta di ripetizione del I, come una ripresa, ma il disegno melodico e armonico, qui in La maggiore e "con grazia" è talmente diverso che io sarei propenso a vederlo come un qualcosa di nuovo, infatti i rapidi bicordi alla mano destra sono arricchiti delle ripetizioni del secondo frammento melodico cromatico e da nuovi guizzi ornamentali. Questa sorta di ripresa viene interrotta a battuta 91 dall'irruzione di una risposta costruita in maniera mirabile: la tonalità è Si bemolle maggiore ma gli accenti forti cadono su delle appoggiature che formano intervalli eccedenti col basso, molto stridenti, ciò da l'impressione di un episodio in minore, drammatico e agitato ma che invece è ancora in maggiore, come la sua conclusione a battuta 100.
Da battuta 101 inizia la Coda, una replica dell'Episodio II con la ripetizione del secondo frammento e vari cromatismi con la fine che afferma definitivamente il Si bemolle maggiore.

La musica dunque evoca qualcosa di fuggevole, che non è ben definito né nei temi né nell'armonia, che resta inafferrabile all'ascolto e che viene associato all'evento evanescente per eccellenza, una fiammella spontanea di gas tanto luminosa e delicata quanto effimera. L'analisi precedente mostra come Liszt abbia dato forma all'immagine nella sua mente e l'abbia proiettata davanti ai nostri occhi col potere dell'analogia e della suggestione. 

n.6 Vision

Come lo studio precedente, anche questo pezzo è stato rimaneggiato poco rispetto alla versione del 1837; Liszt ha operato giusto qualche rimaneggiamento del materiale troppo ridondante e l'ha trasformato in uno studio degli arpeggi assegnandogli il titolo di "Visione". A mio modesto parere questo pezzo è il punto più basso della suite, con poche idee ripetitive e una melodia ossessiva spalmata in un tempo lento, in poche parole in certi punti è fiacco e noioso (non tutte le ciambelle riescono col buco). A parte questo, il vago titolo di "Visione" è evocativo di una sensazione estatica e di energia irradiata al nostro corpo che ci pervade di positività nell'ampio finale in Sol maggiore e che alla fine riscatta un po' la composizione un po' scarsotta.

Lo studio è in 3/4 in Sol minore, Lento, ed è realizzato similmente ad una passacaglia, una danza di origine spagnola basata su un "tenor", una melodia fissa che si ripete innumerevoli volte e su cui sono costruite delle variazioni, sia essa canto o basso. La passacaglia è stata una forma molto in voga nel periodo barocco, esempi notevoli sono Handel che ne ha scritte alcune, tra cui una in Sol maggiore per tastiera con una cinquantina di variazioni e Bach che ha composto la celebre Passacglia in Do minore per organo BWV 582. La passacaglia deriva sembrerebbe derivare dalla ciaccona, un'altra danza spagnola cinquecentesca, basata anch'essa su un "tenor" che sta al basso e oscilla esclusivamente tra il I e il V della tonalità di impianto, celebre è quella per violino solo di Bach BWV 1004. 
Il pezzo di Liszt è una via di mezzo tra le due forme: il tema è un canto fisso e costante che si ripete adattandosi ogni volta alla nuova tonalità in cui modula e su cui gli arpeggi completano l'armonia di volta in volta costituendo il tecnicismo da studiare.
Il tema è annunciato nelle prime 4 battute in forma completa ed è caratterizzato da una successione di intervalli che costituisce la cellula tematica fondamentale, quella che è riconoscibile in ogni punto del pezzo, essendo la conclusione del tema talvolta omessa: -1 st,+1 st,-3° min, +4° giusta, -1 st (st=semitono). Il tema viene arricchito da 3 brevi accordi a battuta 8 che movimentano l'andamento molto statico delle figurazioni iniziali e collegano modulando i vari cambiamenti nella fioritura.
Non c'è molto altro da aggiungere per quanto riguarda la composizione e l'armonia se non che in alcuni punti Liszt sperimenta l'accostamento di accordi diversi introducendo un'alterazione o per nota comune come alle btt. 12-13 Re V di Sol che passa a Si minore, btt. 20-21 Re maggiore e Si bemolle maggiore per il re comune, btt. 39-40 Sol maggiore e Mi bemolle maggiore per sol comune (espedienti che Wagner riutilizza per la sua "melodia infinita").
Ciò che è veramente interessante di questo studio è l'interpretazione, ossia il dare un senso al titolo attraverso la musica. Esso inizia con una sequenza di gravi accordi arricchiti dai relativi arpeggi in un tempo lento, che procedono con una scansione costante, come a simboleggiare un personaggio in un incedere cupo e senza speranza fino al risuonare di tre accordi (sulla triade di Re maggiore) che ogni volta ampliano il gesto (come l'estensione degli arpeggi), come a simboleggiare una prima apparizione, dapprima ignorata, poi via via più persistente fino allo sconvolgimento delle battute 26-32. Qui il personaggio prende piena coscienza di ciò che si trova davanti e ne resta sconvolto ma al tempo stesso estasiato, la tonalità diventa Sol maggiore e gradualmente tutto il pezzo si spegne verso una conclusione in sordina come a voler simboleggiare una ripresa del cammino questa volta ricco di speranza. Un ultimo guizzo in fortissimo chiude la composizione per affermare definitivamente la conclusione positiva dell'esperienza. 
Personalmente ritengo l'immagine che si sposi meglio con questo studio potrebbe essere la Conversione di San Paolo di Caravaggio, considerando l'ammirazione e la conoscenza della cultura italiana di Liszt e anche i suoi sentimenti religiosi.

n.7 Eroica

Studio un po' particolare, non particolarmente brillante e che sembra una cozzaglia di episodi diversi accostati in modo da avere una successione più o meno logica. Il pezzo è in 4/4, Allegro e in Mi bemolle maggiore e reca il titolo di Eroica. Contrariamente agli studi precedenti, il nome è generico e non indica un'immagine ben precisa da associare alla musica, quanto piuttosto un sentimento: il pezzo infatti imita una marcia militare e la tonalità di Mi bemolle maggiore rimanda alla Terza Sinfonia di Beethoven, definita l'Eroica appunto.

Il pezzo ha una struttura A-B-A' ed è preceduto da un'introduzione senza tonalità in cui Liszt da libero sfogo agli accostamenti degli accordi (giocando molto sull'enarmonia tra Sol# e Lab), appoggiandosi ad esempio alle note attorno alla triade di Mi bemolle. 
Questa introduzione, basata su 7e di terza specie (di sensibile) è costruita con tre elementi: un gruppo di quattro accordi di 7°, un lungo arpeggio e altri quattro accordi di 7° come codetta. Il primo elemento, con l'ottava iniziale ribattuta e il tritono così in evidenza, è un'autocitazione: assomiglia molto infatti al celebre inizio di "Aprés une lecteur du Dante" del secondo libro degli Annèes de Pelèrinage, pezzo scritto molti anni prima (1830 circa), intitolato "Fragment Dantesque" e che proprio contemporaneamente agli studi stava venendo rimaneggiato. Questa introduzione cita, tra l'altro, anche un'altra opera di Liszt, le Variazioni su un tema di Spontini e Rossini, opera giovanile del 1824. Segue un anticipo di quanto sta per seguire alle battute 12-18, col ritmo della marcia che sta per essere ben sviluppato.
Il tema entra solo alla battuta 19 ed è composto di due frasi, proposta e risposta, V-I. Il tema è caratterizzato da un ritmo con crome puntate e semicrome che conferisce il carattere marziale e militaresco del brano e, nella risposta, viene abbellito con delle terzine e delle quartine, che diventano spunti per inserire gli elementi tecnici da studiare. Nella prima frase il Mi bemolle è fin da subito messo ben in evidenza e nelle battute 23-27 il cambio di armonia a Sol bemolle maggiore, tramite il Sib come nota comune, consente a Liszt di evidenziare il Reb richiamando il celebre tema dell'Eroica di Beethoven.
A battuta 45 inizia la parte B, un lungo sviluppo in cui il tema è sempre ben riconoscibile mentre viene ornamentato da rapidi arpeggi, salti e ottave, in un continuo crescendo fino a battuta 79 dove si ode ancora un pezzo di introduzione che anticipa la ripresa, che puntuale arriva a battuta 86, invertendo le due frasi e sviluppando uno studio di ottave vero e proprio che arricchiscono la ricomparsa del tema e rappresenta anche il culmine di tutto il pezzo. Dopo la comparsa della prima frase (btt. 103-111) risuona per l'ultima volta un'eco dell'introduzione e il pezzo si chiude in Mi bemolle maggiore.
"Eroica" è uno studio di costruzione abbastanza semplice, rimaneggiato poco rispetto alla versione del 1837, in cui la musica ritorna alla sua forma astratta e il titolo, trovato a partire dalla musica, ha il compito di evocare uno stato d'animo nell'esecutore che deve poi esprimerlo nell'esecuzione. 

n.8 Wilde Jagd

Peter Arbo: Caccia selvaggia

Lo studio 8 è un gioiello della suite, ricco di idee, di movimento, di slanci melodici del Liszt che noi tutti amiamo, riscatta pienamente la caduta di stile dei due predecessori. E' in Do minore, in 6/8 e "Presto furioso". Questo studio è stato pesantemente rimaneggiato rispetto alla versione del 1837: Liszt ha eliminato una lunga sezione virtuosistica centrale, tagliato la ripresa del tema e riscritto tutto il materiale di interesse tecnico trasformandolo in uno studio degli accordi, in tutte le loro forme e trasformandolo nella vera e propria "Caccia selvaggia".
La caccia selvaggia è un mito dei popoli germanici e britannici, poi esteso anche alla Scandinavia, in cui esseri soprannaturali, come gli Dei o le anime di coloro che sono morirono in battaglia, percorrono la Terra nelle dodici notti successive al Solstizio d'Inverno; tale mito viene ripreso anche in Italia e raffigurato in diversi dipinti nel corso dei secoli, esiste anche una versione in cui sia Re Artù a guidare le anime dei morti nella battuta di caccia.
Fedele a quest'idea, Liszt modifica il precedente studio del 1837, prolisso e chiassoso, e costruisce un pezzo dotato di una struttura ad episodi non ben inquadrabile nei soliti schemi ma funzionale alla descrizione e all'intento didattico.

Il pezzo si compone di un Episodio A di 58 battute, in Do minore, che potrebbe rappresentare l'inizio della caccia nel suo momenti più tragico, in cui gli esseri ultraterreni sono rappresentati dai pesanti accordi, le schioccate di frusta dalle quartine di biscrome strappate e la fuga disperata delle anime dei mortali coinvolti da la rapida alternanza delle due mani al basso, puntualmente stroncata dai cacciatori sempre rappresentati con pesanti accordi. L'episodio non torna più nel resto del pezzo ed è autoconclusivo, nel senso che alla battuta 58 si passa definitivamente al Mi bemolle maggiore, tonalità con cui poi il pezzo prosegue in un'altra direzione; malgrado ciò è ben congegnato e decisamente innovativo nel contesto in cui è messo. Innanzitutto la semifrase di apertura in Do minore è costruita su un'ambiguità ritmica in cui Liszt omette la pulsazione dell'accento forte dei due gruppi di 3 crome del 6/8 creando un ritmo di circa 2/4 nello stesso. Poi nella seconda semifrase, partendo ancora con l'omissione della prima pulsazione, sposta tutti gli accenti creando un ritmo di 5/8 in un tempo di 6/8, dando l'impressione che esso si stringa, prima di ritornare al ritmo precedente. Questa costruzione interessante è ripetuta una seconda volta con lo stesso effetto (btt. 32-58) ma portandosi verso il Si bemolle maggiore, dominante del Mi bemolle maggiore.
L'effetto creato da Liszt in questa prima fase è di qualcosa di massiccio e veloce che si presenta sulla scena, diventa sempre più veloce e incalzante per fermarsi all'improvviso (btt. 27-31) e poi riprendere con uguale violenza.

Alla battuta 59 inizia l'episodio B, ossia un movimento in forma sonata bitematico, con tanto di esposizione dei temi, sviluppo e ripresa. Il primo tema è in Mi bemolle maggiore, adesso perfettamente in 6/8, che suggerisce un andamento galoppante, dapprima mf, poi in crescendo ad un ff che simboleggia l'ingresso di qualcosa di regale e una sorta di pausa nella caccia, come se l'orda si fosse momentaneamente allontanata ed entrasse il Re o il Dio dei morti. Dopo un breve ponte modulante (btt. 77-84) entra il secondo tema, ancora in Mi bemolle maggiore ma di carattere completamente diverso e costituisce la parte trascendentale dello studio (che se prima si scherzasse, eh!): una melodia in Mi bemolle su accordi spezzati in un movimento fluido di semicrome che richiede un'ampia apertura della mano e il dover bloccare di volta in volta un dito. Dopo la prima proposta il tema viene ripreso con una complicazione alla mano sinistra che comincia a saltare, riempendo l'armonia (btt. 93-100) e un cambio della coda (si porta da Mi bemolle a Sol maggiore). E' interessante come qui la modulazione a Sol maggiore non sia definitiva ma costituisca un passaggio tramite nota comune a Mi minore (btt. 101-108) con cui l'esposizione si avvia alla conclusione. E' importante notare un'altra cosa: il tema è la successione sol-fa-mib-re-do, semplicissima, nell'esposizione concludentesi con sol-do-sol, bisogna tenerlo a mente perché ritornerà cambiato, quindi diverso, ma in realtà è sempre la stessa piccola melodia che risuonerà al nostro orecchio e che sembra la naturale conseguenza del discorso iniziato.
Alle battute 109-115 segue una coda dell'esposizione, in progressione, che rapidamente riporta da Mi minore a Mi bemolle maggiore e all'inizio dello sviluppo.

Episodio C: lo sviluppo vero e proprio della parte in forma sonata, inizia a battuta 116 con una ripetizione del tema leggermente mutata sol-fa-mib-re-do-la-sib e arricchita dalle ottave che la rendono più squillante. Il secondo tema è qui nel suo parossismo, un momento di forte passione che però viene rotto dalla discesa nel modo minore che parte dalla battuta 124 e che simboleggia che la pace non è stata ancora conquistata. Questa prima fase si conclude in Sol maggiore, dominante del Do e in pp. Alla battuta 134 ritornano le alternanze al basso delle due mani, frammenti del primo episodio, e dalla 146 inizia una progressione, via via più stretta e ascendente cromaticamente, come l'avvicinarsi dell'orda e la ripresa della caccia. 

Alla battuta 164 inizia l'episodio D, la ripresa, ultimo episodio della composizione con l'ingresso del primo tema questa volta in Do maggiore: di nuovo ricompaiono i pesanti accordi galoppanti con l'aggiunta di un cambio di tempo e ritmo, oscillante tra i 2/4 e i 6/8 (reminescenza dell'inizio) che ha l'effetto di prolungare il rintocco degli accordi e di frenare l'azione alle battute 184-185. Dopo un ponte modulante virtuosistico, variazione di quello esposto in precedenza (btt. 186-193), rientra il secondo tema, ancora in pp, rievocazione di quel momento di pace che c'era stato prima (btt. 194-201) per poi risuonare rapido su accordi pieni e intensi (btt. 202-215). 
Tutto lo studio si conclude con una coda di bravura su rapidi arpeggi e un'ultima cascata di accordi (in cui compaiono le 7e di terza specie, anche sulla dominante) e in Do maggiore, quasi a simboleggiare una sconfitta dell'orda selvaggia e il trionfo del bene finale, un messaggio di speranza e positività alla fine di un così travagliato cammino.
In questo pezzo Liszt è riuscito alla fine a conciliare un'immagine con i suoni e lo studio della tecnica rendendolo di fatto una delle migliori sintesi di questa poetica e uno dei migliori della suite (assieme al 4, al 5 e al 12). Questo studio arriva dopo quello intitolato Eroica e, come questo ha un finale trionfante che suscita entusiasmo, gioia e un certo senso di sublime, ricollegandosi idealmente al sentimento eroico del precedente e quindi continuando a legare assieme i pezzi della suite secondo un ordine astratto, che verte attorno ai concetti espressi e ai sentimenti suscitati piuttosto che ad un freddo schema logico.

n.9 Ricordanza

Siamo allo studio in La bemolle maggiore, Andantino e in 6/4, il più lungo e corposo dell'intera suite. E' uno studio lento, melodico, per l'approfondimento degli abbellimenti e delle varie intensità sonore all'interno degli accordi, che richiede pesi diversi tra le dita. Malgrado sia apparentemente più facile di quelli visti sino ad ora, è invece uno studio impegnativo, con alcuni passaggi abbastanza rognosi e ampie estensioni per le mani. Rispetto alla versione del 1837 questo pezzo è rimasto pressoché inalterato, giusto qualche accordo ridondante tolto qua e là, il ché sta a significare che il titolo è stato scelto dopo, a partire da ciò che poteva suggerire la musica. In questo caso il titolo è perfettamente azzeccato in quanto presenta diverse citazioni di Chopin al suo interno (all'epoca della stesura già morto da un pezzo): l'introduzione è per esempio molto simile allo studio n. 7 op. 25 del polacco, con una linea melodica grave e molto fiorita, che in un paio di momenti comprende delle digressioni cadenzali (proprio come in questo caso). Oltre a questa citazione, compaiono anche dei riferimenti a Liszt stesso circa i Tre Studi da Concerto, composti giusto qualche anno prima, come i frammenti melodici dell'introduzione che rimandano al secondo di questi ultimi, e a Beethoven.

Lo studio presenta una struttura molto singolare, quasi improvvisativa, basata su iterazioni del tema, non è una romanza in quanto manca l'episodio B di intermezzo o sviluppo delle idee, di conseguenza non è nemmeno in forma sonata, non è nemmeno un rondò in quanto, pur avendo un tema che funge da ritornello, presenza alcuni elementi ripetitivi che derivano dai veri episodi e che non costituiscono mai un vero e proprio tema.
Le prime 16 battute costituiscono un'introduzione con alcuni frammenti anticipativi del tema principale (come i gruppetti di cinque note o il primissimo arpeggio). Di queste, le prime 7 formano un recitativo che resta su un'armonia oscillante tra La bemolle maggiore e Si maggiore (grazie all'enarmonia del Si bemolle e del La diesis e del Do diesis col Re bemolle). Alla battuta 10 compare la prima cadenza ornamentale costruita unendo e ampliando il primo arpeggio e il primo gruppo di quattro crome. A battuta 11 il tempo si fa "Un poco animato" costruendo una piccola progressione sempre sulle prime quattro crome e, appoggiandosi ad una nona minore, inizia la seconda cadenza, questa volta più lunga e ampia, che termina l'introduzione portandosi verso il La bemolle maggiore (che richiama la fine dei notturno n. 2 e 3 op. 9 di Chopin).
A battuta 16 entra il tema vero e proprio dello studio, in La bemolle maggiore, costituito da una melodia su singole note acute che si appoggiano ad un accompagnamento di accordi al basso (altra citazione del notturno n. 2 op. 9 di Chopin). E' interessante notare come il canto (btt. 16-24) presenti un hochetus, un singhiozzo dato da una breve sincope sull'accento forte che lo rende più interessante e movimentato di una costruzione inquadrata dentro gli usuali accenti (l'hochetus è stato introdotto per la prima volta nel XIII secolo). 
Alla battuta 25 inizia il primo inserto, un passaggio al Fa minore tipicamente lisztiano con le ottave che declamano il drammatico canto come se fosse sul palco dell'opera mentre l'accompagnamento, molto regolare e diviso in 3 voci con un arpeggio come abbellimento, oltre a completare l'armonia sotto il canto costruisce sulla voce più acuta un ostinato che funge da controcanto, ben in risalto.
Questo inciso trova la sua naturale conclusione nella seguente sezione cadenzale (btt. 29-35) in cui, grazie ad una 6° eccedente presa proprio di sfuggita sull'ultimo ottavo di battuta 28, l'armonia si porta verso Mi bemolle maggiore (area di Dominante, V grado). In questa parte succedono alcune cose molto interessanti: l'appoggio sul Si bemolle viene arricchito da un gioco di scalette ascendenti e discendenti che ruotano attorno ad una nota (grado) che viene tenuta ferma e che costituisce una citazione dello Studio da concerto n. 2; subito dopo, giocando sull'enarmonia di Mi bemolle - Re diesis, Liszt prolunga l'attesa fino alla conclusione definitiva in Mi bemolle maggiore alla battuta 35. 
Da questa conclusione ecco fare il suo ingresso una delle procedure più care al compositore, quando deve in qualche modo collegare due momenti molto diversi tra loro e non vuole mettere uno stacco troppo netto: una lunga improvvisazione che gioca sul tema e che ad esso rimane coerente. Questo improvviso parte da un trillo di tonica, Mi bemolle e con un rapido arpeggio si porta ad una piccola progressione sul tema in cui emerge con prepotenza la 3° minore (Fa-Mib -> Solb-Fa -> Lab); successivamente sul breve disegno melodico si innestano degli arpeggi molto leggeri, vero argomento dello studio. Il tutto termina con la lunga scala cromatica di battuta 42 e una sospensione.
I trilli e gli arpeggi, con la melodia in una tessitura intermedia, richiamano lo Studio n. 8 op. 10 di Chopin, sebbene sia più veloce, sonoro e incisivo di questa sezione lisztiana.

Battute 43-50: breve ripresa del tema in La bemolle maggiore. Alla battuta 51 inizia il secondo inserto, completamente diverso da quanto sentito finora, in Re bemolle maggiore (IV di La bemolle). Il tema di questo episodio è ovviamente strettamente imparentato con tutto ciò che è stato scritto prima; esso è ricavato dalla melodia principale (i semitoni derivano da Do-Reb e la scala discendente da Fa-Mib-Reb-Do) ma talmente camuffato dall'improvviso cambio di scrittura che pare un qualcosa di completamente nuovo. Esso è scritto in maniera verticale, ossia con una melodia nella linea più acuta della tessitura che sovrasta un fitto tappeto di accordi su ogni singola pulsazione; è una citazione di Beethoven, che usa spessissimo questa scrittura, nella sonata op. 26, nella Pathétique op. 13, nell'Appassionata op. 57 e altre.
La conclusione dell'inciso è in Do maggiore, a battuta 59 da cui prende avvio ancora l'improvviso, questa volta diverso rispetto alla prima apparizione, col breve inciso iniziale dello studio ripetuto ossessivamente e l'insistenza sui trilli (btt. 63-65) seguiti dagli arpeggi, come in precedenza, e dalla lunga scala cromatica (questa volta più difficile), concludendosi a battuta 72.

Battute 73-78: ripresa del tema in La bemolle maggiore, più corta e con figurazioni (bt. 77) che cominciano a stringere il tempo. A battuta 79 inizia uno sviluppo del tema con un progressivo aumento di intensità dato dal riempimento degli accordi e dalla notazione "più mosso, agitato" del compositore. Questo breve prolungamento è basato sul V di La bemolle, pedale di dominante e termina con una breve cadenza (btt. 87-89) dove si reinserisce l'inserto beethoveniano (btt. 90-98) in La bemolle maggiore. Segue una coda (btt. 98-189 Fine) con una ripetizione fiorita dell'inciso iniziale del tema, ornata da flebili arpeggi, dissolvendosi poco a poco fino ad un'ultima citazione (bt. 188) del tema e poi concludendo definitivamente in pp, lontano.

Rispetto alla precedente versione questo pezzo è stato modificato appena, togliendo qua e là degli accordi e lasciando inalterato il materiale di studio vero e proprio, gli arpeggi e il peso differente da dare ad ogni dito nelle varie sezioni onde estrarre correttamente la polifonia dall'insieme sonoro. Il titolo "ricordanza" è assai generico e, come detto prima, assegnato dopo la stesura però è reso tramite le citazioni illustrate, che ricordano gli ispiratori e amici di Liszt, il suo carattere tranquillo e sereno e tramite la scrittura a brevi episodi che compaiono e scompaiono quasi a simboleggiare i ricordi che, pur essendo nitidi, scompaiono subito fugacemente.

n. 10

Insieme a Mazeppa, reso famoso dal successivo poema sinfonico dello stesso Liszt, questo studio senza titolo è di gran lunga il più suonato. E' uno studio per l'articolazione delle dita in tutti i modi possibili, per la corretta alternanza tra le due mani e soprattutto per la mano sinistra che qui è costretta a compiere delle grandi acrobazie. Assieme al n. 2, al n. 5 e al n. 6 questo ha il carattere di esercizio vero e proprio, pur non rinunciando alla creatività melodica e armonica.
Rispetto alle precedenti versioni questo studio è stato profondamente modificato, eliminando tutto il materiale ridondante e rendendolo più agevole e funzionale ai propositi didattici. Compositivamente parlando è imparentato allo studio precedente: il breve frammento che ripetuto fino all'ossessione costituisce il tema è sostanzialmente il rovescio della melodia in La bemolle ascoltata prima, come anche l'insistenza sui semitoni si riallaccia a quell'idea estrapolata da Beethoven sempre utilizzata nella "ricordanza". Liszt non scrive nessun titolo per questo brano ma lo si potrebbe interpretare come "il lato oscuro dei ricordi": dopo aver piacevolmente rimembrato il bello che aveva riempito il passato e che faceva passare tutto come qualcosa di spensierato e idilliaco ecco riaffiorare anche il dolore e la sofferenza, ciò che non si deve dimenticare. 
L'accostamento tra i due caratteri così diversi, dopo una composizione così ricca di citazioni e riferimenti rende effettivamente inutile un titolo descrittivo.

La struttura dello studio, per quanto all'apparenza semplice e lineare, è molto complessa: sostanzialmente esso è retto da un unico tema, molto breve e incisivo che si evolve nel tempo e che rompe la continuità della parte tecnica, dando all'ascoltatore un canto molto coinvolgente e drammatico. Nel dettaglio però ci sono diversi elementi concorrenti che si mescolano e ricorrono più volte conferendo unità formale e sonora al pezzo, infatti, osservandolo nella sua interezza, è possibile scorgere un'imitazione dell'alternanza tra solista e orchestra come in un concerto. Questo spiega il perché il materiale musicale sia così eterogeneo, come vedremo nel seguito.
La costruzione del brano è riassumibile con: un'area di proposta A (btt.1-60), cadenza (btt. 61-86), un'area di ripresa variata A' (btt. 86-158), coda (btt. 159-181 Fine).

Area di proposta: lo studio inizia in Fa minore, in 2/4 "Allegro, agitato molto", acefalo sul secondo ottavo e subito presenta l'accostamento di due cellule molto diverse, una rapida discesa a mani alterne seguita da un I-V-I con le ottave che insistono sui semitoni. Questo inizio può essere visto come subito come un'alternanza solista-orchestra a causa del contrasto tra i rapidi accordi raggruppati in una piccola estensione che suonano quasi "a vuoto" e il pieno suono delle ottave alternate al basso. Lo schema si ripete e a battuta 7 si aggiunge un'altra cellula andando a formare l'inciso tematico che d'ora innanzi guida l'intera composizione, quasi come un ostinato. L'armonia, è inutile ribadirlo dopo aver visto tutti gli esempi precedenti, si basa sul Fa minore ma gioca molto sull'enarmonia per passare rapidamente e per nota comune a tonalità molto distanti in brevissimo tempo.
A battuta 13 il gioco di iterazioni che si stava delineando fino ad un attimo prima viene bruscamente interrotto e comincia una sospensione sul Si (sensibile del Do, V di Fa, in poche parole la dominante secondaria) in cui l'alternanza tra solo e tutti si fa più netta e il botta e risposta più serrato. Il tutto viene concluso alle battute 17-19 concludendo sul Do e lasciando spazio all'emergere del tema, completo e lirico, sempre in contrasto con gli accordi alternati.
Da battuta 22 in avanti la melodia in Fa minore emerge evolvendosi in in un culmine in Do bemolle maggiore (enarmonico del Si maggiore), dando ampio sfogo al canto che prima era stato compresso e ridotto a delle fugaci apparizioni in mezzo al marasma e, sfruttando l'enarmonia, si sposta verso una conclusione al Mi bemolle minore, aumentando la carica drammatica del momento (bt. 42).
Segue la riproposizione del momento di sospensione con l'alternanza tra il "vuoto" e il "pieno" (btt. 42-53) e una coda in cui fa capolino ancora la melodia di prima costruita su accordi diminuiti, armonicamente ambigui, che assecondano la discesa cromatica verso il basso, il tutto su un tappeto di rapide terzine che obbligano il pianista ad articolare in vari modi le dita.

Cadenza: da battuta 61 a 86 c'è la solita lunga cadenza alla Liszt, con un disegno grossomodo piramidale (prima crescente verso un culmine e poi discendente) che rimescola i brevi incisi del tema stringendo il tempo sempre di più fino a precipitare contro la dominante di Fa minore, dove si conclude.

Area di ripresa: comincia da battuta 86 con la solita discesa di accordi alternati e il ritorno del tema in Fa minore, nuovamente lirico e libero secondo gli slanci poetici del compositore. Ancora Liszt sfrutta l'enarmonia per prolungare il più possibile il momento che comincia ad evolversi in una lunga progressione da battuta 108, conducendo al vero punto culminante dell'intero studio: il "disperato" inciso (btt. 126-136) in cui il canto viene a trovarsi formato da una discesa di ottava Reb-> Reb e l'inciso iniziale rovesciato (inversione delle melodie delle battute 37-38, 102-103 e ripresa del tema della Ricordanza alle battute 51-54). 
Questo inciso, a lungo preparato e atteso termina sospeso su una 7° di dominante, annuncio dell'imminente fine del brano. A battuta 136 ricomincia la sequenza di sospensione, questa volta su pedale di tonica e sempre in tonica segue anche la coda sugli accordi diminuiti (btt. 148-158) che si infrange contro una brusca fermata, quasi come un treno al capolinea. Alla battuta 159 c'è una novità: la cadenza che in precedenza aveva occupato un notevole intervallo di tempo qui viene compressa in un precipitato di 7° diminuite, quasi improvvisate, che mantengono ancora la tensione creatasi a questo punto e seguite da una corona. E' un punto molto importante perché, malgrado non ci sia più nulla da aggiungere al discorso fatto sin qui, c'è un'ultima sorpresa ad attendere sia il pianista (che dovrà soffrire il punto più arduo e qui ha bisogno di un attimo di riposo) che il pubblico.

A battuta 160 parte la coda: la cellula tematica del tema viene qui ancora più compressa all'interno della terzina di semicroma, in un tempo rapidissimo, disegnando un lungo arabesco di ottave che è anche il passaggio più delicato dello studio: il dramma raggiunge il suo apice e si avvia alla tragica conclusione su una sequenza di accordi in Fa minore (btt. 170-181).

n. 11 Harmonies du soir

Ecco un altro pezzo famoso e sovente suonato, dal titolo altamente evocativo e dal notevole sviluppo. Ci stiamo avvicinando alla conclusione del viaggio, cominciato col preludio, passato attraverso le eroiche gesta di Mazeppa, i fuochi fatui e il viale dei ricordi. Il titolo fa riferimento alle poesie di Alphonse de Lamartine (1790-1869), poeta e politico francese, più volte fonte di ispirazione per Franz Liszt (si pensi alle sue Harmonies Poetiques et Religeuses, tratte proprio dai versi di quest'ultimo). Il titolo non pare fare riferimento ad una poesia in particolare ma, leggendo attentamente Le Soir tratta dalla raccolta "Méditations poétiques" (1820) si notano delle somiglianze tra l'argomento dei versi e l'andamento della musica. Non bisogna confondere queste Harmonies du soir con l'omonima poesia di Charles Baudelaire, scritta posteriormente a questa suite di Liszt.
Anche questo studio rientra nella categoria dei pezzi a cui il titolo è stato appioppato dopo la stesura, in quanto è stato poco modificato rispetto alla sua precedente versione, giusto l'eliminazione del materiale ridondante dagli accompagnamenti e la modifica la tessitura nella parte centrale. Malgrado ciò il titolo risulta ben adattato alla musica e, leggendo i versi di Lamartine, vi si possono scorgere gli elementi di un tipico tramonto ritratto dai pittori romantici del XIX secolo; nel seguito vedremo quali.

Innanzi tutto lo studio ricalca vagamente lo schema della forma-sonata, bitematico e diviso nelle canoniche tre sezioni di esposizione, sviluppo e ripresa. Ciò che fa la differenza, rispetto ad una classica sonata, è come queste sezioni vengano utilizzate dal compositore: ognuna di queste ha dimensioni molto diverse rispetto alle altre e anche un carattere totalmente diverso. La forma in questo caso è un puro e semplice schema che aiuta a non perdersi e quasi si dissolve nelle naturali evoluzioni del materiale musicale. E' difficile anche definire il materiale di studio del pezzo, perché non si focalizza su una tecnica in particolare e non aggiunge né toglie niente rispetto a quanto è già stato scritto fino a questo momento; esso è grossomodo un esercizio per i mignoli, gli arpeggiati e gli accordi.

Esposizione (btt. 1-78): l'ingesso del tema è preceduto da una lunga anacrusi in La bemolle maggiore, V di Re bemolle, in cui compaiono alcuni frammenti di quello che sarà il vero e proprio tema. Questo entra ufficialmente a battuta 9, in Re bemolle maggiore, 4/4 e "Andantino" ed è costituito esclusivamente dagli accordi alla mano sinistra che si muovono sui gradi della scala di Re bemolle con dei passaggi cromatici che rendono flessibile la melodia (ossia ricca di spunti da sfruttare nel seguito). Il tema fluisce su un pedale di La bemolle maggiore. Segue una piccola area di sviluppo (btt. 15-22) modulanti tramite enarmonia (prassi ormai consolidata nel corso della suite). 
Questa parte sembra adattarsi bene ai versi: 
"Le soir ramène le silence. 
Assis sur ces rochers déserts,
Je suis dans le vague des airs
Le char de la nuit qui s'avance."
Liszt rappresenta con i suoni l'avanzata dell'oscurità tramite la tranquilla melodia del basso, piano e accompagnata in modo essenziale, sempre in piano, creando un'atmosfera sognante e serena, evocativa di qualcosa di crepuscolare.

Dopo la breve presentazione del tema di accordi, a battuta 15 viene introdotto un secondo elemento, cromatico, che si alterna a spezzoni delle sequenza precedente, in un crescendo sonoro e temporale, partendo da un pp e portando al "poco animato" della battuta 23, naturale risoluzione di questo gesto. Si può ben notare l'evocazione dei versi :
"Vénus se lève à l’horizon ;
À mes pieds l’étoile amoureuse
De sa lueur mystérieuse
Blanchit les tapis de gazon."
La lunga sequenza di accordi arpeggiati da battuta 23 a 33, di grande effetto emotivo e tecnico (uno degli scopi di questo studio), secondo me, cerca di accentuare proprio quel "amoreuse" e la corsa verso l'alto suggerisce il sorgere delle stelle in cielo.

Alla battuta 29 si cambia completamente tonalità grazie all'enarmonia Dob-Si, passando ad un tenero Mi maggiore e successivamente, per cromatismo, a Do maggiore. E' una modulazione molto interessante, quasi inavvertita, che sembra la naturale soluzione di continuità del discorso precedente ma che invece è molto ardita, collega tonalità molto lontane tra loro e viene condotta sostanzialmente per nota comune. L'ambiguità tonale continua fino alla battuta 37 dove inizia una chiara progressione che da Sol Maggiore (che a sua volta è un VI diminuito del Si maggiore, dominante di Mi maggiore; tutto ruota attorno alle alterazioni dei gradi della scala cercando di prolungare l'azione il più possibile senza mai ripetere la stessa cosa, in Wagner questo diventa la "melodia infinita") si porta ad un radioso Si maggiore, V di Mi, preludio che qualcosa di importante sta per succedere. Dopo un momento appassionato (btt. 49-54) il tutto si spegne ed entra il secondo tema dello studio, in pp e in Mi maggiore e che costituisce una lunga pausa prima dello sfogo di quello che ci è stato anticipato fino ad adesso.
Il secondo tema è una semplice melodia accompagnata da lunghi arpeggi al basso, in tipico stile Liszt e che richiama vagamente la Consolazione n. 2; esso ferma l'azione con un momento lirico e ben impostato nella tonalità, che conclude con naturalezza nella nuova sezione a battuta 79, lo sviluppo, che è anche il punto più importante del pezzo.

La poesia continua così:
"Doux reflet d’un globe de flamme,
Charmant rayon, que me veux-tu ?
Viens-tu dans mon sein abattu
Porter la lumière à mon âme ?"
seguito da una lunga serie di invocazioni.
La descrizione di un globo in fiamme e l'arrivo improvviso della luce sono il paradigma ideale della passione. nell'ambito del Romanticismo e per Liszt è la scusa buona per scatenarsi: a battuta 79 inizia lo sviluppo, in tempo "Molto animato", snocciolando subito la sequenza di accordi del primo tema trasportato in Mi maggiore. Qui il compositore entra nel vivo dello studio obbligando il pianista a suonare accordi ribattuti e accordi presi di salto con ritmi diversi, accompagnati da ottave spezzate. Alla battuta 90, il gesto è poi iterato in una progressione che rapidamente e con impeto porta al ritorno del Re bemolle maggiore e al ritorno del secondo tema, che qui viene dissimulato come accordi di accompagnamento, mentre viene rimarcato un La bemolle come pedaledi dominante, preparatorio al seguito.
Alla battuta 101 la situazione si ribalta e il tema torna in rilievo alle parti estreme, intervallato da scale di accordi e raggiunge il culmine, ossia il momento più drammatico tra le battute 109 e 116 con una lunga cadenza di accordi e ottave che termina (btt.117-118) riaffermando definitivamente il Re bemolle maggiore.
A battuta 119 c'è la ripresa in cui viene riproposto il tema dello studio, sempre su accordi in ff e sempre in Re bemolle maggiore. Essa però è fortemente contratta riuspetto all'esposizione e infatti si smorza improvvisamente, con un passaggio molto espressivo oscillante tra Sol bemolle maggiore e minore (btt. 129-130) che porta ad una breve ripetizione delle prime note del secondo tema, anch'esso in Re bemolle maggiore. 
Segue una lunga coda di accordi arpeggiati che svanisce sempre più nel piano e si perde nel vuoto (btt. 134-154) come volesse seguire gli ultimi versi:
"Venez !… Mais des vapeurs funèbres
Montent des bords de l’horizon :
Elles voilent le doux rayon,
Et tout rentre dans les ténèbres."

Anche se le evocazioni poetiche sono state pensate a posteriori, questo è un pezzo di grande inventiva e raffinatezza in termini di tecnica, gestione della timbrica e del suono, armonia e struttura, uno dei vertici di tutta la suite ed infatti è uno dei pezzi di Liszt giustamente famosi.

n.12 Chasse neige

Di tutti gli studi, questo è quello in cui si realizza al massimo la poetica di Liszt del legare il suono all'immagine. Chasse neige, lo scaccianeve, è la tormenta di neve, quel vento impetuoso che alza i mulinelli di neve fresca e polverosa, assai comune in montagna d'inverno (e a maggior ragione ai tempi di Liszt in cui gli inverni erano assai più lunghi e freddi dei nostri).
Siamo alla fine del viaggio idealmente disegnato dai dodici studi, partiti dal Preludio, dal paesaggio e passati attraverso vari stati d'animo e sentimenti, approdiamo qui al punto più lontano dal Do maggiore iniziale e anche al sentimento più contrastante rispetto all'inizio: vivace e carico di aspettative all'inizio, rassegnato, cupo e senza speranza alla fine.

A differenza del precedente, questo pezzo è stato completamente riscritto e della precedente versione è rimasto solo il motivetto in Si bemolle minore: la struttura è molto particolare e originale, tutto il pezzo si basa su una melodia in Si bemolle minore composta di due proposte e la medesima risposta. La melodia è accompagnata costantemente da tremoli che costituiscono il comparto tecnico dello studio. Durante lo svolgimento non c'è distinzione tra le varie sezioni del pezzo, il tema viene riproposto incessantemente in una sorta di processo iterativo fino ad un punto culminante in cui tutto si ferma e prende posto una lunga cadenza. L'effetto della neve che cade dal cielo e che turbina è dato dai tremoli fitti che accompagnano la litania e da scale cromatiche.

Lo studio è in 6/8, Andante con moto; il tema viene presentato alle battute 1-4 poi avviene la prima iterazione, con la melodia nella zona più acuta che obbliga a lunghi salti per essere suonata.
A battuta 8 entra una seconda idea, un'altra breve melodia costruita attorno al semitono caratteristico del tema (sensibile) che sembra una sorta di prolungamento dello stesso. Anche questa viene iterata, per ben tre volte, prima del rientro del tema a battuta 17.
Il tema viene ripetuto e iterato modulando a Mi maggiore (bt. 22) concludendo affermativamente nella medesima tonalità con V-I (bt. 25).
La melodia ricomincia a fluire in una sorta di stretto a due voci, sempre accompagnata dai tremoli, che forma una progressione che conduce precipitosamente alla battuta 36, culmine e conclusione di questa prima parte in cui ci si riporta a Si bemolle minore.

Nella medesima battuta ricompare anche la seconda idea accompagnata da un controcanto che è il rovescio del tema e poi da scale cromatiche che simboleggiano i mulinelli di neve, il tutto si mantiene sul tono della dominante, Fa maggiore. Al progredire delle ripetizioni di questa seconda idea svanisce e lascia il posto alla grande cadenza centrale dello studio, sulle scale cromatiche, con un crescendo sonoro che simula l'impeto del vento (btt. 47-50) e alla cui fine assistiamo ancora una volta al ritorno del tema. Da qui in avanti esso viene ripetuto, sempre sulla tonalità di impianto e prolungato con la seconda idea, creando un episodio drammatico che culmina con l'ultima scala a battuta 64. Segue una breve sospensione su un breve gioco di cromatismi sulle dominanti, poi riprende a fluire il tema, prolungato sulla conclusione per accentuare il momento drammatico. Ricompaiono le scale cromatiche di ornamento a imitare il vento che muove la neve e la massa sonora si fa via via più grave, in un'unica lunga coda, sprofondando nella parte più grave della tastiera. Alla fine, un ultimo guizzo di accordi di Si bemolle minore conclude definitivamente il pezzo e anche la suite.

A questo punto l'opera è conclusa e si conclude anche il viaggio nelle visioni e nei sentimenti tracciato da Liszt gettando le basi per i futuri poemi sinfonici e la musica a programma, essenza della sua poetica, in aperto contrasto con chi afferma che la musica è solo pura astrazione. Questi studi sono un punto di arrivo nella carriera del compositore che, da questo momento in avanti, tenderà ad affrancarsi sempre di più dalle forme classiche già codificate e costruirà delle vere e proprie "cattedrali" sonore sia nella forma che nell'armonia. 

Bibliografia

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