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giovedì 22 aprile 2021

TORRE GABRISA - Una seconda svolta

 TORRE GABRISA 

Una seconda svolta


Un giorno, in tempi decisamente più recenti del 2019, all'improvviso e senza premeditazione, mi è apparsa sulla home di Facebook un post con una richiesta di formare una cordata da parte di un personaggio che avevo tra i contatti ma che avevo perso di vista nel corso del tempo. Vabbè, il mondo è piccolo, perché no? Tanto il Bocia in certi postacci non ci sarebbe venuto perciò tanto valeva cavarsi una soddisfazione, la passione per l'odore di selvaggio non mi è mai mancata.
Io e costui ci diamo appuntamento per la Domenica e ci troviamo in Valdastico, con un caldo torrido già di prima mattina, presso un noto bar posto in curva, punto obbligato per chi transita in questa amena valle (che avevo deciso appositamente per non sbagliare, prevenendo l'altrui disgrazia). E' così che, per la prima volta, faccio conoscenza di Moreno. 
Mi accoglie col sorriso e rapidamente mi carica in macchina alla volta della Val Sorapache. Siamo diretti alla Torre Gabrisa, la più alta delle torri della valle, immersa nella solitudine più totale. 

Tanto per cominciare due parole su questo personaggio e sulla torre: Moreno è l'autore di alcune vie piuttosto audaci intorno a Recoaro e già mi aveva contattato anni prima per aprire la Via delle Streghe sulla Cima Campodavanti, ma a quel tempo avevo delle idee troppo ingenue e non avevo colto lo spirito. La Torre Gabrisa fu invece scalata per la prima volta da Binotto e Dalle Carbonare nel 1951, lungo un itinerario poco ripetuto ma che pare promettente mentre la via su cui ci siamo cimentati è stata aperta da Tranquillo Balasso, Sergio Antoniazzo e M. Benetti nel 2006 attraverso placche e diedri di ottima roccia con una successione di tiri magnifici.

Ci incamminiamo velocemente lungo la Val Sorapache, io arranco perché sono pigro, Moreno accelera il passo andando in esplorazione e fermandosi di tanto in tanto in cerca della mia approvazione con " 'ndemo Sandro, dai che se sta ben qui! Semo a nord, a l'ombra". Io mi limito a fargli un cenno in quanto il sudore gli impedisce di vedere la mia smorfia di disgusto, bestemmiando contro la pendenza del sentiero. Ad un tratto Moreno si blocca, si mette in posa ieratica scrutando l'orizzonte, si rivolge a me e mi dice: "gavemo sbajà!". In cuor mio non riesco né a ridere né a piangere perché l'umidità mi sta facendo rivivere le battaglie nel Vietnam, perciò inconsapevole di cosa sto facendo e seguo il compare, con calma e moderazione, facendo economia di liquidi. 
Moreno, ben deciso a non perdere nemmeno un metro di quota perché Mussolini non torna indietro, traversa quindi su una cengia alberata che diventa sempre più stretta e a picco sulla valle sottostante, finché non si interrompe bruscamente ad un gruppo di alberelli: "nemo zo de qua che tajemo, tanto xe un attimo!". 
Bisogna diffidare degli attimi di Moreno, spesso significano che "in un attimo" risolviamo tutti i nostri problemi alla radice...! 
Io prudentemente preparo una corda e mi calo in doppia lungo il pendio scosceso, arrivando giù tranquillamente mentre il socio esplora la zona. 
"...lo go catà, vien de qua che fem prima!", mi avvio dietro di lui ricominciando ad arrancare lungo un canalone parecchio pendente di blocchi e ghiaie, sempre faticoso, uscendo finalmente fuori dal bosco e dalla sua micidiale umidità per guadagnare il solleone. Risaliamo tutto il canalone fino ad un gigantesco blocco che ne sbarra la sommità e ci obbliga ad uscire a destra lungo una parete di erba e roccette sul III. Moreno parte in quarta ma io, già subodorando il dopo, mi faccio legare e scarrozzare su come un pensionato: appena mossi i primi passi sulla paretina una zolla di erba mi parte sotto al piede e resto appeso, sesto senso!
Guardo l'ora, incredibilmente la nostra variante ci ha fatto recuperare un bel po' di tempo. Non è nemmeno l'ora di pranzo, ma quasi, e ci troviamo alla base della torre, su una selletta silenziosa e solitaria che sa di magico, un piccolo Eden di erba, con un pinetto mugo, piatto e sospeso in mezzo alle nuvole, al tempo, alla vita stessa, nel silenzio.

Ritorno bruscamente alla realtà: Moreno si mette in posizione velocemente per attaccare, io preparo uno zainetto più piccolo e non ho obiezioni a lasciargli la via, sono abbastanza bollito e per una volta approfitto del passaggio. La prima placca, ben mitragliata di chiodi, non è scontata, un VII secco, con un passo strapiombante che da secondo non è esattamente il massimo della comodità, visto il tiro obliquo. Trovo un buchetto per le dita della mano destra con cui riesco ad innalzare i piedi e mi lancio sulla presa seguente senza partire a pendolo a sinistra, poi scalo il diedro seguente, sempre con mirabolanti acrobazie per non finire in mezzo agli strapiombi e mi riunisco al compagno alla sosta. Altra sorpresa: la relazione riporta un tiro inesistente, quindi siamo in anticipo sulla tabella di marcia.
Segue un altro bel diedro che non ha problemi e poi un tiro verticalissimo lungo una lama-diedro a picco sulla base della torre, dove una presa si rompe e mi fa fare un giretto di giostra nel vuoto, nessun problema, mi spingo su e passo il tetto che chiude il diedro, un bel VI+ di quelli che tendono le fibre muscolari. Riuniti alla sosta Moreno riparte e si accanisce contro una lama abbastanza marcia che lo fa sudare per un po', io fortunatamente resto in disparte e non sono bersagliato dalle pietre che arrivano giù; lo raggiungo con qualche bestemmia e percorriamo la breve cresta aggrappandoci ad essa per tenerla assieme fino all'esile vetta della Torre Gabrisa.
La soddisfazione è tanta, la stanchezza pure, la sete ancora di più, però l'acqua va razionata per il ritorno.
Allestiamo la prima delle due lunghe corde doppie che ci portano al canale di discesa e parte ovviamente Moreno, con sicurezza e comodità, ravvisandomi "Ocio ai sassi Sandro, quanto te scendi, parché l'è smarzo!" - "Non c'è problema!".
Appena l'amico parte mi perdo a guardare il panorama, sganasciandomi le mascelle a forza di sbadigliare quando sento un tonfo netto, unico, distinto, che rimbomba intorno come una fucilata e mi giro di scatto: Moreno non si è mosso, è ancora lì sull'orlo del baratro, immobile. Prende a fissarmi con un'espressione neutra, a metà tra chi sta per ridere isterico a causa di un crollo nervoso e chi sta per piangere l'addio. Nel calarsi ha urtato con il piede un sasso che ha centrato le corde molto più in basso, danneggiandone sicuramente una in modo serio, l'altra forse. 
Restiamo immobili senza fiatare, senza nemmeno respirare, a guardarci per alcuni secondi che mi sono parsi delle ore, poi rompo il silenzio: "senti, tira su le corde e valuta l'entità del danno!" - "seto che forse no l'è cussì mae come pare?!" - "tira su e basta e lascia giudicare me!!!".
Le prospettive per toglierci d'impaccio mi paiono agghiaccianti: se entrambe le corde fossero tranciate dovremmo farci strada per la cresta della torre, su terreno ignoto, con quello che ne resta annodato insieme e cercare di arrivare verso la forcella che guarda il Fratòn, oltre la vicina Punta del Vecio e da lì ridiscendere a valle in qualche modo. Ma la Punta del Vecio ha un camino da scendere con almeno una doppia lunga, oppure passando di chiodo in chiodo...non voglio nemmeno pensarci, sono cose che si fanno con la forza della disperazione!
Se una delle corde fosse integra invece potremmo ripercorrere la via al contrario, non sarebbe difficile, solo un po' laborioso ma fattibile; "senti Sandro, una xe solo scalzà ma dentro l'è bona, l'altra corda è apposto, par fortuna il sasso la ga 'pena tocà!" - "bene!!!! Tentiamo allora!!".
Moreno si cala oltre il ciglio e sparisce alla mia vista. Passano attimi di silenzio più totale in cui la stanchezza e il sonno sembrano svaniti, lontani nel tempo, ogni fibra del mio corpo è tesa come la corda di un violino in ascolto di ogni sussulto. Penso a quanto sia fragile la vita e a come siano vane le nostre velleità quando quello che crediamo sotto controllo improvvisamente ci ricorda che il mondo, anzi tutto l'Universo, fa quello che vuole e basta!
Poi, dopo un'altra snervante attesa giunge il richiamo: "Sandro, liberaaa! Se fa!". Mi preparo e mi calo lungo la verticale parete ovest della torre, metro dopo metro, lentamente e con tutti i sensi all'erta; arrivo al danno, è grave ma non al punto da essere pericoloso, vedo lo scorticamento passare lentamente nel discensore, trattengo il fiato e proseguo la calata fino ad approdare al terrazzo di sosta. 
Riprendiamo con la seconda delle due calate in doppia, questa volta meno impressionante della prima perché prima di ripassare per il danno possiamo appoggiare i piedi su qualcosa di solido potendo tirare un grande respiro di sollievo.

Passo a riprendere lo zaino che avevo lasciato alla base della guglia, mi riposo qualche secondo, poi seguo Moreno giù per il canalone parallelo a quello di salita, meglio non insistere con le doppie oggi, e scendiamo per vari franamenti e una selva fittissima di rami e spine che ci riporta giù al fondo della Val Sorapache. Entrambi abbiamo i piedi in fiamme e ci sentiamo come prendere fuoco, perciò ci fermiamo al torrente che qui scorre con un buon volume d'acqua a chiacchierare con due ragazzi saliti a prendere un po' di frescura. Mi sento ringiovanire. 

Alla fine dell'estate io e Moreno siamo in Valsugana alla Gusela di Cismòn a percorrere la storica Paolo de Tuoni, facendo stavolta tesoro di qualche accorgimento. E' l'inizio di un nuovo sodalizio.


torre Gabrisa e Fraton
La torre Gabrisa è il dente affilato al centro, assieme alla bifida Punte del Vecio
A destra è ben distinguibile il Fratòn.

partenza directa Gabrisa
La prima difficile placca

diedro della Directa Gabrisa
Il bellissimo tiro nel diedro verticale

quarto tiro della Directa Gabrisa
Fessura friabile


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giovedì 8 aprile 2021

LA VIA MATTEO MARCOLIN

 LA VIA MATTEO MARCOLIN

Parete del Forte Covolo di Butistone


Durante i vagabondaggi lungo la Valsugana, posto vicino a casa che ormai cominciavamo a frequentare assiduamente, il Bocia ebbe l'idea di aprire una nuova via sulla parete principale della Valsugana, la Parete del Forte o Covolo di Butistone. Esisteva uno spazio libero tra la via Corso Augusto, itinerario sportivo sul pilastro che delimita il più grande e visibile diedro della parete e la Nico e Nico, una via artificiale aperta negli anni '90 del secolo scorso che era caduta nel dimenticatoio.

Durante delle ricognizioni alla base della palestra alla base della parete aprimmo un monotiro di artificiale moderno abbastanza impegnativo proprio al centro della fascia rocciosa. Era intenzione del socio proseguire dritto superando i grandi strapiombi e fiancheggiare la via Nico e Nico o incrociarla per raggiungere più in alto le Traversate, un altro itinerario più a destra.
Io non ero dello stesso avviso: non mi garbava di ripetere per l'ennesima volta uno stile che sulla parete già abbondava buttando alle ortiche una quantità industriale di fix, perché la roccia mal si prestava alla preparazione di un itinerario artificiale moderno, ossia con l'uso di ganci, rivetti, chiodi di tutte le dimensioni e spalmabili. Vidi sulla sinistra dei grandi strapiombi una fessura sinuosa che raggiungeva le Traversate e più in alto un diedro poco accennato che restava libero da ogni tentativo. Le due fessure si sarebbero potute collegare tramite un altro diedro biancastro un po' sulla sinistra ottenendo una linea ancora tutta indipendente sulla parete. 
Ovviamente la natura tiene in gran conto le opinioni dei comuni mortali e questo caso non fece eccezione.

In un giorno d'estate 2018 io e il fedele Bocia cominciammo la scalata approfittando del momento in cui la parete era in ombra, dato che al primo raggio di sole si sarebbe potuto tranquillamente fare una grigliata senza accendere il fuoco. Armato di tutto punto cominciai a salire cercando la maniera più naturale possibile, onde guadagnare metri più velocemente: prima un gancetto su una tacca, poi un chiodo, poi un chiodo a pressione perché la parete è liscia come uno specchio, poi ancora friends dentro una fessura. Ad un certo punto martellai la placca rocciosa che stava alla mia sinistra e cominciò a suonare come un tamburo; un po' a sinistra, nascosta dall'erba, si poteva scorgere una sottile crepa. Chiodo a pressione sulla lama alla mia destra, ben più solida e via. Arrivai alla prima cengia coi primi raggi di sole che mi sciolsero istantaneamente come una candela, approntai la sosta e tornai già dal compagno. Dopo le manovre rituali (secondo la nostra consolidata pratica religiosa) il Bocia ripeté il tiro appena aperto disgaggiando brutalmente tutta una serie di lamelle rotte e appoggiate e bersagliandomi come un tiro al piccione, dopodiché levammo le tende lasciando il progetto a decantare in attesa di tempi più freschi.
Il cantiere si era appena aperto.

Tornammo in inverno, finalmente le temperature erano divenute più tollerabili e potevamo disporre dell'intera giornata. Risalii il primo tiro agevolmente, recuperai il compagno e partii verso la fessura sinuosa che aveva attratto la mia attenzione già l'anno prima. Partito con sfrontatezza armato di friend per cercare di fare il macho e distanziare gli ancoraggi ai futuri ripetitori notai presto che la montagna mi mandava a quel paese: la fessura si presentava col bordo completamente a scaglie rotte che mi toccava staccare ad una ad una per trovare della polpa buona. Via i friend e giù di trapano, brusco ritorno a più miti consigli.
La fessura a questo punto formava un tetto e con dei passaggi su ganci un po' elefanteschi riuscii a traversare a sinistra senza finire cullato tra le braccia del Bocia qualche metro sotto, poi azzardai un passo in libera per riuscire a innalzarmi ma il peso della roba che avevo addosso mi impacciava in tutti i movimenti (altra lezione: corda di servizio), così provai con un dadino in un buco, largo quanto due dita (mmm..!). Ancora trapano e fix e cominciai il traverso a destra che caratterizza la prima parte della via, dimenticandomi completamente dei friend e lavorando di trapano in posizione improba, allungandomi sempre sul lato destro; fortunatamente il "braccio" non mi mancava. Dopo una sequenza di trapanature arrivai su un minuscolo gradino con una pianta e abbozzai la sosta, dopodiché solita manovra, il Bocia sale, ripulisce, appronta la sosta di cala e via giù, ormai le tenebre avanzavano. Cominciava ad intravvedersi una forma ma la parete era ancora lunga!

Non demordemmo: dopo qualche giorno fummo nuovamente in parete. Era un caldo giorno di Marzo del 2019 e il sito era più frequentato del solito, con alcune cordate in movimento sulle vie sportive. Nuovamente su per i tiri appena aperti, questa volta partì il compagno che concatenò in una le lunghezze appena aperte e mi recuperò in sosta, poi ripartii verso la successiva placca. Dal basso avevo visto delle fessure da chiodi ma erano solo macchie di umidità sulla roccia e mancavano pure le tacche per i ganci quindi giù di trapano senza pietà. Lentamente mi innalzai lungo la placca vergine, ovviamente carico come un mulo sfruttato e abusato dal suo padrone, traversai un po' verso sinistra e, dopo un chiodo a pressione rimasto piantato a metà a causa dell'esplosione della roccia in cui lo avevo ficcato, approdai ad una rampa di roccia facile con un chiodone artigianale, punto in cui passava la via delle Traversate. 
Dal punto in cui ero, a causa della verdura che infestava la zona, non potevo mandare giù un po' di carico al compagno, così cominciai a innalzarmi sfruttando il chiodo presente. Sentii un sussulto e guardai l'ancoraggio: l'infingardo stava pensando di andare a spasso e stava lentamente sfilandosi dal suo posto. Armeggiai col trapano con la mano sinistra e puntellai i piedi alla buona, trattenendo il fiato: giù un fix e via, finalmente su un bel terrazzone, comodo e largo. Recuperai il partner e cominciai ad osservare la parete: il diedro intermedio dove pensavo di passare veniva a trovarsi tutto a sinistra ed era composto interamente da croste di guano (= merda!) e mattonelle buone solo come fermaporta. Non era il caso di insistere lungo la "linea logica". La parete sopra di noi si presentava invece solida e compatta come cemento armato, ma solo al disopra del consueto strato di croste che bisognava disgaggiare.
Non ebbi nessun dubbio a cedere il comando al socio, come si manda avanti la fanteria contro le mitragliatrici nemiche per fargli finire le munizioni, e poi si presentava l'occasione di aprire un bel tiro artificiale. Io mi sedetti comodo sulla terrazza e guardai, come un pensionato, l'avanzamento del cantiere verticale. Il ragazzo partì con circospezione lungo la prima fascia di croste, stranamente silenzioso, poi cominciò il disgaggio delle croste, con la consueta pioggia su di me, cercando di volta in volta un palmo di roccia che non fosse rotta. Guadagnò centimetro dopo centimetro, lentamente, innalzandosi grazie ai ganci in alcuni buchetti, ogni volta riuscendo a trovare un pezzo di pietra solido che non suonasse vuoto. 
Dopo circa quindici metri raggiunse una fascia biancastra prima della parete nera, il punto più impressionante che dovevamo attraversare: il Bocia batté a sinistra, a destra, fece un buchetto piccolo e vi ficcò un gancio per guadagnare un altro mezzo metro ma nulla, tutto era friabile, tutto scollato dal corpo principale della montagna. Fu a quel punto che la forza degli uomini venne meno: "Vecio, xe tutto smarso, non son bon da piantare qualcossa che tegna in 'sto schifo! - Prova ad alzarte un altro fià! - Fago un altro busetto ma, Vecio, me sa che la via xe finìa!".
Ecco, una doccia fredda proprio nel massimo della carica morale! Mi ribellai, come mi accadde ancora in queste situazioni e a costo di adottare soluzioni più estreme come trapanare un fix ogni 10 cm pur di ottenere qualcosa di solido o nel violare la via di fianco pur di passare: "Bocia, prova ancora, varda se te riessi a smartelare quel toco de piera un po' piatto lì in alto! Alzate un altro fià". Egli provò ad alzarsi al suo limite e martellò all'incirca al termine della fascia bianca, un tratto più piano e un po' spostato dall'asse dei chiodi: dopo qualche colpo il martello trovò un punto che non emetteva il suono della grancassa e lì potè entrare un bel chiodo a pressione. 
Era fatta: il punto chiave della scalata era stato vinto ed ora il Bocia si apriva la strada verso l'alto lungo la parete nera senza preoccupazioni, a ritmo costante come un T-34. L'unica cosa che lo fermò fu l'arrivo della sera. Seguì la consueta discesa e rientro a casa. La via era fatta per metà ma ora si presentava il problema di come salire la metà superiore senza bivaccare sulle staffe.

Passò il tempo e giunse il momento propizio alla fine di Agosto del 2019. O meglio, dopo aver subito il lavaggio del cervello da parte del partner fino a fare penetrare nel mio inconscio il desiderio dell'impresa, venne il momento di andare lassù malgrado le temperature decisamente proibitive. Questa volta optammo per un'approccio diverso: calarci dalla sommità della parete, posizionare le corde fisse e chiodare fino ad esaurimento batterie per poi tornare ad opera compiuta. Un primo tentativo andò a vuoto perché finimmo totalmente da un'altra parte, il secondo andò bene: mi calai con circospezione lungo la muraglia orientandomi coi chiodi di Nico e Nico per trovare il giusto punto dove eravamo arrivati e pervenni ad un terrazzino al centro del bastione. Il compagno mi raggiunse dopo poco e cominciai a scrutare il punto in cui proseguire la calata quando capii dove eravamo: esattamente sopra il diedro che avevo individuato dal basso. Peccato però che quest'ultimo fosse la brutta copia di quello più basso: una faccia era accettabile ma l'altra era una catasta di mattonelle scollate dalla parete e rette da un albero ivi cresciuto. 
Ora, su una montagna normale, non mi sarei fatto scrupolo a levare di mezzo quel cesso a suon di martellate ma su questa parete c'era il rischio concreto che i pezzi prendessero il rimbalzo sbagliato e finissero sulla ferrovia o superassero il paramassi (difficile ma mai dire mai). Fine della linea logica e forse della via.  Per il momento scesi lungo il diedro, approntai una sosta alla fine della corda e rientrai su, giungemmo in cima alla parete a notte fonda e con una fame da squali. 
Ritornammo la mattina seguente cercando di partire il prima possibile per usufruire delle ore di ombra come negli episodi precedenti, peccato che in cima alla parete, per la conformazione della valle, la luce arrivasse decisamente prima e che quindi fin da subito iniziò la cottura. Raggiungemmo la fine della corda fissa e lasciai calare il compare fino all'ultimo metro ad una cengia più in basso mentre io mi sistemavo alle operazioni di assicurazione; mi sentivo già in fonderia ed ero ben contento di non prendere anche un colpo di caldo.
Al termine della corda il Bocia ebbe lo stesso problema riscontrato metri più in basso: ovunque battesse il martello la roccia suonava come vuota e non c'era verso di ancorarsi a qualcosa di solido. Optammo di deviare dall'idea originale usufruendo di qualche metro della vicina Nico e Nico per poi aggirare l'ostacolo del marciume in mezzo ad una placca grigia molto compatta. Egli allora tornò su da me e cominciò a ridiscendere più a destra verso i visibili chiodi della via accanto chiodando la placca, operazione che condusse con certosina pazienza sotto un sole spietato mentre io stavo per prendere fuoco; poi tornò su completamente esausto mentre io ero ormai stato cremato e insieme risalimmo ancora una volta in cima alla parete, sfiniti e disidratati. Mancava poco a finire il tutto.

Dopo qualche giorno, essendo in vacanza, il Bocia tornò da solo sulla via usufruendo della corda che avevamo lasciato in precedenza e terminò gli ultimi metri lasciati, ma soprattutto disgaggio la parte con le lame rotte facendo avanti e indietro su per la corda e buttando tutto in una fenditura sopra il terrazzino. Questo gesto eroico mi levò un peso dall'anima perché il solo pensare di andare su ancora e rifare la trafila col caldo mi faceva venire voglia di darmi alla briscola.

Finalmente, il 28 Settembre del 2019 terminammo anche gli ultimi metri che mancavano per connettere la parte inferiore con quella superiore; la via era terminata.
Decisi di dedicare la via a Matteo Marcolin, un giovane entusiasta morto per un banale incidente sul Monte Grappa l'inverno dell'anno precedente, mi pareva giusto dedicargli un pensiero lungo le lisce pareti del Canale del Brenta.


inizio della Matteo Marcolin
Il mentre apro il primo tiro

fessura sinuosa sulla Matteo Marcolin
Lungo la fessura sinuosa tra i tetti

terzo tiro della Matteo Marcolin
Placca del terzo tiro

grande placca della Matteo Marcolin
Il grande muro chiave della via

placca superiore della Matteo Marcolin
La grande placca superiore

diedro della Matteo Marcolin
Il problematico diedro finale


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mercoledì 7 aprile 2021

NOSTALGIA DEI ROSSI TRAMONTI

 NOSTALGIA DEI ROSSI TRAMONTI


La via era (ed è tutt'ora) corta!
La via era abbandonata, con chiodi artigianali tratti dagli scaffali e cordini che prima erano i lacci delle scarpe!
La roccia faceva pure un po' schifetto e la base della via aveva un muro di rovi!
La via era però a 5 minuti dalla macchina, strascicando i piedi sotto il carico.
Rimaneva una domanda: perché diavolo mettere le mani su un cesso del genere?
Eh, tornare agli entusiasmi infantili regala un sorso di giovinezza...!

L'idea iniziale di vedere come era messa questa via è stata mia, forse perché Giovanni l'aveva percorsa in solitaria anni prima, forse perché il nome poetico mi aveva ispirato e, sicuramente, perché era comoda. Il Bocia accettò subito la proposta e la sostenne sempre con energia, probabilmente i rossi tramonti lo avevano conquistato nel cuore, sempre ovviamente ignorando quel che davvero lo aspettava.

La via Nostalgia dei Rossi Tramonti (vedi pagine Valsugana e Aperture e Restauri) venne aperta in più riprese da Daniele Lira, in solitaria, nel 1984, lungo il tratto più strapiombante della Parete Fredda, una piccola falesia sita sopra l'abitato di Tezze in Valsugana, ben visibile anche dalla statale.

La prima volta ci trovammo alla base della parete in tre: io, il Bocia e l'accademico Franco Sartori, che inizialmente condivise l'idea di richiodare la sfortunata realizzazione del Lira. Ci avviammo alla base della parete come di consueto, carichi come i muli con fix, staffe, cordame, trapano, ecc. Demmo il nostro tributo ai rovi battendo una traccia per entrare nella grotta alla base del muro e ci fermammo a fissare il soffitto dell'incavo. 
Fu una vista desolante: il primo chiodo era alto e bisognava cacciare la mano in un buco melmoso e probabilmente abitato, poi seguivano dei chiodi normali avanzati dalla crocefissione del Nazareno e piantati in una crepa di roccia biancastra ammuffita e poi la riga di chiodi a pressione artigianali e costituiti da una vite, che di vita forse ne serbava un vago ricordo, che stringeva una piastrina tagliuzzata da qualche avanzo mi fonderia; il tutto era rigorosamente coperto da uno spesso strato di ruggine. Dai chiodi a pressione, forse bontà di qualche ripetitore, pendevano dei cordini nuovi che sembravano una beffa come il mettere la porta di ferro dopo il furto dei gioielli.
Malgrado la sensazione di fatica che ci pervase tutti, belli e brutti, Franco partì a petto in fuori attaccando la placca liscia addolcendola subito con un bel chiodo a pressione di sua fabbricazione. Passò quindi ad una clessidra larga come una matita e passata con uno di quei "lacci da scarpe" che ho citato in precedenza: nessun problema, altro chiodo a pressione! Continuò con questo lavoro in posizione sempre più estenuante a causa della distanza degli ancoraggi e del fatto che il soffitto era completamente orizzontale, fino al bordo del tetto. 
Da questo punto in poi poteva cominciare a tirare un sospiro di sollievo perché finalmente avrebbe potuto cominciare a salire in verticale poggiandosi sulla roccia. Franco cominciò allora a procedere in avanti lungo la parete, mollando giù di tanto in tanto qualche mattonella instabile (come se il resto fosse stato solido) e arrestandosi in alcuni momenti a causa di buchi nella chiodatura. 
L'apritore della via aveva usato alcuni chiodi normali che in seguito furono rimossi, in quanto non proprio economici come la spazzatura che aveva ficcato dentro fino a quel punto, così sulla via erano rimasti dei passi in libera oppure da chiodare pregando che la lastra dietro cui venivano infissi non decidesse di fare sciopero proprio quel giorno. 
Franco non ebbe pietà: chiodi a pressione, un po' distanziati ma presenti, e via, fino alla sosta appesa sotto il secondo tetto. 
Lo raggiungemmo, io procedetti in coda e recuperai tutto il materiale, tolsi ancora qualche scaglia rotta su cui inevitabilmente andavano a finire i piedi. Dovetti ammettere che malgrado le apparenze la parte in placca e il tratto orizzontale del tetto avevano il loro perché: un gesto atletico e ragionato e ogni metro faticosamente e lentamente conquistato. Non fosse stato che per fare il tetto decisi di fare un esperimento e di utilizzare il mio secchiello (il freno meccanico) con un cordino troppo sottile: dovetti fare il tiro letteralmente con una mano sola, l'opposta al braccio del "single", con grande gioia degli addominali!
Ora che arrivammo alla fine del tratto il giorno già se n'era andato e non restò altro da fare che buttare le doppie per rientrare alla base. La fatica era stata molta, la giornata fu molto calda ma fu una bella soddisfazione e il lavoro stava assumendo il carattere di un'opera pia. Il grosso era fatto, ci dicevamo...si, dicevamo!
Era il 22 Maggio 2017.

Non tanto tempo dopo io e il Bocia tornammo sulla parete in un momento imprecisato, per provare ad andare avanti col lavoro di chiodatura ma il caldo, la ripetizione del tetto, la mia carenza di energie e da ultimo il fatto che rimasi incastrato a qualche centimetro da terra impossibilitato a muovermi per un errore banale, fecero si che rinunciassimo e demandassimo a tempi migliori. Era la disorganizzazione più totale, una lezione buona per i tentativi successivi.

Si accavallarono impegni e progetti più stimolanti e io mi impuntai che la Nostalgia dovesse essere demandata a giornate con brutto tempo o come riserva, perché andarci a infognare sulla Parete Fredda con il clima caldo e ottimo delle belle stagioni e per di più su una via già aperta, avrebbe voluto dire farci ridere dietro anche dalle galline.
Passò più di un anno e arrivammo a tempi più prossimi, il 2018, anzi il giorno 11 Novembre, quando io e il Bocia decidemmo di fare una seconda puntata alla via. Questa volta, molto più furbescamente, decidemmo di saltare il tetto della grotta servendoci di un'asta allungabile per passare la corda direttamente nel fix a bordo tetto e da lì scalare la placca verticale fino alla prima sosta, recuperare i sacchi e poi proseguire. 
Dopo qualche tentativo da parte di un Rossi che fantozzianamente cercò di attaccare il moschettone con la corda tramite un'asta sottile come un fuscello, che si piegava ondeggiando fastidiosamente, di un Bocia che risalì in modo elefantesco la povera corda faticosamente fissata, finalmente qualcosa si mosse e ben presto il partner arrivò alla tanto agognata sosta appesa sotto il secondo tetto.
Venne il mio turno di salita e grazie alla bontà del socio che lasciò una serie di staffe appese sotto il soffitto, riuscii a guadagnare i chiodi e a raggiungerlo non senza un notevole sforzo. Fortunatamente il compare era muscoloso abbastanza da occuparsi del recupero del fardello pieno del materiale di scalata in autonomia. 
Il Bocia era più fresco di me quindi si fece carico del trapano e dei fix e cominciò l'opera di sostituzione della spazzatura consunta che sporgeva dal tetto: si distese gaio e tripudio in orizzontale per trapanare il foro, poi cominciò a diventare più serio e determinato nell'opera di battitura dell'ancoraggio per assumere infine la posa dell'eroe che lotta contro i demoni durante il proseguimento.
Restai appeso alla sosta sotto al tetto per un tempo indefinibile, ascoltando i suoni della battaglia titanica che si andava consumando sopra la mia testa, unita ad una certa quantità di detriti che volava giù oltre il soffitto, fino a quando giunse il tanto sospirato richiamo: "molla tutto e vieni!".
Chiodo, staffa, staffa e chiodo e su, con grande fatica superai il tetto e cominciai la risalita della placca successiva che il socio aveva disgaggiato adeguatamente. Arrivai alla sosta che ormai cominciava a far buio (era Novembre), umido e abbastanza freschetto. 
Guardammo il tiro successivo: la via aveva questa caratteristica, ossia man mano che si saliva l'attrezzatura peggiorava sempre di più e lasciava presagire che oltre il primo tiro ben pochi fossero saliti, forse sul terzo eravamo addirittura i primi ripetitori.
Poche ciance e giù le doppie per tornare a terra, questa volta il davvero grosso del lavoro era stato fatto e alla puntata successiva saremmo venuti ancora più accorti per risparmiare tempo e portare a termine l'opera.

La volta successiva non tardò ad arrivare e il 9 Dicembre, con un tiepido sole, io e il Bocia fummo nuovamente alla base della via.
Iterammo lo stesso procedimento della volta scorsa: asta, fissaggio della corda al chiodo esterno, recupero, con la variante che questa volta il socio sarebbe salito oltre la prima sosta srotolando tutta la corda e così riducendo i tempi. La sua salita andò liscia e io potei sperimentare un metodo di risalita della corda speleologico con la maniglia jumar in alto e un bloccante ventrale, che mi avrebbe assicurato una risalita veloce e poco faticosa. 
L'esperimento funzionò così bene che rimasi immediatamente bloccato, appeso come un cretino, dopo i primi 10 centimetri, impossibilitato a muovermi! In quel momento si palesarono solo due opzioni: tagliare la corda, che non era mia (!!) ma che mi sarebbe toccato rifondere per giustizia, oppure tentare di innalzarmi a forza di braccia sulla corda per poter sganciare il ventrale incastrato. 
Dopo un'ora di tentativi e di bestemmie quasi poetiche la seconda operazione mi riuscii e potei riappoggiare i piedi per terra.
Il problema risiedeva nella corda troppo molle sotto di me che veniva trascinata dal bloccante ventrale e che non riusciva a scorrere bene; la soluzione mi venne come un'illuminazione lungo la via di Damasco e appesi lo zaino al capo scarico della corda e in pochi minuti di dondolamenti nel vuoto raggiunsi il Bocia che cominciava a perdere fiducia nell'umanità.
Provai io questa volta, ancora coi muscoli caldi per la risalita, ad andare avanti e mi avventurai lungo la terza lunghezza su chiodi precari e facendo una fatica bestiale a brandire il trapano, che invece era giusto per il braccio del mio partner. Arrivai sotto il terzo tetto sostituendo tutti i mucchietti di ruggine che un tempo furono stati chiodi e quindi cedetti il posto molto volentieri al compagno perché altrimenti un bivacco non ce lo avrebbe cavato nemmeno Caifa.
Dopo le manovre di rito il Bocia si ritrovò alla posizione che occupavo precedentemente e superò agevolmente il tetto arrivando allo spigolo della parete quando giunse: "Vecio, la via xe finìa chi! Nol vedo pi ciodi! - Varda ben sulla destra, dovarìa esserghe dei ciodi pi a destra verso il pilastro che sae fino in zima. - No Vecio, ea xe porpi finìa!".

Che inchiappettata! Tutta questa fatica per una quindicina di metri che finivano su un terrazzo erboso nel nulla! Probabilmente Daniele Lira, stufo di perforare a mano e vedendo che l'impresa sarebbe stata ancora lunga, girò semplicemente a sinistra a una terrazza erbosa e quivi si apprestò a scendere. Il tiro appena fatto aveva infatti l'aria di non essere mai stato ripetuto, tanto era ridotta male la chiodatura. 
Bene, il fedele socio approntò una sosta di calata all'ultimo chiodo e mi raggiunse nuovamente alla sosta e insieme ci calammo fino a terra. Io partii per primo e lui mi seguì immediatamente dopo. Mancava però l'ultima vendetta della Parete Fredda perché egli strinse il nodo bloccante della calata in corda doppia talmente tanto che, giunto nel vuoto ad una decina di metri da terra, rimase completamente bloccato, appeso come un salame.
Approfittai, da persona adorabile che sono, di andare a prendere il coltello che avevo lasciato in macchina, comodo e rilassato, facendo finta di partire e tornare a casa, mentre intanto piovevano maledizioni.
Alla fine della vicenda sopraggiunse anche una guida alpina, che era venuta a vedere la possibilità di aprire una falesia di dry tooling nella grotta e che si complimentò con noi per aver resuscitato il cadavere dopo un così duro lavoro!


grande tetto
Franco che chioda il grande tetto



bordo del grande tetto
Sempre lungo il grande tetto

Nostalgia dei Rossi Tramonti
Lungo la parete verticale

strapiombi
Recupero del sacco durante l'ultimo tentativo

terzo tiro Nostalgia dei Rossi Tramonti
Lungo il terzo tiro di corda

ultimo tetto
Ultimo tetto, la via finisce alla pianta qualche metro sopra

risalita
Io durante l'intrepida risalita.


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domenica 4 aprile 2021

LA VIA NUOVA - VIA MARISA AL MURO DEL PIANTO

 LA VIA NUOVA

 Via Marisa al Muro del Pianto


Il 2017 è stato sostanzialmente un anno di passaggio e di rinascita anche se al tempo ancora non lo sapevo, la fine dei grandi esami che dovevo sostenere con ansia per avere dei titoli di studio, l'inizio del corso di specializzazione a Trapani, periodo molto denso di attività musicale, l'apertura della prima via e il perfezionamento della fallace tecnica alpinistica che possedevo fino ad allora anche grazie alla dedizione ad esercizi specifici per migliorare la resistenza e la forza nelle braccia e nelle dita dei piedi.

Durante un'uscita precedente in Valle del Sarca in cui partecipò anche il redivivo Stefano, io e il Bocia conoscemmo l'accademico Franco Sartori che ci propose alcuni chiodi di sua fabbricazione, che uso tutt'ora in ogni occasione e che sono di ottima qualità. Si tratta di chiodi in ferro dolce per calcare, piuttosto robusti e che hanno prestazioni pari o migliori di quelli certificati da negozio.
Il Bocia contattò in seguito Franco per poter perfezionare la sua tecnica su roccia e in arrampicata artificiale, nel mentre io procedevo con i miei impegni, fino al giorno in cui uscì la proposta: apriamo una via nuova.
Innanzitutto bisogna dire il dove: il Muro del Pianto, che abbiamo battezzato dallo stillicidio quasi perpetuo canzonando ben più famosi muri, è una fascia rocciosa situata nella stretta forra della Val Gadena, in Valsugana, in passato solcato da alcuni itinerari che pretendevano di essere sportivi e poi dimenticato. La roccia è andante, in alcuni punti solida ma in molti altri decisamente non bella.
Poi bisogna dire il come: l'unico modo per rivitalizzare una parete come quella, nel punto più aggettante, è in artificiale, moderno possibilmente.
L'idea mi piacque per la novità rappresentata, anche se il mio entusiasmo era relativo perché gli altri due nel frattempo avevano già cominciato i lavori e io facevo solo da ospite. 

La linea della via, per quanto piccola, era ardita: si snodava lungo una placca assai strapiombante e serpeggiando tra dei tetti raggiungendo poi un tratto spiovente sopra questi. Poi ci sarebbe stato da valutare cosa si sarebbe potuto fare al di sopra.
La prima volta che erano venuti, Franco aveva sperimentato dei chiodi a pressione corti di sua fabbricazione che però non facevano molta presa nella roccia spugnosa della parete, così quando arrivammo alla base tutti e tre gli toccò un improbo lavoro di valutazione e sostituzione di tutti quelli piantati. Dopo una mattinata passata per l'operazione, finalmente Franco ci chiamò dalla sosta dove potemmo riunirci tutti e tre in scomodità: ne risultò un bel tiro con diversi passaggi su ganci sempre ben protetti da chiodi ora solidi e da alcuni fix.
Nella fase successiva il Bocia partì volontario e baldanzoso (come sempre ignaro di quel che l'attendeva) per chiodare la placca successiva, grigia, senza la più piccola scalfittura. Superò un tetto sempre a suon di fix e poi piegò a sinistra verso una grotta: qui venne il bello!
Una volta entrato nella grotta, non senza difficoltà, trovò un vecchio cavo di traino in acciaio e cominciò a martellare tutte le pareti della caverna che tuonavano come un tamburo. Dopo alcuni minuti in cui non si capiva cosa stesse succedendo Franco chiese al Bocia di recuperarlo nella grotta con fare un po' militaresco e salì con circospezione fino alla cavità. Ciò che avvenne lassù, lontano dalla mia vista, non posso dirlo per intero ma la suspense ci fu davvero (come cantava Faber). Un tempo interminabile dopo giunse il richiamo al sottoscritto di smontare tutto l'ambaradan e di salire, cosa che costituì un sollievo perché non ne potevo più di stare sulla mia tavola in legno appeso con dolori in posti che non immaginavo di avere. Li raggiunsi e ci scambiammo tutti e tre una stretta di mano per la riuscita della piccola ma pur sempre nuova impresa e ci calammo nel vuoto fino a terra con le ultime luci del giorno che se ne andavano. 
Come coronamento della giornata positiva le corde si incagliarono nel recupero e il buon Franco, energico e baldanzoso, fu offerto volontario per risalirle districarle, con la consueta sequenza di improperi e sacramentazioni.


Il muro del Pianto dove si snoda la via.

Azione sul primo tiro

Strapiombi

Tetto del secondo tiro

La risalita delle corde fisse come regalo al termine delle difficoltà

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venerdì 2 ottobre 2020

NEL RIDICOLO - VIA MAESTRI A SAN LEO

 NEL RIDICOLO

Via Maestri-Alimonta a Rocca San Leo


La via Maestri-Alimonta a Rocca San Leo  mi era costata già tre tentativi in precedenza, due con Paolo molti anni prima e uno col Bocia: il primo abbandonato perché attaccammo tardi, col maltempo improvviso in arrivo e una cordata di biellesi che mettevano il nervoso a Paolo, gli altri due abortiti esclusivamente a causa del meteo che in quella zona del riminese, a causa della vicinanza ala mare, imperversava abbastanza violento quando arrivavano perturbazioni consistenti.

La via aperta da Cesare Maestri ed Ezio Alimonta era una sorta di esperimento, completamente in arrampicata artificiale, effettuato nel 1969 per provare il compressore del Cerro Torre e per sensibilizzare l'opinione pubblica al mantenimento della Rocca di San Leo che a quei tempi non versava in buono stato. Un tentativo avveniristico per l'epoca, considerando che la rupe è in arenaria e i chiodi a pressione utilizzati dal Bigio entrano nella roccia per poco meno di 3 cm.

Quel giorno di Novembre del 2016, dopo il faticoso periodo del diploma, pensai che un modo adatto a rimettere le mani sulla roccia fosse proprio questa via, corta e artificiale, che richiedeva più metodo e costanza che allenamento specifico e così ci ritrovammo nuovamente ai piedi della rocca dopo aver superato l'orrendo boschetto ripido e pieno di schifezze gettate dall'alto che porta alla parete. 
Come le altre volte cominciammo a salire e siccome avevo sempre cominciato io e ormai l'inizio lo conoscevo a memoria, lasciai al Bocia l'onore del primo tiro che risalì con calma e tranquillità; io lo raggiunsi con l'andazzo del pensionato alla scomoda sosta. Il tempo era caldo, eravamo carichi moralmente, leggeri, già ad una buona quota e ciò mi parve di buon auspicio. 
Partii per il tiro seguente, dove la parete da strapiombante diventava verticale e si rivelò un poco più difficile del primo per la chiodatura un po' lunga; raggiunsi la scomodissima sosta appesa sotto un tettino, dove era apposto il libro delle firme. Fin qui ancora nulla di strano, tutto da manuale, malgrado fossimo già nel pomeriggio mancava solo un tiro per arrivare in cima e l'avremmo fatto senza nessun problema, fosse arrivato il buio ci avrebbero pensato i riflettori della Rocca a illuminare la via. Recuperai il Bocia, cominciò a salire dapprima con buon ritmo, poi sempre più lentamente, quasi a scatti, poi si fermò per un po' e riprese solo dopo a salire e sbucò lentamente fuori dallo strapiombo. Lo vidi avvicinarsi a me completamente inondato di sudore, aveva una faccia a metà strada tra chi ha lavorato in miniera e chi ha paura del dentista. C'era chiaramente qualcosa che non andava, forse aveva accusato della stanchezza, carenza di liquidi o semplicemente non era in giornata (è successo molto spesso anche a me, per scalare ci vuole il massimo comfort spirituale). 
Gli domandai se se la sentiva di fare il tiro successivo per uscire dalla parete e mi disse di si, anche perché il cambio di posizione e il tempo che volava velocemente suggerirono di risparmiare i convenevoli. Non chiesi oltre, mi disposi per la sicurezza, entrambi facemmo una pausa ristoro e tutto tornò alla normalità.
Eravamo a buon punto, bastava fare solo l'ultimo tiro, nulla era stato lasciato al caso. Solo che...una vocina mi diceva che c'era qualcosa di sbagliato in quella scalata, un fatto che non riuscivo ad identificare ma che non mi faceva stare tranquillo. Mi concentrai sul presente e misi a tacere la coscienza.

Il socio ripartì a buon ritmo, ormai completamente ripreso e ciò mi confortò abbastanza perché sentii che di lì a poco saremmo stati al ristorante a mangiare e a festeggiare la salita portata a termine in questo luogo incantevole. Si alzò velocemente e uscì dal tratto giallo e aggettante di parete entrando in un grigio colatoio dove le difficoltà avrebbero dovuto cominciare a scendere. Ad un tratto le corde si fermarono, non sentii più alcun suono e solo poco dopo mi mise al corrente della situazione: "vecio, qui o xe saltà un ciòdo o qualchedùn ga sbajà aa reasiòn, parché el passo l'è davvero longo!!!" (Vecchio, o qui si è staccato un chiodo o qualcuno ha sbagliato a relazionare  la via perché il salto è davvero lungo) - "varda che ghe dovarìa esserghe n'appejo ala to sinistra, ciapao, cargate su e moschetona el ciodo" (Guarda che ci dovrebbe essere un appiglio alla tua sinistra, usalo e poi acchiappa il chiodo sopra) - "varda che de qua 'ndò ca te disi nol ghe xe gninte, el passo l'è questo!" (Guarda che dove dici te non c'è nulla, il passaggio giusto è questo qui) - "pensito de riussire a farghea?" - "Par mi si, ghe provo" (pensi di farcela? Secondo me si, ci provo).
Non vidi nulla di quello che accadde sopra di me ma dagli sbuffi e dalle imprecazioni (che ho omesso anche dai discorsi, per non turbare gli animi sensibili e fragili) il Bocia diede il meglio di se stesso, riuscendo a passare il liscio muro a suon di cliffhanger e uno spuntoncino. Grandioso! Chissà cosa sarebbe toccato a me appena in seguito. Il socio continuò a salire nel colatoio, lentamente ma regolarmente, lo vidi riapparire lontano da me, ormai a circa quattro metri dal bordo del muro, in direzione della torre della Rocca. Il giorno stava lasciando il posto alle tenebre ma ormai era fatta, anche se fossi salito mentre l'oscurità mi abbracciava non ci sarebbero stati problemi, eravamo ormai fuori e le luci del castello mi avrebbero indicato la via. Tutto è bene quel che finisce bene.

No! Non va tutto bene, anzi va male, malissimo! A due metri dall'uscita il Bocia si bloccò. Provò e riprovò ma niente, usò ancora qualche trucco, i ganci su una minuscola sporgenza ma non tennero, lo intravidi lontano, con l'oscurità che ormai era sopraggiunta, lo sentii in lontananza dimenarsi e bestemmiare ma niente, questa volta si fermò definitivamente. 
Anche urlando non riuscivamo a sentirci chiaramente così misi mano al telefono, tanto c'era piena ricezione, e gli telefonai per avere un aggiornamento sulla situazione. Quello che mi disse mi fece orrore, improvvisamente capii perché sentivo la vocina che mi metteva in allerta e tutto ciò che quel giorno non andava venne a galla in un colpo solo; la sequela di boiate che avevamo fatto era notevole, il giusto miscuglio per il disastro. 

Per capire cosa è successo bisogna fare una digressione e spiegare alcune cose: Maestri aprì la via nel 1969 e per molto tempo quell'itinerario rimase l'unico sulla parete. Una trentina d'anni dopo vennero degli altri alpinisti che aprirono un secondo itinerario, appena sulla destra, lungo un diedro con tetto e all'apparenza anche interessante che, a differenza della via vecchia, riserbava alcuni passaggi in libera a sorpresa, tra cui proprio l'uscita, un muro liscio e atletico che bisognava superare con decisione.
Nell'effettuare il difficile passaggio all'inizio del colatoio è probabile che il socio non abbia notato dei chiodini a pressione che s'innalzavano sulla sua sinistra, o forse gli erano celati alla vista. Così facendo, in quel tratto sbagliò via finendo su quella accanto, in quel punto molto vicina alla nostra e finendo così dritto in trappola. 
Quando si arrampica in artificiale non si usano i normali appigli e appoggi che offre la roccia, o si usano poco, ma ci si affida completamente agli ancoraggi che si posizionano nella parete e li si sfrutta con delle scalette chiamate "staffe", come quelle che si usano per montare i cavalli ma decisamente più lunghe. Per collegarsi agli ancoraggi, a parte la corda e le staffe si utilizza anche un cordino che tramite un meccanismo (ce ne sono di diversi tipi ma sortiscono lo stesso effetto) lo si può allungare o recuperare per tenere il corpo vicino alla parete. Senza questo collegamento tutto il peso dello scalatore sarebbe esclusivamente sulle sue braccia e le sue gambe, rendendo la posizione insostenibile dopo pochi istanti.
Sapendo che la via Maestri-Alimonta era una via completamente artificiale, quel giorno decidemmo di calzare gli scarponi rigidi da ghiacciaio, per mantenere i piedi comodi nelle staffe e agganciammo il meccanismo di recupero del cordino direttamente al moschettone della staffa, per guadagnare qualche centimetro in più e risparmiare energie altrimenti spese in continui allungamenti (da quella volta ho imparato a tenerlo separato e ad agganciare il cordino tramite un uncino che entra direttamente nell'occhiello dei chiodi, sortendo lo stesso effetto e permettendomi di sfilarlo facilmente all'occorrenza). Inoltre quel giorno attaccammo la via in tarda mattinata calcolando poco più di un'ora a tiro, come sulla vicina Penna del Gesso ma tale considerazione si rivelò errata e fummo sorpresi dal buio vicini all'uscita. Nessuno dei due tra l'altro portò le scarpette da roccia.
Tutte queste scelte furono gravide di conseguenze di lì a poco.

Il Bocia rispose al telefono e mi descrisse brevemente il problema: si trovava sotto una placca liscia che presentava un unico appiglio in parte scollato dalla parete e che probabilmente non avrebbe retto allo strappo; inoltre con gli scarponi rigidi ai piedi non riusciva a fare forza da nessuna parte per innalzarsi oltre l'ostacolo. Lo incitai in tutti i modi possibili, anche a provare a prendere il ramo di un rovo che sbucava dal bordo ma era troppo lontano; quei pochi centimetri che dividevano l'arbusto dalle sue mani erano divenuti una distanza siderale, incolmabile, imprescindibile. Era inutile e me lo sentivo e dopo un'interminabile attesa per vedere se la situazione si sbloccava in una qualche maniera, diedi voce al compagno di scendere e che lo avrei calato fino a me per ragionare sul da farsi. Si preparò all'operazione e lo feci scendere lentamente nella mia direzione quando all'improvviso, mentre era in corso l'operazione, sentii chiamare da sotto distintamente e ripetutamente: qualcuno, sentite le voci,  aveva avvisato le forze dell'ordine! 

Io risposi ai ripetuti richiami e l'unica cosa che riuscii a capire era che parlavo con un agente delle forze dell'ordine (non so di che corpo) e che la parete era interdetta a causa del pericolo di crolli (qualche anno prima si era verificato un franamento sul versante opposto) e che dovevamo scendere. 
Nel frattempo il Bocia giunse alla sosta, lo guardai, il suo volto era sconsolato e preoccupato per la situazione in cui ci eravamo venuti a trovare e quindi tutt'altro che nella condizione di poter ragionare.
Mentre cercavo di pensare a cosa sarebbe stato meglio fare, ragionando se avessi potuto fare meglio del compagno là in alto ecco che sentii altri richiami provenire dal basso, sempre da parte dello stesso agente che ci intimava insistentemente di scendere. 
Che sia maledetto! Invece di sbraitare comodo dalla strada, avrebbe potuto portarsi più vicino a noi per rendersi conto della situazione, forse avrebbe convenuto che sarebbe stato meglio lasciarci fare il nostro lavoro in pace. 
Pressato dalle contingenze decisi unilateralmente di scendere abbandonando del materiale sulla parete. Provai a buttare giù le corde e sentii che toccarono qualcosa ma alla base del muro era troppo buio per capire se avessero colpito il suolo o la cima di un albero; nel secondo caso, se mi fossi calato giù fiducioso, mi sarebbe toccata una risalita estenuante per tutti i 60 m delle corde che avrebbe significato finire a notte fonda. Optai per non rischiare e ripercorrere la via al contrario, così cominciai le calate a corda doppia.

Nel cominciare la calata, preso dalla fretta, saltai incautamente il primo ancoraggio e mi trovai a penzolare nel vuoto; provai a pendolare verso sinistra nella speranza di acchiappare almeno un chiodo ma essi erano troppo lontani. Dovevo guadagnare qualche centimetro verso sinistra per riuscire ad afferrare un appiglio e chiesi al Bocia di infilare la gamba sotto le corde, spingendomi un poco più in là. Ricominciai le pendolate fino a che riuscii ad afferrare  l'appiglio sperato e mi avvicinai al chiodo quel che bastava ad agganciarlo al volo e con sforzo indicibile con un moschettone e quindi a proseguire la calata verso la sosta successiva. Avevo l'adrenalina a mille per le manovre eseguite e solo con un grande pena ero riuscito a riportarmi sulla retta via. Dopo aver moschettonato altri due chiodi riesco a raggiungere il punto di sosta e a liberare le corde per permettere al compagno di raggiungermi. Mi sistemai comodo e tirai un sospiro, qualunque cosa fosse accaduta io ero almeno in una posizione comoda e coi piedi appoggiati a qualcosa e non nel vuoto.

Egli cominciò a calarsi lungo le corde arrivando al primo moschettone. Dopo una serie di improperi, visto l'andamento obliquo delle corde, riuscì a sganciare l'ancoraggio e proseguì con apprensione verso il secondo, trovandosi però sempre più fuori dalla verticale della sosta su cui ero io. Al secondo ancoraggio, per riuscire a mantenersi vicino ad esso e riuscire a sganciarlo, il ragazzo imbracciò la longe (il cordino allungabile già menzionato) e si strinse forte al moschettone commettendo un errore fatale, ossia quello di passare tale longe sotto le corde e mettendo fatalmente in tensione entrambe e rimanendo quindi lì bloccato, incapace di muoversi. Ovviamente non potevo slegare i capi delle corde dalla mia sosta in modo che lui potesse gestire il garbuglio o sarebbe finito a dondolare sotto i grandi strapiombi, incapace di salire o scendere, per sempre (o almeno fino a un salvataggio, comunque assai critico). Eccoci dunque entrambi bloccati in mezzo alla strapiombante parete della Rocca con la notte ormai sopraggiunta incapaci di scendere e salire. 
Anche il fatto di avere agganciato il cordino direttamente al moschettone della staffa giocò il suo tragico ruolo: con tutto il materiale in tensione era impossibile sganciare i moschettoni e chiunque ne abbia avuto in mano uno, anche come portachiavi, sa che la loro forma lo impedisce.
Questa sequela di eventi dimostra come le tragedie non siano frutto di un singolo evento ma la somma di tanti piccoli accadimenti, a volte estranei e sconosciuti al soggetto che la subisce, altre volte messi in moto dallo stesso.

Mentre si consumava il dramma alcuni metri sopra di me, io, che me ne stavo tranquillo in sosta incitando il Bocia e cercando di guidarlo nelle manovre per uscire dal garbuglio creatosi ricevetti una chiamata dal basso: qualcuno, credo lo stesso agente di prima ma non ci giurerei, mi chiese di mettersi in contatto e se ci servisse aiuto. Finalmente, ce ne mise di tempo a capire l'immane danno che aveva causato! 
Gli gridai il mio numero il più chiaramente possibile e poi parlammo al telefono, non ricordo chi fosse ma mi chiese cordialmente quale fosse il problema e che, sentendo il chiasso che facevamo, aveva allertato il soccorso alpino. Lo ringraziai per la premura ed egli mi disse che avrei ricevuto a breve una chiamata proprio dai soccorritori. 
Il tempo continuava a passare, io ero appollaiato sul minuscolo gradino di sosta e il partner era su nel suo groviglio, appeso come un salame a stagionare, inerme e sconfitto. Ricevetti la telefonata dei soccorsi che mi avvisavano che dopo la chiamata si erano subito organizzati e stavano facendo convergere nella zona anche un'altra squadra dalla valle vicina, oltre a quella del paese di Pietramora. Mi dissero che sarebbe stata un'operazione difficile per la posizione in cui eravamo, nel mezzo del grande strapiombo, e che dovevano  pianificare accuratamente l'operazione ma che con un po' di pazienza ce l'avrebbero fatta. 
Passò altro tempo, ormai era ora di cena, per le strade non transitava più nessuno, la notte era inoltrata e sebbene non facesse freddo per il mese in cui eravamo la posizione di carcasse appese che avevamo cominciava a farsi decisamente tediosa, con dolori alle anche e alle gambe. Ricevetti una seconda telefonata sempre del soccorso alpino che mi informò che la prima squadra era in posizione e che dovevano attendere anche la seconda per valutare se provare il salvataggio dall'alto o dal basso. Poco dopo vidi accendersi delle luci nei prati sottostanti, al limitare del bosco, segno che c'era una certa attività e delle persone erano in fermento.

Eravamo ancora lassù, si stava facendo tardi e cominciai a temere per il sopraggiungere della notte profonda in quelle condizioni, senza essere attrezzati per il vero freddo e coi soccorsi che stavano tardando paurosamente. Telefonai ai soccorritori una terza volta, per sapere a che punto fossero coi preparativi, la risposta fu evasiva: erano ancora incerti su quale fosse il modo più sicuro per procedere, l'esercitazione l'avevano fatta dall'alto con un argano, dovevano fare il sopralluogo sulla parete e altre amenità simili. In parole povere erano ancora in alto mare e la squadra di supporto era chissà dove per strada. Capii che prima di mezzanotte non ce la saremmo cavata ma soprattutto mi ricordai che nessuno dei due aveva avvisato casa per tranquillizzare i nostri cari su un tale ritardo, nel mese di Novembre. 
Questo pensiero mi accese dentro qualcosa di particolare, molto diverso da quello che era successo sul Col Nudo mesi prima: cominciai a provare un'autentica "fiammata di ritorno" di virilità italica e di orgoglio. Mi vergognai profondamente di avere mosso degli aiuti su una paretina insignificante come quella di San Leo e cominciai a ribellarmi con violenza alla situazione che ci teneva inchiodati là sopra, studiando un modo per sbloccare le impedenze del compagno là sopra, arreso all'aggravarsi degli eventi e passivo verso di loro. 
Fu sotto la spinta della rabbia che mi venne l'Idea: "Bocia, senti, riesci coi piedi a toccare il chiodo sotto quello in cui ti sei bloccato?". Dopo qualche istante mi arrivò la risposta forte e chiara, come se anche lui avesse avvertito il mio stesso sentimento sovversivo: "Si, ci arrivo". Malgrado la sua posizione quasi orizzontale e del tutto spostata dall'asse dei chiodi poteva ancora allungarsi nella loro direzione e toccarne uno: "Ecco bravo, aggancia la staffa che ti è rimasta al chiodo sotto e datti una spinta per scaricare il peso dalle corde, innalza il discensore (attrezzo meccanico usato per frenare lo scorrimento delle corde durante la discesa, N.d.A.) quel che basta ad averlo in alto e allentare la longe. - E poi? Faccio fatica!! - Poi ti recuperi sul chiodo su cui sei incastrato, sciogli il nodo di bloccaggio della longe e la sfili dall'ancoraggio e ti abbandoni alle due corde, lasci lì tutto il materiale e tratterrò il le corde vicino alla parete! "

Dopo un attimo di esitazione l'idea parve buona anche al compare e con fatica si innalzò piano piano fino ad allentare le corde di discesa e infilando il braccio tra staffa e roccia si tenne su quel che bastava a sciogliere il nodo della longe e a sfilarla dall'ancoraggio. Dopo un ultimo momento di incertezza si lasciò andare e roteò liberamente nel vuoto trattenuto a braccia dal sottoscritto per mantenerlo vicino alla roccia. 
Finalmente, dopo ore di attesa, mi raggiunse con l'espressione di chi ha assistito all'apertura delle acque del Mar Rosso ed entrambi ci trovammo riuniti alla sosta. Le corde di sfilarono senza impedimenti e compimmo la calata in corda doppia fino a terra senza intoppi, increduli di avere toccato nuovamente qualcosa di orizzontale, stanchi fino all'inverosimile ma felici di aver salvato quantomeno l'onore. 
Ci sedemmo comodamente alla base, il Bocia si accese una sigaretta e io ritirai le corde con adesso l'ansia di dover rassicurare i parenti a casa che, vista l'ora tarda e le scarse notizie fino a quel momento, sicuramente pensavano all'ammontare di un possibile riscatto da pagare (per tenerci, sia chiaro!). 

Dopo qualche minuto un gruppetto di persone armate di torcia sbucarono dal boschetto, erano i soccorsi che stavano venendo a vedere la situazione e rimasero stupiti come se avessero visto gli alieni, dal fatto che fossimo già a terra sani e salvi e soprattutto tranquilli: "Beh, dai, vi aiutiamo a rientrare nel boschetto...". Giustamente, visto il dispiegamento di forze, dovevano giustificare la loro presenza sul posto.
Arrivammo al campo provvisorio allestito dalla squadra di soccorso e il medico ci visitò per assicurarsi che tutto fosse a posto: "Mi scusi, ma, dato che tutto è andato per il meglio, non è che per caso finiremo sul giornale? Mi spiacerebbe fare la figura dell'ultimi degli idioti visto che ci hanno intimato di scendere proprio dalla fine della via..." chiesi al medico che coordinava le operazioni, a suoa volta incredulo alla mia notizia in quanto non era al corrente di nessun divieto circa l'arrampicata sulla Rocca: "stia tranquillo, al massimo ci saranno due righe sull'Ansa locale e nulla più, d'altronde noi dobbiamo solo certificare che abbiamo ricevuto una chiamata di soccorso e che alla fine non c'è stata necessità di nessun intervento. - La ringrazio per la disponibilità, dottore."

Colgo l'occasione per ringraziare, sinceramente, coloro che vedendoci titubanti e in difficoltà si presero la briga di chiamare le Forze dell'Ordine. Li ringrazio per il pensiero, anche se non era necessario perché, probabilmente, un modo per uscire dalla parete lo avremmo trovato comunque. 

Il giorno dopo eravamo su sette giornali come i "salvati a San Leo"....!!!


Relazione



La Rocca di San Leo con ancora in corso i lavori di consolidamento. La via passa sulla destra.


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UNA GITA DOMENICALE

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