NEL RIDICOLO
Via Maestri-Alimonta a Rocca San Leo
La via Maestri-Alimonta a Rocca San Leo mi era costata già tre tentativi in precedenza, due con Paolo molti anni prima e uno col Bocia: il primo abbandonato perché attaccammo tardi, col maltempo improvviso in arrivo e una cordata di biellesi che mettevano il nervoso a Paolo, gli altri due abortiti esclusivamente a causa del meteo che in quella zona del riminese, a causa della vicinanza ala mare, imperversava abbastanza violento quando arrivavano perturbazioni consistenti.
La via aperta da Cesare Maestri ed Ezio Alimonta era una sorta di esperimento, completamente in arrampicata artificiale, effettuato nel 1969 per provare il compressore del Cerro Torre e per sensibilizzare l'opinione pubblica al mantenimento della Rocca di San Leo che a quei tempi non versava in buono stato. Un tentativo avveniristico per l'epoca, considerando che la rupe è in arenaria e i chiodi a pressione utilizzati dal Bigio entrano nella roccia per poco meno di 3 cm.
Quel giorno di Novembre del 2016, dopo il faticoso periodo del diploma, pensai che un modo adatto a rimettere le mani sulla roccia fosse proprio questa via, corta e artificiale, che richiedeva più metodo e costanza che allenamento specifico e così ci ritrovammo nuovamente ai piedi della rocca dopo aver superato l'orrendo boschetto ripido e pieno di schifezze gettate dall'alto che porta alla parete.
Come le altre volte cominciammo a salire e siccome avevo sempre cominciato io e ormai l'inizio lo conoscevo a memoria, lasciai al Bocia l'onore del primo tiro che risalì con calma e tranquillità; io lo raggiunsi con l'andazzo del pensionato alla scomoda sosta. Il tempo era caldo, eravamo carichi moralmente, leggeri, già ad una buona quota e ciò mi parve di buon auspicio.
Partii per il tiro seguente, dove la parete da strapiombante diventava verticale e si rivelò un poco più difficile del primo per la chiodatura un po' lunga; raggiunsi la scomodissima sosta appesa sotto un tettino, dove era apposto il libro delle firme. Fin qui ancora nulla di strano, tutto da manuale, malgrado fossimo già nel pomeriggio mancava solo un tiro per arrivare in cima e l'avremmo fatto senza nessun problema, fosse arrivato il buio ci avrebbero pensato i riflettori della Rocca a illuminare la via. Recuperai il Bocia, cominciò a salire dapprima con buon ritmo, poi sempre più lentamente, quasi a scatti, poi si fermò per un po' e riprese solo dopo a salire e sbucò lentamente fuori dallo strapiombo. Lo vidi avvicinarsi a me completamente inondato di sudore, aveva una faccia a metà strada tra chi ha lavorato in miniera e chi ha paura del dentista. C'era chiaramente qualcosa che non andava, forse aveva accusato della stanchezza, carenza di liquidi o semplicemente non era in giornata (è successo molto spesso anche a me, per scalare ci vuole il massimo comfort spirituale).
Gli domandai se se la sentiva di fare il tiro successivo per uscire dalla parete e mi disse di si, anche perché il cambio di posizione e il tempo che volava velocemente suggerirono di risparmiare i convenevoli. Non chiesi oltre, mi disposi per la sicurezza, entrambi facemmo una pausa ristoro e tutto tornò alla normalità.
Eravamo a buon punto, bastava fare solo l'ultimo tiro, nulla era stato lasciato al caso. Solo che...una vocina mi diceva che c'era qualcosa di sbagliato in quella scalata, un fatto che non riuscivo ad identificare ma che non mi faceva stare tranquillo. Mi concentrai sul presente e misi a tacere la coscienza.
Il socio ripartì a buon ritmo, ormai completamente ripreso e ciò mi confortò abbastanza perché sentii che di lì a poco saremmo stati al ristorante a mangiare e a festeggiare la salita portata a termine in questo luogo incantevole. Si alzò velocemente e uscì dal tratto giallo e aggettante di parete entrando in un grigio colatoio dove le difficoltà avrebbero dovuto cominciare a scendere. Ad un tratto le corde si fermarono, non sentii più alcun suono e solo poco dopo mi mise al corrente della situazione: "vecio, qui o xe saltà un ciòdo o qualchedùn ga sbajà aa reasiòn, parché el passo l'è davvero longo!!!" (Vecchio, o qui si è staccato un chiodo o qualcuno ha sbagliato a relazionare la via perché il salto è davvero lungo) - "varda che ghe dovarìa esserghe n'appejo ala to sinistra, ciapao, cargate su e moschetona el ciodo" (Guarda che ci dovrebbe essere un appiglio alla tua sinistra, usalo e poi acchiappa il chiodo sopra) - "varda che de qua 'ndò ca te disi nol ghe xe gninte, el passo l'è questo!" (Guarda che dove dici te non c'è nulla, il passaggio giusto è questo qui) - "pensito de riussire a farghea?" - "Par mi si, ghe provo" (pensi di farcela? Secondo me si, ci provo).
Non vidi nulla di quello che accadde sopra di me ma dagli sbuffi e dalle imprecazioni (che ho omesso anche dai discorsi, per non turbare gli animi sensibili e fragili) il Bocia diede il meglio di se stesso, riuscendo a passare il liscio muro a suon di cliffhanger e uno spuntoncino. Grandioso! Chissà cosa sarebbe toccato a me appena in seguito. Il socio continuò a salire nel colatoio, lentamente ma regolarmente, lo vidi riapparire lontano da me, ormai a circa quattro metri dal bordo del muro, in direzione della torre della Rocca. Il giorno stava lasciando il posto alle tenebre ma ormai era fatta, anche se fossi salito mentre l'oscurità mi abbracciava non ci sarebbero stati problemi, eravamo ormai fuori e le luci del castello mi avrebbero indicato la via. Tutto è bene quel che finisce bene.
No! Non va tutto bene, anzi va male, malissimo! A due metri dall'uscita il Bocia si bloccò. Provò e riprovò ma niente, usò ancora qualche trucco, i ganci su una minuscola sporgenza ma non tennero, lo intravidi lontano, con l'oscurità che ormai era sopraggiunta, lo sentii in lontananza dimenarsi e bestemmiare ma niente, questa volta si fermò definitivamente.
Anche urlando non riuscivamo a sentirci chiaramente così misi mano al telefono, tanto c'era piena ricezione, e gli telefonai per avere un aggiornamento sulla situazione. Quello che mi disse mi fece orrore, improvvisamente capii perché sentivo la vocina che mi metteva in allerta e tutto ciò che quel giorno non andava venne a galla in un colpo solo; la sequela di boiate che avevamo fatto era notevole, il giusto miscuglio per il disastro.
Per capire cosa è successo bisogna fare una digressione e spiegare alcune cose: Maestri aprì la via nel 1969 e per molto tempo quell'itinerario rimase l'unico sulla parete. Una trentina d'anni dopo vennero degli altri alpinisti che aprirono un secondo itinerario, appena sulla destra, lungo un diedro con tetto e all'apparenza anche interessante che, a differenza della via vecchia, riserbava alcuni passaggi in libera a sorpresa, tra cui proprio l'uscita, un muro liscio e atletico che bisognava superare con decisione.
Nell'effettuare il difficile passaggio all'inizio del colatoio è probabile che il socio non abbia notato dei chiodini a pressione che s'innalzavano sulla sua sinistra, o forse gli erano celati alla vista. Così facendo, in quel tratto sbagliò via finendo su quella accanto, in quel punto molto vicina alla nostra e finendo così dritto in trappola.
Quando si arrampica in artificiale non si usano i normali appigli e appoggi che offre la roccia, o si usano poco, ma ci si affida completamente agli ancoraggi che si posizionano nella parete e li si sfrutta con delle scalette chiamate "staffe", come quelle che si usano per montare i cavalli ma decisamente più lunghe. Per collegarsi agli ancoraggi, a parte la corda e le staffe si utilizza anche un cordino che tramite un meccanismo (ce ne sono di diversi tipi ma sortiscono lo stesso effetto) lo si può allungare o recuperare per tenere il corpo vicino alla parete. Senza questo collegamento tutto il peso dello scalatore sarebbe esclusivamente sulle sue braccia e le sue gambe, rendendo la posizione insostenibile dopo pochi istanti.
Sapendo che la via Maestri-Alimonta era una via completamente artificiale, quel giorno decidemmo di calzare gli scarponi rigidi da ghiacciaio, per mantenere i piedi comodi nelle staffe e agganciammo il meccanismo di recupero del cordino direttamente al moschettone della staffa, per guadagnare qualche centimetro in più e risparmiare energie altrimenti spese in continui allungamenti (da quella volta ho imparato a tenerlo separato e ad agganciare il cordino tramite un uncino che entra direttamente nell'occhiello dei chiodi, sortendo lo stesso effetto e permettendomi di sfilarlo facilmente all'occorrenza). Inoltre quel giorno attaccammo la via in tarda mattinata calcolando poco più di un'ora a tiro, come sulla vicina Penna del Gesso ma tale considerazione si rivelò errata e fummo sorpresi dal buio vicini all'uscita. Nessuno dei due tra l'altro portò le scarpette da roccia.
Tutte queste scelte furono gravide di conseguenze di lì a poco.
Il Bocia rispose al telefono e mi descrisse brevemente il problema: si trovava sotto una placca liscia che presentava un unico appiglio in parte scollato dalla parete e che probabilmente non avrebbe retto allo strappo; inoltre con gli scarponi rigidi ai piedi non riusciva a fare forza da nessuna parte per innalzarsi oltre l'ostacolo. Lo incitai in tutti i modi possibili, anche a provare a prendere il ramo di un rovo che sbucava dal bordo ma era troppo lontano; quei pochi centimetri che dividevano l'arbusto dalle sue mani erano divenuti una distanza siderale, incolmabile, imprescindibile. Era inutile e me lo sentivo e dopo un'interminabile attesa per vedere se la situazione si sbloccava in una qualche maniera, diedi voce al compagno di scendere e che lo avrei calato fino a me per ragionare sul da farsi. Si preparò all'operazione e lo feci scendere lentamente nella mia direzione quando all'improvviso, mentre era in corso l'operazione, sentii chiamare da sotto distintamente e ripetutamente: qualcuno, sentite le voci, aveva avvisato le forze dell'ordine!
Io risposi ai ripetuti richiami e l'unica cosa che riuscii a capire era che parlavo con un agente delle forze dell'ordine (non so di che corpo) e che la parete era interdetta a causa del pericolo di crolli (qualche anno prima si era verificato un franamento sul versante opposto) e che dovevamo scendere.
Nel frattempo il Bocia giunse alla sosta, lo guardai, il suo volto era sconsolato e preoccupato per la situazione in cui ci eravamo venuti a trovare e quindi tutt'altro che nella condizione di poter ragionare.
Mentre cercavo di pensare a cosa sarebbe stato meglio fare, ragionando se avessi potuto fare meglio del compagno là in alto ecco che sentii altri richiami provenire dal basso, sempre da parte dello stesso agente che ci intimava insistentemente di scendere.
Che sia maledetto! Invece di sbraitare comodo dalla strada, avrebbe potuto portarsi più vicino a noi per rendersi conto della situazione, forse avrebbe convenuto che sarebbe stato meglio lasciarci fare il nostro lavoro in pace.
Pressato dalle contingenze decisi unilateralmente di scendere abbandonando del materiale sulla parete. Provai a buttare giù le corde e sentii che toccarono qualcosa ma alla base del muro era troppo buio per capire se avessero colpito il suolo o la cima di un albero; nel secondo caso, se mi fossi calato giù fiducioso, mi sarebbe toccata una risalita estenuante per tutti i 60 m delle corde che avrebbe significato finire a notte fonda. Optai per non rischiare e ripercorrere la via al contrario, così cominciai le calate a corda doppia.
Nel cominciare la calata, preso dalla fretta, saltai incautamente il primo ancoraggio e mi trovai a penzolare nel vuoto; provai a pendolare verso sinistra nella speranza di acchiappare almeno un chiodo ma essi erano troppo lontani. Dovevo guadagnare qualche centimetro verso sinistra per riuscire ad afferrare un appiglio e chiesi al Bocia di infilare la gamba sotto le corde, spingendomi un poco più in là. Ricominciai le pendolate fino a che riuscii ad afferrare l'appiglio sperato e mi avvicinai al chiodo quel che bastava ad agganciarlo al volo e con sforzo indicibile con un moschettone e quindi a proseguire la calata verso la sosta successiva. Avevo l'adrenalina a mille per le manovre eseguite e solo con un grande pena ero riuscito a riportarmi sulla retta via. Dopo aver moschettonato altri due chiodi riesco a raggiungere il punto di sosta e a liberare le corde per permettere al compagno di raggiungermi. Mi sistemai comodo e tirai un sospiro, qualunque cosa fosse accaduta io ero almeno in una posizione comoda e coi piedi appoggiati a qualcosa e non nel vuoto.
Egli cominciò a calarsi lungo le corde arrivando al primo moschettone. Dopo una serie di improperi, visto l'andamento obliquo delle corde, riuscì a sganciare l'ancoraggio e proseguì con apprensione verso il secondo, trovandosi però sempre più fuori dalla verticale della sosta su cui ero io. Al secondo ancoraggio, per riuscire a mantenersi vicino ad esso e riuscire a sganciarlo, il ragazzo imbracciò la longe (il cordino allungabile già menzionato) e si strinse forte al moschettone commettendo un errore fatale, ossia quello di passare tale longe sotto le corde e mettendo fatalmente in tensione entrambe e rimanendo quindi lì bloccato, incapace di muoversi. Ovviamente non potevo slegare i capi delle corde dalla mia sosta in modo che lui potesse gestire il garbuglio o sarebbe finito a dondolare sotto i grandi strapiombi, incapace di salire o scendere, per sempre (o almeno fino a un salvataggio, comunque assai critico). Eccoci dunque entrambi bloccati in mezzo alla strapiombante parete della Rocca con la notte ormai sopraggiunta incapaci di scendere e salire.
Anche il fatto di avere agganciato il cordino direttamente al moschettone della staffa giocò il suo tragico ruolo: con tutto il materiale in tensione era impossibile sganciare i moschettoni e chiunque ne abbia avuto in mano uno, anche come portachiavi, sa che la loro forma lo impedisce.
Questa sequela di eventi dimostra come le tragedie non siano frutto di un singolo evento ma la somma di tanti piccoli accadimenti, a volte estranei e sconosciuti al soggetto che la subisce, altre volte messi in moto dallo stesso.
Mentre si consumava il dramma alcuni metri sopra di me, io, che me ne stavo tranquillo in sosta incitando il Bocia e cercando di guidarlo nelle manovre per uscire dal garbuglio creatosi ricevetti una chiamata dal basso: qualcuno, credo lo stesso agente di prima ma non ci giurerei, mi chiese di mettersi in contatto e se ci servisse aiuto. Finalmente, ce ne mise di tempo a capire l'immane danno che aveva causato!
Gli gridai il mio numero il più chiaramente possibile e poi parlammo al telefono, non ricordo chi fosse ma mi chiese cordialmente quale fosse il problema e che, sentendo il chiasso che facevamo, aveva allertato il soccorso alpino. Lo ringraziai per la premura ed egli mi disse che avrei ricevuto a breve una chiamata proprio dai soccorritori.
Il tempo continuava a passare, io ero appollaiato sul minuscolo gradino di sosta e il partner era su nel suo groviglio, appeso come un salame a stagionare, inerme e sconfitto. Ricevetti la telefonata dei soccorsi che mi avvisavano che dopo la chiamata si erano subito organizzati e stavano facendo convergere nella zona anche un'altra squadra dalla valle vicina, oltre a quella del paese di Pietramora. Mi dissero che sarebbe stata un'operazione difficile per la posizione in cui eravamo, nel mezzo del grande strapiombo, e che dovevano pianificare accuratamente l'operazione ma che con un po' di pazienza ce l'avrebbero fatta.
Passò altro tempo, ormai era ora di cena, per le strade non transitava più nessuno, la notte era inoltrata e sebbene non facesse freddo per il mese in cui eravamo la posizione di carcasse appese che avevamo cominciava a farsi decisamente tediosa, con dolori alle anche e alle gambe. Ricevetti una seconda telefonata sempre del soccorso alpino che mi informò che la prima squadra era in posizione e che dovevano attendere anche la seconda per valutare se provare il salvataggio dall'alto o dal basso. Poco dopo vidi accendersi delle luci nei prati sottostanti, al limitare del bosco, segno che c'era una certa attività e delle persone erano in fermento.
Eravamo ancora lassù, si stava facendo tardi e cominciai a temere per il sopraggiungere della notte profonda in quelle condizioni, senza essere attrezzati per il vero freddo e coi soccorsi che stavano tardando paurosamente. Telefonai ai soccorritori una terza volta, per sapere a che punto fossero coi preparativi, la risposta fu evasiva: erano ancora incerti su quale fosse il modo più sicuro per procedere, l'esercitazione l'avevano fatta dall'alto con un argano, dovevano fare il sopralluogo sulla parete e altre amenità simili. In parole povere erano ancora in alto mare e la squadra di supporto era chissà dove per strada. Capii che prima di mezzanotte non ce la saremmo cavata ma soprattutto mi ricordai che nessuno dei due aveva avvisato casa per tranquillizzare i nostri cari su un tale ritardo, nel mese di Novembre.
Questo pensiero mi accese dentro qualcosa di particolare, molto diverso da quello che era successo sul Col Nudo mesi prima: cominciai a provare un'autentica "fiammata di ritorno" di virilità italica e di orgoglio. Mi vergognai profondamente di avere mosso degli aiuti su una paretina insignificante come quella di San Leo e cominciai a ribellarmi con violenza alla situazione che ci teneva inchiodati là sopra, studiando un modo per sbloccare le impedenze del compagno là sopra, arreso all'aggravarsi degli eventi e passivo verso di loro.
Fu sotto la spinta della rabbia che mi venne l'Idea: "Bocia, senti, riesci coi piedi a toccare il chiodo sotto quello in cui ti sei bloccato?". Dopo qualche istante mi arrivò la risposta forte e chiara, come se anche lui avesse avvertito il mio stesso sentimento sovversivo: "Si, ci arrivo". Malgrado la sua posizione quasi orizzontale e del tutto spostata dall'asse dei chiodi poteva ancora allungarsi nella loro direzione e toccarne uno: "Ecco bravo, aggancia la staffa che ti è rimasta al chiodo sotto e datti una spinta per scaricare il peso dalle corde, innalza il discensore (attrezzo meccanico usato per frenare lo scorrimento delle corde durante la discesa, N.d.A.) quel che basta ad averlo in alto e allentare la longe. - E poi? Faccio fatica!! - Poi ti recuperi sul chiodo su cui sei incastrato, sciogli il nodo di bloccaggio della longe e la sfili dall'ancoraggio e ti abbandoni alle due corde, lasci lì tutto il materiale e tratterrò il le corde vicino alla parete! "
Dopo un attimo di esitazione l'idea parve buona anche al compare e con fatica si innalzò piano piano fino ad allentare le corde di discesa e infilando il braccio tra staffa e roccia si tenne su quel che bastava a sciogliere il nodo della longe e a sfilarla dall'ancoraggio. Dopo un ultimo momento di incertezza si lasciò andare e roteò liberamente nel vuoto trattenuto a braccia dal sottoscritto per mantenerlo vicino alla roccia.
Finalmente, dopo ore di attesa, mi raggiunse con l'espressione di chi ha assistito all'apertura delle acque del Mar Rosso ed entrambi ci trovammo riuniti alla sosta. Le corde di sfilarono senza impedimenti e compimmo la calata in corda doppia fino a terra senza intoppi, increduli di avere toccato nuovamente qualcosa di orizzontale, stanchi fino all'inverosimile ma felici di aver salvato quantomeno l'onore.
Ci sedemmo comodamente alla base, il Bocia si accese una sigaretta e io ritirai le corde con adesso l'ansia di dover rassicurare i parenti a casa che, vista l'ora tarda e le scarse notizie fino a quel momento, sicuramente pensavano all'ammontare di un possibile riscatto da pagare (per tenerci, sia chiaro!).
Dopo qualche minuto un gruppetto di persone armate di torcia sbucarono dal boschetto, erano i soccorsi che stavano venendo a vedere la situazione e rimasero stupiti come se avessero visto gli alieni, dal fatto che fossimo già a terra sani e salvi e soprattutto tranquilli: "Beh, dai, vi aiutiamo a rientrare nel boschetto...". Giustamente, visto il dispiegamento di forze, dovevano giustificare la loro presenza sul posto.
Arrivammo al campo provvisorio allestito dalla squadra di soccorso e il medico ci visitò per assicurarsi che tutto fosse a posto: "Mi scusi, ma, dato che tutto è andato per il meglio, non è che per caso finiremo sul giornale? Mi spiacerebbe fare la figura dell'ultimi degli idioti visto che ci hanno intimato di scendere proprio dalla fine della via..." chiesi al medico che coordinava le operazioni, a suoa volta incredulo alla mia notizia in quanto non era al corrente di nessun divieto circa l'arrampicata sulla Rocca: "stia tranquillo, al massimo ci saranno due righe sull'Ansa locale e nulla più, d'altronde noi dobbiamo solo certificare che abbiamo ricevuto una chiamata di soccorso e che alla fine non c'è stata necessità di nessun intervento. - La ringrazio per la disponibilità, dottore."
Colgo l'occasione per ringraziare, sinceramente, coloro che vedendoci titubanti e in difficoltà si presero la briga di chiamare le Forze dell'Ordine. Li ringrazio per il pensiero, anche se non era necessario perché, probabilmente, un modo per uscire dalla parete lo avremmo trovato comunque.
Il giorno dopo eravamo su sette giornali come i "salvati a San Leo"....!!!
Relazione
La Rocca di San Leo con ancora in corso i lavori di consolidamento. La via passa sulla destra.
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