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venerdì 25 settembre 2020

SOPRAVVISSUTI - CANALONE IMPROVVISO AL GE' DEL CAMP

 SOPRAVVISSUTI

CANALONE IMPROVVISO AL GE' DEL CAMP

Venne il 2016, anno del mio diploma di pianoforte, un esame pesante e lungo, che mi richiese molto studio costante e una certa attenzione nelle mie uscite montane perché se mi fossi fatto del male avrei buttato all'aria parecchio lavoro inutilmente.

Volendo comunque evadere dalla mia prigione come uno scimmione in gabbia coinvolsi il Bocia più nell'escursionismo e nell'esplorazione di alcune zone un po' fuori mano delle montagne più vicine a casa. Fu così che, memore della lettura del libro di Miotto "Pareti del cielo" mi venne l'idea di un tour fotografico nel gruppo del Col Nudo, lungo il sentiero delle Due Forcelle, un giro ad anello sopra la Casera Ditta, in Valle del Vajont. Doveva essere teoricamente una gita per fare fiato e macinare dislivello e che come ricompensa ci avrebbe regalato degli scorci grandiosi a cui pochi occhi avevano dedicato attenzione, senza troppi pensieri. Il problema è che dalla teoria alla pratica passa un intero universo, che la natura se ne frega di noi tristi omuncoli e che purtroppo il pericolo si annida proprio in ciò di cui abbiamo più confidenza. 

Partimmo come da routine e ci incamminammo alla volta della Casera Ditta che raggiungemmo tra una chiacchiera e l'altra in 50 minuti di cammino a larghe falcate. Dopo una piccola pausa ristoro cominciammo a risalire una debole traccia dietro al rifugio che puntava direttamente alla Cima di Camp, una dorsale boscosa in faccia al Col Nudo, quando invece l'idea era di puntare prima alla Forcella Col del Pin e poi di scendere per quel sentiero. Malgrado l'errore la scelta finì per rivelarsi azzeccata in quanto, dopo un'assai ripida salita a bestemmiare sul fogliame viscido, ci trovammo davanti ad un canalone completamente invaso da neve di valanga pressata. Si presentò quindi il dilemma: proseguire o retrocedere? Il Bocia decise per entrambi: avanti! 
In effetti, con gli scarponi rigidi era possibile incidere delle tacche nella crosta della neve e poterne ricavare un appoggio confortevole, così cominciammo lentamente a scalare il canalone, all'inizio un po' prudenti e poi sempre con più ritmo. 
La risalita del canale, in quelle condizioni, non fu particolarmente allegra, non tanto per il pericolo di scivolare, dato che la neve si lasciava modellare facilmente, quanto perché le slavine avevano sradicato tutti gli alberi e cancellato con essi le segnalazioni del sentiero. Ad un certo punto mi accorsi praticamente per caso di una lieve cengetta che si staccava sulla destra portando fuori dal canale nevoso dritta in una macchia di alberi e la imboccai istintivamente trovandovi, per mia fortuna, una segnalazione vecchia su un albero. Percorremmo tutta la cengia, molto stretta e punteggiata di landri (piccole grotte) e risalimmo un ennesimo pendio di erba ripida per sbucare sul crinale della Cima del Camp, in mezzo a campi nevosi ancora consistenti, fuori dalla prima metà del percorso. 

Lo scenario che ci si presentò davanti ricordava l'esplosione di una Tunguska: alberi abbattuti ovunque, nella più totale desolazione; a ciò si aggiungeva il manto nevoso che nascondeva le tracce di passaggio sia degli umani che degli animali e quindi dovemmo cercarci la nostra strada in quel macello, cercando di raggiungere la Forcella del Camp. Dopo un tempo interminabile passato a cercare un passaggio tra gli alberi caduti e i vari scoscendimenti raggiungemmo infine la forcella alle 15,00. Era l'inizio di Aprile e considerando che il percorso normalmente avrebbe richiesto ancora 3 ore di cammino col sentiero perfetto la questione cominciava a farsi preoccupante, soprattutto perché, dopo quanto ci era toccato subire fino a quel momento, non eravamo affatto sicuri che il sentiero sarebbe stato in condizioni ottimali. Inoltre tornare sui nostri passi presupponeva di rifare in discesa il canale nevoso che a questo punto non sarebbe stato più molto confortevole. 

All'improvviso, mentre questi pensieri mi frullavano in testa, vidi una casa ad una distanza ragionevole da noi, in basso, al fondo di una valletta che muore contro la Cima del Camp e detta Val Lagarìa, una laterale del Vajont come la Val Mesaz dove sorge Casera Ditta. Decisi, sotto l'effetto di una sorta di eccitazione nervosa, che la cosa più intelligente da fare era cercare di raggiungere la casetta col percorso più rettilineo possibile per poter rientrare alla macchina ancora con la luce del sole (scelta che alla fine si rivelò ragionevole, anche dopo aver ripercorso il sentiero in senso opposto e con le segnalazioni completamente rifatte). Il Bocia non obbiettò, aveva il volto irrigidito dalla preoccupazione e mi seguì mentre cercavo un percorso camminabile lungo lo spiovente coperto di neve, in mezzo allo sfacelo appena passato. Man mano che procedevo questo accentuava la sua pendenza, divenendo sempre più intollerabile. Ad un certo punto il pendio cominciò a formare un angolo considerevole, troppo accentuato da percorrere senza picca e ramponi, sulla destra scendeva il calanco di una frana e a sinistra un canalone a guisa di imbuto. Scelsi di infilarmi in quest'ultimo e traversai un pendio ripidissimo in mezzo agli alberi, subito seguito dal Bocia che, mentre traversava, osservava inorridito la neve cedere sotto il suo peso e rotolare a valle. Osservai la sua discesa trattenendo il fiato per la tensione mentru lui scendeva un passo alla volta, scavando a calci delle impornte sufficientemente piatte da poter restare in equilibrio mentre dei piccoli blocchi di neve si stacccavano precipitando verso il canale sottostante ed emettendo un sibilo tenue ma sinistro. Fortunatamente tutto andò bene  e mi fermai un momento a riposare ad un albero bello robusto, che formava una piccola piazzola; il Bocia mi superò e proseguì in discesa all'interno del canalone quando subito trovò una spiacevole sorpresa: un collo di bottiglia inclinato a 70°. Carico di fiducia per la traversata appena compiuta non si perse d'animo e, reggendosi ai bastoncini da trekking che affondò con forza, incise la neve con le punte degli scarponi ricavandone delle tacche abbastanza solide da permettere a entrambi di scendere, seppur con grande apprensione (scivolare avrebbe significato arrivare a valle). L'operazione si svolse sotto i miei occhi mentre ero immobile a percepire ogni minimo sussulto, anche se ero consapevole che nulla avrei potuto fare se fosse scivolato e tale "favore" era reciproco.

Dopo una manciata di minuti che parvero eterni entrambi fummo oltre la strozzatura del canale, dove questo spianava leggermente e ciò ci permise una discesa rapida fino a quando terminò la neve; poi iniziarono il fango e il fogliame, scivoloso esattamente come la neve ma senza la possibilità di poterli incidere. 
Scendemmo con molta cautela e dopo un breve tratto in mezzo alla selva il canale presentò all'improvviso un salto verticale, grosso problema dato che non avevamo con noi una corda. Fu un secondo momento di sconforto che richiese alcuni minuti per essere superato e, differentemente dal solito, anche la mia faccia doveva aver assunto un'espressione preoccupata, stando a come mi guardava il socio. Esplorando il bosco alla nostra destra ci incoraggiammo ancora e trovammo che l'interruzione era limitata al solo canale; quando fummo sotto l'interruzione tirammo un primo grosso sospiro di sollievo. 
Passò momentaneamente in testa il Bocia perché avevo bisogno di un momento di tranquillità. Ad un tratto, scendendo un ripido scivolo di foglie mentre io lo lasciavo passare, gli si staccò una zolla da sotto il piede, cadde seduto e iniziò la sua corsa verso il basso guadagnando velocità come (se non peggio) se fosse sulla neve, precipitando verso un abisso insondabile che aspettava solo di ingurgitare carne umana. 
Lo vidi allontanarsi a tutta velocità da me e, alzando lo sguardo, vidi il dirupo davanti a lui: fu un attimo, presi coscienza che era finita e che di lì a pochi istanti mi sarei trovato solo, incapace di chiamare i soccorsi e di aiutarlo, ignaro della sua sorte. Continuai a seguire impietrito la sua scivolata che ora piegava bruscamente a sinistra e si avviava fatalmente verso la fine del pendio, sempre più vicina, ormai solo a due metri di distanza. 
La divina Provvidenza volle che, durante la caduta, il Bocia toccasse violentemente con la chiappa destra un sasso il quale deviò bruscamente la sua traiettoria ed egli finì incagliato contro l'ultimo albero prima del burrone, fermandosi proprio agli ultimi venti centimetri prima dell'ultimo balzo. 
Lì per lì, vedendolo immobile, pensai che si fosse rotto qualcosa e già pensavo che nulla mi avrebbe evitato la tragica scelta che avrei dovuto prendere in quanto eravamo in una zona isolata e senza segnale, quindi in sostanza non sarebbe cambiato nulla eccetto il risparmiarmi l'orrore di vedere sparire l'amico in qualche meandro. Appena dopo però vidi che egli si rialzò piano piano e che necessitava solo di lasciar passare lo spavento, non avendo il fiato per emettere alcun suono. Avevamo sfiorato la tragedia, mi sentii ringiovanire e riuniti alla sua posizione eravamo sollevati che la cosa fosse finita solo con uno spauracchio. Dopo una ben meritata pausa passata a sdrammatizzare riprendemmo il cammino attraverso quell'inferno verde. 

Proseguimmo lungo il canale, ora meno evidente perché in alcuni punti era coperto dalla fitta vegetazione ma procedemmo con tranquillità convinti che dopo l'esperienza passata saremmo stati in grado di far fronte ad altri eventuali imprevisti. Sbagliato!! Poco dopo raggiungemmo un secondo salto, alto circa 15 m con erba verticale e sassi tenuti fermi dal fango, impossibile da scendere senza una corda. Fu il terzo momento di sconforto, il più disarmante fino a quel momento: mi sentii davvero morire dentro e per la prima volta pensai che saremmo dovuti rimanere su quella montagna, incapaci di salire e di scendere, a cercare di passare una notte gelida e penosa fino allo spuntare dell'alba senza avere la certezza di poter fare davvero qualcosa. Avevamo faticato tanto, corso pericoli considerevoli, eravamo arrivati ormai così vicini alla meta e invece tutto si fermò in quel punto, sopra una parete di pochi metri a separarci dal mondo. 
Mentre meditavo sul da farsi, ormai incline alla rassegnazione, vedi che un po' a destra le cime degli alberi che si toccavano, il che segnava un divallamento più regolare del pendio; mi diressi in quella direzione e scoprii che un pino era cresciuto a ridosso della paretina che formava il salto e che i suoi rami si erano inerpicati lungo il pendio come i tentacoli di una gigantesca piovra. Intuii che aggrappandosi ai rami e alle rocce si potesse scendere e con attenzione, lasciandomi scivolare piano piano e centimetro dopo centimetro, riuscii a toccare la base del salto. Guidai il compare attraverso lo stesso passaggio con molta attenzione ma sentii distintamente una nuova, potente e irresistibile energia farsi strada nel mio petto. Era fatta! Sentii che l'ostacolo più grande era ormai alle spalle e mi parve di tornare a vivere, una sensazione potente e pervasiva di tutto il corpo che in quel momento si trovò rinvigorito e al massimo della sua prestazione, nulla avrebbe più potuto fermarci da quel momento in avanti. 

Continuammo ascendere nel canale, adesso più spavaldamente rispetto a prima e poco dopo trovammo un altro salto, un affioramento roccioso che lo sbarrava a metà circa. Andai avanti, questa volta senza stare a guardare troppo a destra o a sinistra e arrampicai le roccette viscide in discesa quando un appiglio mi rimase in mano. Sentii il corpo tremare mentre cercavo di mantenere il baricentro sufficientemente vicino alla roccia per non capovolgermi; iniziai a scivolare coi piedi e a grattare con le unghie ma qualche centimetro sotto il piede sinistro cozzò contro un appoggio piatto e resistente permettendomi di abortire la scivolata e quindi, in un impeto di rabbia, saltai decisamente giù dalle roccette. 
Passai oltre oltre continuando a seguire l'impluvio fino a quando questo cominciò a rinserrarsi tra due muri rocciosi e a compiere delle curve molto brusche, come se fosse un toboga, così scavallai a destra il suo crinale fangoso in preda all'esasperazione e mi misi a correre giù per il pendio, affondando nel fango e incurante di dove fosse rimasto il compagno (di cui però udivo i passi dietro di me) e raggiunsi così il fondo di un torrente. Annaspai ancora nel fango seguendo il corso d'acqua e, presso una cascatella, sbucai su una strada sterrata proprio in prossimità della casa che avevo visto dalla cima. Urlai al compagno che eravamo salvi e che era fatta, eravamo arrivati a fondovalle tutti interi: contrariamente alle impressioni e alle quote topografiche delle cartine, avevamo percorso circa 800 m di canalone e bosco con difficoltà spaventose ed eravamo arrivati vivi e sani.

Stavano per sopraggiungere le tenebre e ci avviammo in fretta lungo la strada che porta a Pineda lungo la sponda del Logo del Vajont, solo che non si intuiva quanta strada avremmo dovuto fare, così chiedemmo ad un signore anziano che indugiava fuori casa; egli ci rispose che saremmo arrivati dopo la curva, oltrepassata la galleria. Certo, come no, sempre chiedere agli indigeni le indicazioni che perché conoscono il posto! Raggiungemmo la macchina si dopo la galleria, ma quasi 3 km più avanti, ormai col buio pesto. 
Il posto in cui eravamo stati era vergine, senza alcuna traccia umana, solo gli animali vi erano stati prima di noi e seguendo le loro tracce avevamo percorso un itinerario nuovo e molto difficile. Lo battezzai Canale dell'Improvviso per la decisione improvvisata di scendere da quel lato, al Ge' del Camp, il torrentello senza nome che scendeva accanto al nostro canale nel rispetto dei nomi locali.

Nel Novembre 2020 sono tornato a Cima Camp e ho percorso il pezzo di itinerario che non avevamo fatto quella volta, ossia partendo da Casera Ditta e salendo a Forcella Col del Pin e poi a Forcella del Camp. A posteriori posso dire che quella volta prendemmo la decisione giusta, il sentiero era infatti franato in alcuni punti e senza segnalazioni l'avremmo sicuramente perso in più punti perdendo tempo prezioso, specie in prossimità di una cresta dove non è affatto intuitivo capire dove bisogna attraversare.

Il Canalone Improvviso è stata la mia prima vera via nuova ed è un peccato che dopo di noi non vi salirà più nessuno, in buone condizioni di innevamento sarebbe un itinerario decisamente notevole e con le corde i salti non costituirebbero un problema. 

Lungo il nevaio di salita

La cengia coi landri

Il canalone nel tratto nevoso poco a monte della strozzatura a 70°

Quasi al termine della neve

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ASCENSIONI AUTUNNALI

 ASCENSIONI AUTUNNALI


Dopo il Diedro dall'Oglio il resto del 2015 trascorse senza avvenimenti degni di nota, tutto da manuale, compresa un'uscita alla Torre Wundt sotto un sole talmente spietato che dovemmo percorrere i camini della parete sud letteralmente saltando da un'ombra ad un'altra, ed eravamo a più di duemila metri!

Il meglio dell'annata però lo avemmo in autunno: riuscimmo a portare a termine "linea di confine" sul Soglio dei Corvi, una parete appena scoperta dall'infaticabile esploratore delle Piccole Dolomiti Tranquillo Balasso e su cui aveva tracciato una serie di itinerari nuovi (aveva cominciato solo l'anno prima). Fu una classica giornata dove tutto andò alla perfezione, lungo un bello spigolo di roccia con passaggi atletici e divertenti, approfittando del tepore di un'alta pressione che faceva tardare l'arrivo della stagione fredda. 
Successivamente fu la volta di un tentativo abortito a causa della partenza ad ora troppo tarda sulla "Tostata del Bostel", un'altra via nuova di Tranquillo Balasso con difficoltà abbastanza sostenute lungo il giallo e strapiombante pilastro del Soglio Bostel, la parete sottostante il paese di Rotzo. Arrivammo in quell'occasione oltre i grandi tetti ma dovemmo ripiegare perché avremmo corso il rischio di trovarci ad arrampicare e fare manovre con la pila frontale in mezzo alla parete. Nonostante ciò riuscimmo comunque a percorrere delle belle e impegnative lunghezze. Nel mese di Dicembre ci trovammo poi a percorrere una via sul Monte Cengio, l'ennesima nuova creazione di Balasso, lungo il pilastro della Terza Pala e chiamata "Loli" che ci regalò una magnifica e atletica scalata lungo diedri e fessure e dove per la prima volta anche il Bocia si trovò alle prese con passaggi di VI (tralascio il fiume di imprecazioni che mi sono beccato per averlo trascinato a soffrire con fraudolenza!). Arrivato Dicembre e con esso il freddo e la neve, oltre ad impegni vari, se ne andò anche l'anno 2015 che tanto era stato colmo di soddisfazioni.


Torre Wundt

Lungo il primo tiro

Nel camino superiore

Vetta della Torre Wundt

Il sottoscritto alla base di Linea di Confine sul Soglio dei Corvi

Il primo tiro visto dall'alto

Valdastico autunnale

Monte Cengio a Dicembre, infondo la Terza Pala con il pilastro della via Loli

Lungo i diedri della via

Il sottoscritto al primo tiro

Tratto chiave della via

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sabato 19 settembre 2020

CIMA DEL LAGO - DIEDRO DALL'OGLIO

CIMA DEL LAGO 

DIEDRO DALL'OGLIO 

Passato il mese di Luglio del 2015, piuttosto caldo e faticoso, venne finalmente un periodo di meritata vacanza e approfittai per organizzare una salita con l'amico svezzato da poco alla montagna e che da poco era divenuto Dottore (nel senso di medico). Come avvenne anni prima andai alla ricerca di una via facile ma lunga per rimettere in sesto le braccia e il fiato dopo il periodo di inattività: aprii la Bibbia del Buscaini sulle Dolomiti Orientali e la scelta cadde su questa via degli anni '50 aperta da Dall'Oglio e Consiglio lungo un regolare diedro nel gruppo di Fanis.

Piazzammo la tenda in una radura abbastanza nascosta lungo il fiume che costeggia la strada che sale alla Capanna Alpina e il Dottore tirò fuori un bel materassino da tenda "matrimoniale" su cui dovemmo dividerci i cm quadrati disponibili, senza agitarsi. Passò la notte con un sonno altalenante ma che tutto sommato rimase calda e la mattina, assonnati e con una pigrizia sopraggiunta come le zecche che non si staccano, ci avviammo alla volta della parete, partendo assai di buon'ora dato che ormai lo stare distesi a contare i minuti era divenuto straziante. Scambiammo giusto due parole con una coppia decisamente più matura di noi che ci superò allegramente nella faticosa salita verso l'attacco, mentre le nostre pance vuote e penzolanti di nullafacentismo ci ostacolavano il cammino. Arrivammo comunque alla base della parete, mentre la coppia di prima si stava alzando lungo lo zoccolo sacramentando abbondantemente malgrado l'apparenza bonaria. Partii anche io e capii subito il perché di tante bestemmie: lo zoccolo era un ghiaione, una catasta di rocce sfasciate e accatastate le quali, oltre a non fornire assolutamente una valida presa, rischiavano di lobotomizzare il compare di sotto (nel mio caso si sarebbero rotti i sassi). Al primo tiro mancai la sosta di pochi metri e dovetti attrezzarne una alla buona coi friend dentro dei buchi non molto rassicuranti (ma vince la quantità). Ai tiri successivi la nuotata continuò, sempre su terreno precario e con notevoli impacci causati dalle corde che, ovviamente, non perdevano occasione di impigliarsi su ogni minima asperità non necessariamente fissa. Arrivammo alla cengia a metà della via esausti e con le mani tremanti vista l'arrampicata del tutto inaspettata che avevamo dovuto affrontare. Indietro non si tornava e quindi avanti!!!

Traversata la cengia verso destra mi portai sotto una nicchia rotonda chiusa da uno strapiombo; nel frattempo il sole si fece cocente malgrado la quota di 2000 m. Dopo qualche tentennamento decisi di infilarmi nell'incavo per rimanere bloccato ancora una volta incerto sul da farsi: bisognerà affrontare lo strapiombo? Devo uscire a destra? Perché non c'è nulla? Le difficoltà non erano eccessive comunque avessi deciso di procedere ma per non sapere né leggere e né scrivere piantai un buon chiodo e uscii dalla nicchia a destra trovando subito un chiodo di via nascosto in un buco. A quest'ultimo seguì un diedro strapiombante faticoso che mi portò ad un misero terrazzino di sosta con un'ancor più misera sosta; la roccia però migliorò decisamente quasi ciò che avevamo passato prima fosse una sorta di selezione. La lunghezza successiva fece dimenticare tutte le tribolazioni: una placca compatta e monolitica che più in alto si chiudeva a diedro e che regalava un'ottima arrampicata su belle e solide maniglie. 

Alla sosta successiva fummo raggiunti da un gruppo di cinque "stagionati" provenienti dalla Toscana e la cui età media era difficile da definire. Probabilmente la somma di tutte le loro età avrebbe coperto il tempo che separava noi da Leonardo. Essi procedevano con una cordata da 3 ed una da due, ci raggiunsero e per cercare di far presto ci sorpassarono cercando di accorpare i tiri con conseguenti ingarbugli delle corde e con il problema ulteriore di suddividere ulteriormente le già non spaziose piazzole di sosta sui magri e usurati chiodi (con conseguenti auguri di "buona salute" rivolti alla loro direzione). Malgrado il caldo torrido e la grande confusione generata dal sopraggiungere delle altre due cordate la scalata procedette a suon di "mi fa male la prostata...ti sto tenendo con le mani...fermati che ho lo protesi all'anca, Maremma maiala...(e non solo quella)" lungo la fenditura principale del diedro, col loro capocordata in testa e io subito dietro. Il diedro qui si fece di proporzioni enormi, fino all'ultimo tiro, magnifico. Alla fine, vista l'evidente stanchezza di noi due e della situazione di groviglio  che si era venuta a creare approfittai della generosità della cordata da due, formata da lui e lei, per avere un passaggio da secondo, rilassarmi un attimo e sveltire l'uscita in cresta. 

Arrivammo in cima alle 17,00, stanchi fino nell'anima ma contenti e soddisfatti ma non era ancora finita. Ci avviammo lungo la discesa, per tracce e con le corde ormai legate per il trasporto fino ad una calata in corda doppia, l'unica di tutta la discesa, in cui il gruppetto di vecchi si ostinò a voler ritirare le proprie corde per sveltire la discesa, secondo loro. Ci costrinsero quindi a sciogliere le corde appena raggomitolate, legarle insieme, calarci, bestemmiare per il groppo che ne conseguì e in tutto a perdemmo quasi un'ora per superare l'ostacolo. Arrivammo giù al Rifugio Scoiattoli stanchi, giusto per un panino, prima di riprendere il sentiero di discesa con la sorpresa che il rifugista ci chiese che fine avessero fatto i tizi dalla prostata ingrossata che non si erano ancora fatti vivi e cominciava ad essere in pensiero. Lo tranquillizzammo dicendo che probabilmente erano già alla macchina e continuammo la discesa. Ritornammo stanchi morti alla radura dove ripiazzammo la tenda e ci riaccomodammo sul materassino matrimoniale che si bucò, e su cui facemmo involontariamente l'altalena per tutto il resto della notte.


Relazione


La Cima del Lago dal parcheggio

La stessa vista dopo il Rifugio Scoiattoli

La base della parete

Lungo la parte centrale del diedro

Lungo l'ultima fessura



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lunedì 17 agosto 2020

IL BOCIA - Si cambia registro

 IL BOCIA

Si cambia registro

Il primo incontro con "il Bocia" avvenne durante il raduno organizzato dall'amico Giovanni al Rifugio Brentari nella piovosa estate del 2014. Il caro amico comune lavorò dietro le quinte per "combinare il matrimonio", tenendo ovviamente i due diretti interessati ignari di quello che li aspettava e fu così che dopo qualche mese ci ritrovammo ad arrampicare sui Colli Euganei, prima a Monte Pirio e poi a Rocca Pendice, tanto per fare muscoli. Il Bocia era volenteroso e fresco di scuola del CAI così cominciai ad aggiungere al suo repertorio di nozioni qualche trucchetto imparato a dura fatica sulla mia pelle. 

Il nomignolo di Bocia glielo affibbiai durante la prima uscita in falesia a Monte Pirio, era inverno ma in una giornata soleggiata. Scelsi lo Spigolo della Grande, la via in assoluto più facile della falesia (ma anche la più carina, secondo me) e mi legai pronto a partire quando il "caiano" cominciò ad apostrofarmi (o meglio, a passarmi la carta vetrata sui gioielli) sul nodo, sul come mettere la corda nei rinvii, sul punto dove stavo salendo quando e se fosse meglio partire più dritti quando ribattei secco: "senti, tasi e 'scolta il vecio che ga i cavei bianchi", così lui di ritorno "ah, cussì mi sarìa el Bocia". Da quel momento mi riferii a lui quasi sempre come a "il Bocia", che in dialetto significa ragazzino, adolescente, inesperto. 

Dopo le prime uscite in falesia, non prive di situazioni pittoresche, venne la primavera del 2015 e con essa la prima vera e propria scalata in montagna. Optai per uno sparuto pinnacolo vicino a Rimini, la Penna del Gesso, che avevo già salito per un itinerario  di scarso interesse (vedi pagina Appennino) nell'autunno con Paolo e Stefano ma scegliendo questa volta la via Diretta allo Spallone, ossia la via più ardua, che obbligava a dei passaggi artificiali. La via cominciava subito con dei passaggi non difficili ma abbastanza atletici tra appigli e staffe, sempre su buoni chiodi, fino alla prima sosta, in cui recuperai il Bocia sorbendomi una buona ora di vento gelido col vento gelido, il minimo vestiario sindacale e la moccola al naso, dato che lo zaino l'aveva lui. Quel giorno, tra l'altro, ci metteva più del solito, mannaggia! Raggelato in quella posizione e coi muscoli intorpiditi, chiesi pietà e lo feci andare avanti sul tiro seguente perché nel frattempo dovevo scongelarmi come lo Scoiattolo dell'Era Glaciale. Dopo una prima esitazione il Bocia proseguì piano piano (ma io ora avevo il vestiario) fino a prendere il ritmo, inaugurando il suo primo tiro da capocordata e raggiunse poco dopo una scomodissima sosta appesa in cui lui era già di troppo. Lo raggiunsi per scaldarmi scoprendo che pochi metri al di sopra della mia postazione la corrente d'aria cessava lasciando spazio ad un sole spietato, malgrado la stagione e proseguii rapidamente verso l'alto con una serie di passaggi atletici fino a sbucare sul grande pianoro della spalla. Il raggiungimento della vetta fu una formalità. Fu una salita di soddisfazione, immersa nel panorama dell'Appennino romagnolo in cui sperimentammo una tecnica artificiale a cordini statici decisamente desueta e poco utile ma che avremmo usato ancora prima di perfezionare il sistema per l'apertura di itinerari decisamente più difficili.

Nei mesi seguenti seguirono alcune altre ripetizioni in cui il Bocia provò anche la progressione da primo di cordata acquisendo gradatamente capacità, come sulla Via Teresa alla Parete Zebrata, e un tentativo fallito di ripetere la via Maestri-Alimonta alla Rocca di San Leo a causa del maltempo (incredibile ma vero, nel riminese è facile incappare in temporali estremamente violenti). Una bella ripetizione fu quella che facemmo alla Pietra Bismantova, scelta come ripiego per il maltempo in montagna nel mese di giugno. Optammo per la via più facile della parete est, ossia la Pincelli-Brianti che sale per canali sopra l'anfiteatro. A differenza della montagna sulla Bismantova splendeva il sole più cocente e spietato e per tutto il giorno non si vide l'ombra di una nuvola. Riserbai a me il tiro chiave della via, un diedro che richiedeva dei movimenti un po' atletici, scalato mentre mi soffiavo sulle dita ustionate dalla roccia non proprio fresca e lasciai andare il Bocia da capocordata sul resto della via. Alle soste i vestiti non avevano più un centimetro quadrato che non stesse per andare a fuoco, perfino gli alluci appena infilati nelle scarpette scottavano. Arrivati all'ultimo camino il Bocia finì per bloccarsi davanti alle "dimensioni" della vulvare fenditura che sbarrava l'eroica ascesa, uno stretto budello che richiedeva dei passi ad incastro e che era troppo stretto. Dopo le prime lamentele prontamente sedate dai miei "incitamenti", uniti dalla prospettiva di passare un po' di tempo ad abbronzarsi, il Bocia provò a entrare con più decisione nel camino, vi si spinse dentro strisciando centimetro dopo centimetro e spinse con tutte le sue forze. Passato un tempo interminabile in cui sognavo il raffreddamento ad azoto liquido dei telescopi il ragazzo saltò fuori dal camino come il tappo da una bottiglia di spumante e volò in alto fino alla sosta dove un escursionista, pietosamente gli offrì un sorso di acqua.

Arrivò in fretta l'estate e il momento in cui mi dedicai al diploma di composizione al Conservatorio che mi tenne impegnato ben tutto il mese di Luglio e quindi per il momento ci fu una pausa dalle avventure in croda prima di riprendere nel mese di Agosto.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/appennino.html

La Penna del Gesso

Il Bocia lungo il primo tiro della Diretta

Verso la scomodissima sosta del secondo tiro

La Pietra Bismantova

Il Bocia si avvia al camino finale

Lungo la via Teresa alla Perete Zebrata

Sempre lungo le placche della via Teresa


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CIMA D'ASTA - Via Lino Egidio

 CIMA D'ASTA

Via Lino Egidio

Il 2014 fu un anno magro e di cui ricordo poco, in parte a causa del maltempo e in parte a causa di problemi di studio ma una delle uscite meritevoli di essere ricordate fu questa. 

Giovanni organizzò quell'estate un meeting di amici tra escursionisti e rocciatori e di questi ultimi riuscimmo a formare due cordate con l'intenzione di percorrere una via sulla bella e granitica parete sud di Cima d'Asta. Avevo già affrontato delle salite fisicamente faticose e pensavo che sarebbe stata l'occasione di rimettermi in sesto dopo tanta attesa ma in verità non sapevo a cosa stavo andando incontro. Ero completamente fuori forma, in un modo che mi sorprese del tutto, peggio che negli anni precedenti e la salita al Rifugio Ottone Brentari fu infatti un supplizio al punto che per togliere la forma quadra al mio posteriore dovetti quasi ricorrere allo scalpello. A ciò ci mettemmo anche il fatto che non volevo assolutamente perdermi la via a Cima d'Asta e che non volevo assolutamente apparire meno degli altri, avevo un'immagine da mantenere (?). 
La salita lungo il sentiero, di per sé non troppo impegnativa, fu sufficiente ad esaurire il mio povero bacino di risorse disponibili, tanto che arrancavo sul sentiero cercando in ogni modo di risparmiare energie e di mantenere un contegno dignitoso, implorando che una bufera, un asteroide o la guerra atomica ponesse fine al supplizio. Per poco non fui ascoltato perché un acquazzone violento ci flagellò per una buona parte della salita, formando torrenti dove prima non c'erano e il freddo pungente si insediò in quota, rendendo obbligatorio il vestirsi pesante.

Arrivai al rifugio abbastanza cotto, con l'impellente desiderio di dormire ma per non fare il separatista mi sorbii tutta la festa della sera per i ritrovati del meeting, tenendomi gli occhi aperti con gli stuzzicadenti. Anche se dormii nel camerone non udii nessun suono fino alla sveglia della mattina.

Il mattino seguente, ancora un po' rintronato dal giorno prima, raccolsi le forze, credendo erroneamente che una notte di cibo e buon sonno m'avesse potuto ristabilire in fretta e mi misi in cammino con Giovanni e con gli altri due arrampicatori per andare a ripetere una via sulla parete di Cima d'Asta. Il primo obbiettivo era la via Roger, una delle vie dure di Cima d'Asta, a perpendicolo sotto la vetta ma le cascate d'acqua che ancora scolavano giù per i camini ci invitarono gentilmente a far ricadere la nostra scelta sulla via Lino Eigidio perché in quel momento era l'unica via che si presentasse meno bagnata (asciutta era pretendere troppo). 
Iniziammo la via sotto un bel sole ma sempre vestiti di tutto punto perché l'astro non era sufficiente a scaldare l'aria, ancora densa di vapori delle piogge cadute nei giorni precedenti e di una brezzolina fredda che saliva dal fondovalle. Gli altri partirono di gran carriera e noi ci accodammo con buon ritmo, sotto delle colate d'acqua gelida lungo lastroni di granito che erano un vero supplizio per mani e piedi. Malgrado il freddo, la via scorse abbastanza tranquilla e veloce con Giovanni in testa fino ai camini terminali quando un tuono rimbombò alle nostre spalle; ci voltammo e ci trovammo improvvisamente in un cielo surreale: la vetta cominciò ad essere inghiottita da nubi nere, segno di un temporale da nord, e dietro sulla valle nubi alcune nubi bianche interruppero il sereno nascondendo altri cumulonembi in arrivo da ovest, il tutto mentre su di noi splendeva il sole. 
Cominciammo a correre verso l'uscita incuranti dei continui rivoli d'acqua mentre i tuoni si facevano sempre più vicini; inutile dire che correre era un modo per mettere le mie energie in riserva, considerando anche il fatto che bisognava tornare poi a valle. Per guadagnare tempo Giovanni prese a recuperarmi a spalla o su degli spuntoni con l'implicito imperativo "vietato volare", specie sul friabile pendio finale cosparso di blocchi traballanti; lo sapevo, era sensato, tenni la concentrazione fino all'ultimo centimetro e tutto filò liscio. 
Alla fine, proprio quando fummo inghiottiti completamente dalle nuvole scure, raggiungemmo la cresta sommitale, fuori dai pericolosi camini della via. Qui tirammo il fiato e incominciammo, o meglio, io incominciai piano piano la discesa lungo il sentiero sulle gande di granito per rientrare al rifugio. Io ero il più stanco della combriccola e rimasi indietro, scendendo con attenzione a gambe rigide perché tendevano ad addormentarsi, abbastanza spossato dalla corsa fatta su per la via e per il poco allenamento che ora cominciava a farsi determinante. Mentre scendevo il dolce declivio che porta al rifugio mi ritrovai sommerso da una grandinata fittissima e circondato da fulmini come in un film di fantascienza. A coronare il simpatico quadretto ci fu il fatto che ero completamente ricoperto dall'acciaio del materiale di arrampicata; provai a infilare la mantella che finì col coprirmi solo in parte e così potei godere l'orgasmo dello zaino inzuppato e della grandine nel collo fino infondo. Raggiunsi il rifugio sano e salvo dopo essermi gustato interamente la grandinata, immerso in un paesaggio invernale che fino ad allora avevo letto solo nei libri. Nella discesa mi cadde anche la corda lungo il sentiero e la mia faccia da zombie convinse Giovanni a fare un salto a prenderla, fortunatamente non era tanto distante. 

La discesa dal Rifugio Brentari fu tranquilla, in un andirivieni di temporali ma col meteo che volse gradualmente al bello e fu in questo momento che feci la conoscenza del "Bocia", futuro partner in nuove e "mirabolanti" imprese.


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La parete sud di Cima d'Asta dal Rifugio Brentari

In azione sulla parte iniziale, quando il meteo era ancora bello

Lungo i bellissimi camini

Verso il laghetto di Cima d'Asta col tempo che va peggiorando

Temporale in arrivo

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sabato 15 agosto 2020

CAMPANILE DULFER

 CAMPANILE DULFER

Venne l'anno 2013 e alla nostra cordata si aggiunse un certo Giovanni, uno con la grinta giusta per affrontare le super vie delle Dolomiti e delle Alpi in genere. 
Paolo desiderava da un po' salire questo celebre campanile dei Cadini di Misurina, perché per un po' se l'era dimenticato e glielo rimisi in testa io, perché avevo letto in un libro che era uno dei più begli spigoli delle Dolomiti (ovviamente chi l'aveva scritto ben si era guardato da esprimere i criteri di valutazione). Combinammo un fine settimana per salirne la classica via di Hans Dulfer aperta negli anni '10 lungo l'affilato e verticale spigolo.

La domenica mattina iniziò piuttosto fredda, soprattutto dopo aver passato la notte nella topaia del locale invernale del rifugio, perché il resto era "pieno" di un corso di laureandi in medicina (quattro gatti), però c'era un cielo terso e promettente. 
Ci avviammo tutti e tre con calma alla base della torre che sembrava dietro l'angolo, forse perché il movimento portava calore. 
La via si dimostrò impegnativa e delicata fin da subito, molto più di quanto non dichiarino le relazioni circolanti in quanto è quasi completamente schiodata e non aveva l'aria della super classica in cui fare la fila, ossia come l'avevano venduta fino a quel momento. 
Da questo avrei dovuto darmi una svegliata per quanto riguarda certi personaggi che dicevano "ma ai miei tempi noi facevamo, noi brigavamo" e scemenze simili, 'sto paio di palle! "Ai miei tempi" ma col culo di qualcun altro! 
Ci volle ancora un po' per scuotermi ma le mie certezze subirono un primo scossone.

Il secondo tiro, benché tecnicamente facile, ci mostrò subito tutta la delicatezza di un tiro "classico" dolomitico: un lunghissimo traverso di 40  m in cui era vietato volare per tutti i membri della cordata, in quanto non c'erano fessure dove mettere chiodi o altro ma si poteva solo tastare bene la roccia e procedere lentamente. La sosta di recupero poi era una delizia: larga e spaziosa come un comodino, solida come un muro a secco sulla sabbia, che ovviamente bisognava dividere i tre. 
Seguì uno strano passaggio che ci fece perdere tempo ma che dimostrava appieno l'intuito dei primi salitori in quanto i grandi strapiombi che ci sovrastavano venivano aggirati con un tratto in discesa verso sinistra per imboccare un invisibile camino. 
Le lunghezze di corda successive si susseguirono un po' più tranquille, con Giovanni al comando, fino quasi alla cima in cui toccò a me condurre la cordata. Altre due lunghezze su ottima roccia lavorata e in grande esposizione filarono via lisce e senza problemi fino all'ultima placca prima della vetta. 

Sostammo tutti e tre in una grossa nicchia, il solo altro punto in cui rinvenimmo dei chiodi di sosta, compreso il primo tiro e il tratto appena compiuto da me. Dopo un attimo di pausa per riprendere fiato partii per la lunghezza seguente, ovviamente con un solo chiodo in 50 m di V grado e scarse possibilità di rinforzare (via super classica...mavaff...!). Mentre lottavo con uno strapiombo panciuto ci raggiunse un'altra cordata che era salita in velocità lungo il nostro stesso itinerario, senza zaini, senza vestiario (noi sbattevamo i denti dal freddo e questi erano in maglietta e pantaloncini) con solo le corde e tre friend per essere più "leggeri" (chissà cosa avrebbero fatto se si fossero trovati fuorivia, magari in una placca panciuta senza possibilità di proteggersi e di retrocedere. Ma vaff...anche a 'sti modaioli che si credono chissà chi!!!). 
Approfittai allora per chiedere loro un "passaggio" grazie alle loro corde tese, visto che erano svelti e ci stavano scavalcando, allo scopo di velocizzare il nostro arrivo in vetta, dato che nel mentre si andavano addensando delle nubi da nord. Molto gentilmente i due acconsentirono (menomale) e proseguirono seguiti immediatamente dal sottoscritto. Una volta che il loro capocordata arrivò in sosta gli urlai di tenere le corde bloccate un momento per permettermi di passare una nicchia e raggiungere un buon chiodo e così diedi due possenti bracciate per issarmi su quando sentii arrivare delle urla disperate che mi bloccarono pietrificato, non riuscendo a distinguere le parole. Contemporaneamente un tuono rimbombò tra le vette circostanti e il cielo si incupì di colpo (nel giro di una decina di minuti) facendoci sprofondare nella nebbia. 
Cercai di non badare alle lagne che mi giungevano dall'alto e proseguii verso un diedro fornito di ottima clessidra quando all'improvviso mi piovve addosso una valanga d'acqua mista a nevischio che cominciò ad imbiancare rapidamente la zona circostante e, bloccato in quella posizione infelice, non potei fare altro che sorbirmela tutta sperando nella magra protezione del kwai. Tutto ciò avvenne mentre i miei due soci sghignazzavano allegramente al riparo nella nicchia di sosta.
Il temporale durò per un po', circa una mezz'ora, bastevole a gelarmi il sangue nelle vene, a togliere il sorriso dalle facce dei due compagni e a ridurmi come la spugna servita a Cristo agonizzante. 
Mi decisi a tirare in ballo Giovanni per riprendere il comando facendosi aiutare dalla cordata che ci aveva incrociato e che era rimasta intrappolata come noi nel temporale. Acconsentì senza obbiettare e anche l'altro ragazzo non si oppose. Giovanni mi raggiunse, mi sorpasso e dopo poco arrivammo tutti sulla cima della torre, giusto per tirare un po' il fiato e tentare di scaldarsi un po' al sole, fortunosamente risbucato dalle nuvole, mentre l'altra cordata si avviò direttamente alla discesa. 
In quel mentre Giovanni mi guardò, accennò un sorriso molto amaro e mi sussurrò il motivo del perché mi giunsero delle urla disperate dall'alto, ossia il pericolo micidiale avevamo corso ignari solo poco prima, quando avevo strattonato la corda degli altri due per superare la nicchia strapiombante: il capocordata, che mi aveva rassicurato, lo ribadisco, sul fatto che avrebbe tenuto bloccate le corde per permettermi di issarmi nel tratto più scabroso, visto il temporale in arrivo, aveva nella fretta allestito una sosta e recuperato il compagno, il sottoscritto e Giovanni su un solo friend (specie di cuneo meccanico a molla) malamente appoggiato tra due macigni; se fosse venuto via per uno strattone avremmo avuto sicuramente due morti, uno gravemente inforunato, un altro con qualche escoriazione (grazie alla robusta clessidra) ed uno incapacitato ad intendere e volere. Per fortuna eravamo saldamente  ancorati ai chiodi di sosta nella nicchia.

A questo segue una riflessione: come ho avuto modo di sperimentare varie volte in seguito (questa fu solo la prima), tutto il discorso sui gradi, la tecnica cresciuta in falesia, la velocità sul facile, sicurezza delle dita, ecc., sono solo UN MUCCHIO DI BALLE raccontate da gente ignorante che firma i documenti con la X (ad insulto di gente poco istruita ma che fece la guerra e altre grandi prodezze), che si mette a cianciare di cose che non sa, o che ha solo sentito dire. 
Costoro o mentono per motivi di immagine o dovrebbero fare un pellegrinaggio in qualche luogo santo per la fortuna che hanno avuto e che poi se ne vadano a prenderlo dove non batte il sole!!!! Purtroppo di gente che ciarla ce n'è troppa.

La cosa più importante è essere padroni della tecnica, ossia dell'uso corretto del materiale a partire dai concetti più semplici, non farsi scrupoli nel prendersi il tempo che serve (e se è troppo si torna a casa  prima di inguaiarsi) a progredire sicuri e conoscere il più possibile l'ambiente che si va ad affrontare (inteso anche come luogo geografico). Dopo di questo arriva anche l'allenamento muscolare.

Dopo il momento di religioso silenzio per il dramma appena vissuto iniziammo anche noi la discesa e buttammo la prima doppia sul lato opposto del campanile. 
Giovanni affrontò per primo l'abisso e scomparve alla nostra vista. Dopo un lungo periodo di attesa in cui non si sentiva nulla dal basso io e Paolo cominciammo a chiamare e a inveire verso il poveretto là appeso come un salame fin quando, dopo diversi improperi ed un'attesa snervante arrivò il tanto sospirato richiamo di "corda libera" che significava abbandonare quello stretto fazzoletto orizzontale per fare i conti col vuoto. 
Capimmo poco dopo perché Giovanni era rimasto bloccato, anche se non mancavo di prenderlo in giro per il suo trastullo fanciullesco: le corde infatti non finivano nei pressi della calata successiva ma su un vuoto insondabile da cui sarebbe stato necessario pendolare verso la forcella formata dal campanile col corpo principale della montagna (manovra che rese famosa l'ascensione e che mise nei guai più di qualche ripetitore, come scoprimmo in seguito). Giovanni dovette quindi dondolarsi sugli ultimi centimetri delle corde per riuscire a raggiungere un pianerottolo mentre noi coi piedi ben piazzati a terra lo "incitavamo" a darsi una mossa, ovviamente col rischio che le corde si sfilassero del tutto dal suo discensore. 
Non finì lì, infatti, appena riuniti tutti e tre sulla forcella, le corde rimasero incagliate da qualche parte sopra il grande strapiombo che ci sovrastava, lasciandoci come tre vacche che fissano la discesa di un possente asteroide, mentre la sera cominciava a calare su di noi. Provammo a turno tutti e tre a tirare una delle corde ma nulla, il nodo di giunzione era saldamente incastrato lassù da qualche parte. Ci mettemmo tutti e tre su una corda solo ma nulla, erano immobili come bastoni di legno. Ad un tratto Giovanni ebbe un'idea (che aveva sfiorato anche me ma che non avevo il coraggio di proporre): essendo io il più pesante del trio mi sarei legato con un nodo autobloccante alla corda e ci sarei saltato sopra nel tentativo di strappare il nodo di giunzione dalla sua posizione, con un cordino sarei rimasto attaccato alla sosta principale. Giustamente bisogna mandare avanti i giovani!
L'idea non era per nulla piacevole, data la posizione spaziosa come un tavolino da bar, sospesa su orridi canali dipartentesi dalla piccola forcellina della torre ma, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente le corde cominciarono a scorrere, seppure con molta fatica. 
Qualche centinaio di tentativo dopo era fatta, tutti e tre cominciammo a tornare alla vita dopo questa lunga serie di "emozioni forti". Proseguimmo con le calate che per altre due volte videro le corde incagliarsi. La differenza fu che fummo più previdenti nel buttare le doppie  e fu più facile levarle dai piedi. All'ultima calata in corda doppia Giovanni mancò la sosta finendo su un terrazzino dove fu costretto a slegarsi e ad aspettare la nostra discesa prima di riportarsi in carreggiata, tanto per non farsi mancare nulla. Arrivammo alle ghiaie col buio che avanzava, lieti finalmente di essere su qualcosa di orizzontale, baciando il terreno. Sapemmo in seguito, ripassando per il rifugio, che anche i due che ci avevano preceduto avevano vissuto momenti di terrore lungo la discesa per l'incagliamento sistematico delle corde doppie. Beh, magra consolazione, almeno potevamo dire di non essere del tutto impediti. 
Sulla strada del ritorno, ormai alle due di notte, una pattuglia ci fermò per fare un controllo e ci fece aprire il bagagliaio pensando che fossimo spacciatori di ritorno da una discoteca. 
Fu l'ultima emozione dell'uscita.


Il Campanile Dulfer con lo spigolo.



Momenti di scalata sulla parte alta dello spigolo

Lungo la parte bassa per un magnifico diedro

Il tratto più affilato dello spigolo

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