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lunedì 17 agosto 2020

IL BOCIA - Si cambia registro

 IL BOCIA

Si cambia registro

Il primo incontro con "il Bocia" avvenne durante il raduno organizzato dall'amico Giovanni al Rifugio Brentari nella piovosa estate del 2014. Il caro amico comune lavorò dietro le quinte per "combinare il matrimonio", tenendo ovviamente i due diretti interessati ignari di quello che li aspettava e fu così che dopo qualche mese ci ritrovammo ad arrampicare sui Colli Euganei, prima a Monte Pirio e poi a Rocca Pendice, tanto per fare muscoli. Il Bocia era volenteroso e fresco di scuola del CAI così cominciai ad aggiungere al suo repertorio di nozioni qualche trucchetto imparato a dura fatica sulla mia pelle. 

Il nomignolo di Bocia glielo affibbiai durante la prima uscita in falesia a Monte Pirio, era inverno ma in una giornata soleggiata. Scelsi lo Spigolo della Grande, la via in assoluto più facile della falesia (ma anche la più carina, secondo me) e mi legai pronto a partire quando il "caiano" cominciò ad apostrofarmi (o meglio, a passarmi la carta vetrata sui gioielli) sul nodo, sul come mettere la corda nei rinvii, sul punto dove stavo salendo quando e se fosse meglio partire più dritti quando ribattei secco: "senti, tasi e 'scolta il vecio che ga i cavei bianchi", così lui di ritorno "ah, cussì mi sarìa el Bocia". Da quel momento mi riferii a lui quasi sempre come a "il Bocia", che in dialetto significa ragazzino, adolescente, inesperto. 

Dopo le prime uscite in falesia, non prive di situazioni pittoresche, venne la primavera del 2015 e con essa la prima vera e propria scalata in montagna. Optai per uno sparuto pinnacolo vicino a Rimini, la Penna del Gesso, che avevo già salito per un itinerario  di scarso interesse (vedi pagina Appennino) nell'autunno con Paolo e Stefano ma scegliendo questa volta la via Diretta allo Spallone, ossia la via più ardua, che obbligava a dei passaggi artificiali. La via cominciava subito con dei passaggi non difficili ma abbastanza atletici tra appigli e staffe, sempre su buoni chiodi, fino alla prima sosta, in cui recuperai il Bocia sorbendomi una buona ora di vento gelido col vento gelido, il minimo vestiario sindacale e la moccola al naso, dato che lo zaino l'aveva lui. Quel giorno, tra l'altro, ci metteva più del solito, mannaggia! Raggelato in quella posizione e coi muscoli intorpiditi, chiesi pietà e lo feci andare avanti sul tiro seguente perché nel frattempo dovevo scongelarmi come lo Scoiattolo dell'Era Glaciale. Dopo una prima esitazione il Bocia proseguì piano piano (ma io ora avevo il vestiario) fino a prendere il ritmo, inaugurando il suo primo tiro da capocordata e raggiunse poco dopo una scomodissima sosta appesa in cui lui era già di troppo. Lo raggiunsi per scaldarmi scoprendo che pochi metri al di sopra della mia postazione la corrente d'aria cessava lasciando spazio ad un sole spietato, malgrado la stagione e proseguii rapidamente verso l'alto con una serie di passaggi atletici fino a sbucare sul grande pianoro della spalla. Il raggiungimento della vetta fu una formalità. Fu una salita di soddisfazione, immersa nel panorama dell'Appennino romagnolo in cui sperimentammo una tecnica artificiale a cordini statici decisamente desueta e poco utile ma che avremmo usato ancora prima di perfezionare il sistema per l'apertura di itinerari decisamente più difficili.

Nei mesi seguenti seguirono alcune altre ripetizioni in cui il Bocia provò anche la progressione da primo di cordata acquisendo gradatamente capacità, come sulla Via Teresa alla Parete Zebrata, e un tentativo fallito di ripetere la via Maestri-Alimonta alla Rocca di San Leo a causa del maltempo (incredibile ma vero, nel riminese è facile incappare in temporali estremamente violenti). Una bella ripetizione fu quella che facemmo alla Pietra Bismantova, scelta come ripiego per il maltempo in montagna nel mese di giugno. Optammo per la via più facile della parete est, ossia la Pincelli-Brianti che sale per canali sopra l'anfiteatro. A differenza della montagna sulla Bismantova splendeva il sole più cocente e spietato e per tutto il giorno non si vide l'ombra di una nuvola. Riserbai a me il tiro chiave della via, un diedro che richiedeva dei movimenti un po' atletici, scalato mentre mi soffiavo sulle dita ustionate dalla roccia non proprio fresca e lasciai andare il Bocia da capocordata sul resto della via. Alle soste i vestiti non avevano più un centimetro quadrato che non stesse per andare a fuoco, perfino gli alluci appena infilati nelle scarpette scottavano. Arrivati all'ultimo camino il Bocia finì per bloccarsi davanti alle "dimensioni" della vulvare fenditura che sbarrava l'eroica ascesa, uno stretto budello che richiedeva dei passi ad incastro e che era troppo stretto. Dopo le prime lamentele prontamente sedate dai miei "incitamenti", uniti dalla prospettiva di passare un po' di tempo ad abbronzarsi, il Bocia provò a entrare con più decisione nel camino, vi si spinse dentro strisciando centimetro dopo centimetro e spinse con tutte le sue forze. Passato un tempo interminabile in cui sognavo il raffreddamento ad azoto liquido dei telescopi il ragazzo saltò fuori dal camino come il tappo da una bottiglia di spumante e volò in alto fino alla sosta dove un escursionista, pietosamente gli offrì un sorso di acqua.

Arrivò in fretta l'estate e il momento in cui mi dedicai al diploma di composizione al Conservatorio che mi tenne impegnato ben tutto il mese di Luglio e quindi per il momento ci fu una pausa dalle avventure in croda prima di riprendere nel mese di Agosto.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/appennino.html

La Penna del Gesso

Il Bocia lungo il primo tiro della Diretta

Verso la scomodissima sosta del secondo tiro

La Pietra Bismantova

Il Bocia si avvia al camino finale

Lungo la via Teresa alla Perete Zebrata

Sempre lungo le placche della via Teresa


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CIMA D'ASTA - Via Lino Egidio

 CIMA D'ASTA

Via Lino Egidio

Il 2014 fu un anno magro e di cui ricordo poco, in parte a causa del maltempo e in parte a causa di problemi di studio ma una delle uscite meritevoli di essere ricordate fu questa. 

Giovanni organizzò quell'estate un meeting di amici tra escursionisti e rocciatori e di questi ultimi riuscimmo a formare due cordate con l'intenzione di percorrere una via sulla bella e granitica parete sud di Cima d'Asta. Avevo già affrontato delle salite fisicamente faticose e pensavo che sarebbe stata l'occasione di rimettermi in sesto dopo tanta attesa ma in verità non sapevo a cosa stavo andando incontro. Ero completamente fuori forma, in un modo che mi sorprese del tutto, peggio che negli anni precedenti e la salita al Rifugio Ottone Brentari fu infatti un supplizio al punto che per togliere la forma quadra al mio posteriore dovetti quasi ricorrere allo scalpello. A ciò ci mettemmo anche il fatto che non volevo assolutamente perdermi la via a Cima d'Asta e che non volevo assolutamente apparire meno degli altri, avevo un'immagine da mantenere (?). 
La salita lungo il sentiero, di per sé non troppo impegnativa, fu sufficiente ad esaurire il mio povero bacino di risorse disponibili, tanto che arrancavo sul sentiero cercando in ogni modo di risparmiare energie e di mantenere un contegno dignitoso, implorando che una bufera, un asteroide o la guerra atomica ponesse fine al supplizio. Per poco non fui ascoltato perché un acquazzone violento ci flagellò per una buona parte della salita, formando torrenti dove prima non c'erano e il freddo pungente si insediò in quota, rendendo obbligatorio il vestirsi pesante.

Arrivai al rifugio abbastanza cotto, con l'impellente desiderio di dormire ma per non fare il separatista mi sorbii tutta la festa della sera per i ritrovati del meeting, tenendomi gli occhi aperti con gli stuzzicadenti. Anche se dormii nel camerone non udii nessun suono fino alla sveglia della mattina.

Il mattino seguente, ancora un po' rintronato dal giorno prima, raccolsi le forze, credendo erroneamente che una notte di cibo e buon sonno m'avesse potuto ristabilire in fretta e mi misi in cammino con Giovanni e con gli altri due arrampicatori per andare a ripetere una via sulla parete di Cima d'Asta. Il primo obbiettivo era la via Roger, una delle vie dure di Cima d'Asta, a perpendicolo sotto la vetta ma le cascate d'acqua che ancora scolavano giù per i camini ci invitarono gentilmente a far ricadere la nostra scelta sulla via Lino Eigidio perché in quel momento era l'unica via che si presentasse meno bagnata (asciutta era pretendere troppo). 
Iniziammo la via sotto un bel sole ma sempre vestiti di tutto punto perché l'astro non era sufficiente a scaldare l'aria, ancora densa di vapori delle piogge cadute nei giorni precedenti e di una brezzolina fredda che saliva dal fondovalle. Gli altri partirono di gran carriera e noi ci accodammo con buon ritmo, sotto delle colate d'acqua gelida lungo lastroni di granito che erano un vero supplizio per mani e piedi. Malgrado il freddo, la via scorse abbastanza tranquilla e veloce con Giovanni in testa fino ai camini terminali quando un tuono rimbombò alle nostre spalle; ci voltammo e ci trovammo improvvisamente in un cielo surreale: la vetta cominciò ad essere inghiottita da nubi nere, segno di un temporale da nord, e dietro sulla valle nubi alcune nubi bianche interruppero il sereno nascondendo altri cumulonembi in arrivo da ovest, il tutto mentre su di noi splendeva il sole. 
Cominciammo a correre verso l'uscita incuranti dei continui rivoli d'acqua mentre i tuoni si facevano sempre più vicini; inutile dire che correre era un modo per mettere le mie energie in riserva, considerando anche il fatto che bisognava tornare poi a valle. Per guadagnare tempo Giovanni prese a recuperarmi a spalla o su degli spuntoni con l'implicito imperativo "vietato volare", specie sul friabile pendio finale cosparso di blocchi traballanti; lo sapevo, era sensato, tenni la concentrazione fino all'ultimo centimetro e tutto filò liscio. 
Alla fine, proprio quando fummo inghiottiti completamente dalle nuvole scure, raggiungemmo la cresta sommitale, fuori dai pericolosi camini della via. Qui tirammo il fiato e incominciammo, o meglio, io incominciai piano piano la discesa lungo il sentiero sulle gande di granito per rientrare al rifugio. Io ero il più stanco della combriccola e rimasi indietro, scendendo con attenzione a gambe rigide perché tendevano ad addormentarsi, abbastanza spossato dalla corsa fatta su per la via e per il poco allenamento che ora cominciava a farsi determinante. Mentre scendevo il dolce declivio che porta al rifugio mi ritrovai sommerso da una grandinata fittissima e circondato da fulmini come in un film di fantascienza. A coronare il simpatico quadretto ci fu il fatto che ero completamente ricoperto dall'acciaio del materiale di arrampicata; provai a infilare la mantella che finì col coprirmi solo in parte e così potei godere l'orgasmo dello zaino inzuppato e della grandine nel collo fino infondo. Raggiunsi il rifugio sano e salvo dopo essermi gustato interamente la grandinata, immerso in un paesaggio invernale che fino ad allora avevo letto solo nei libri. Nella discesa mi cadde anche la corda lungo il sentiero e la mia faccia da zombie convinse Giovanni a fare un salto a prenderla, fortunatamente non era tanto distante. 

La discesa dal Rifugio Brentari fu tranquilla, in un andirivieni di temporali ma col meteo che volse gradualmente al bello e fu in questo momento che feci la conoscenza del "Bocia", futuro partner in nuove e "mirabolanti" imprese.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/dolomiti.html

La parete sud di Cima d'Asta dal Rifugio Brentari

In azione sulla parte iniziale, quando il meteo era ancora bello

Lungo i bellissimi camini

Verso il laghetto di Cima d'Asta col tempo che va peggiorando

Temporale in arrivo

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sabato 15 agosto 2020

CAMPANILE DULFER

 CAMPANILE DULFER

Venne l'anno 2013 e alla nostra cordata si aggiunse un certo Giovanni, uno con la grinta giusta per affrontare le super vie delle Dolomiti e delle Alpi in genere. 
Paolo desiderava da un po' salire questo celebre campanile dei Cadini di Misurina, perché per un po' se l'era dimenticato e glielo rimisi in testa io, perché avevo letto in un libro che era uno dei più begli spigoli delle Dolomiti (ovviamente chi l'aveva scritto ben si era guardato da esprimere i criteri di valutazione). Combinammo un fine settimana per salirne la classica via di Hans Dulfer aperta negli anni '10 lungo l'affilato e verticale spigolo.

La domenica mattina iniziò piuttosto fredda, soprattutto dopo aver passato la notte nella topaia del locale invernale del rifugio, perché il resto era "pieno" di un corso di laureandi in medicina (quattro gatti), però c'era un cielo terso e promettente. 
Ci avviammo tutti e tre con calma alla base della torre che sembrava dietro l'angolo, forse perché il movimento portava calore. 
La via si dimostrò impegnativa e delicata fin da subito, molto più di quanto non dichiarino le relazioni circolanti in quanto è quasi completamente schiodata e non aveva l'aria della super classica in cui fare la fila, ossia come l'avevano venduta fino a quel momento. 
Da questo avrei dovuto darmi una svegliata per quanto riguarda certi personaggi che dicevano "ma ai miei tempi noi facevamo, noi brigavamo" e scemenze simili, 'sto paio di palle! "Ai miei tempi" ma col culo di qualcun altro! 
Ci volle ancora un po' per scuotermi ma le mie certezze subirono un primo scossone.

Il secondo tiro, benché tecnicamente facile, ci mostrò subito tutta la delicatezza di un tiro "classico" dolomitico: un lunghissimo traverso di 40  m in cui era vietato volare per tutti i membri della cordata, in quanto non c'erano fessure dove mettere chiodi o altro ma si poteva solo tastare bene la roccia e procedere lentamente. La sosta di recupero poi era una delizia: larga e spaziosa come un comodino, solida come un muro a secco sulla sabbia, che ovviamente bisognava dividere i tre. 
Seguì uno strano passaggio che ci fece perdere tempo ma che dimostrava appieno l'intuito dei primi salitori in quanto i grandi strapiombi che ci sovrastavano venivano aggirati con un tratto in discesa verso sinistra per imboccare un invisibile camino. 
Le lunghezze di corda successive si susseguirono un po' più tranquille, con Giovanni al comando, fino quasi alla cima in cui toccò a me condurre la cordata. Altre due lunghezze su ottima roccia lavorata e in grande esposizione filarono via lisce e senza problemi fino all'ultima placca prima della vetta. 

Sostammo tutti e tre in una grossa nicchia, il solo altro punto in cui rinvenimmo dei chiodi di sosta, compreso il primo tiro e il tratto appena compiuto da me. Dopo un attimo di pausa per riprendere fiato partii per la lunghezza seguente, ovviamente con un solo chiodo in 50 m di V grado e scarse possibilità di rinforzare (via super classica...mavaff...!). Mentre lottavo con uno strapiombo panciuto ci raggiunse un'altra cordata che era salita in velocità lungo il nostro stesso itinerario, senza zaini, senza vestiario (noi sbattevamo i denti dal freddo e questi erano in maglietta e pantaloncini) con solo le corde e tre friend per essere più "leggeri" (chissà cosa avrebbero fatto se si fossero trovati fuorivia, magari in una placca panciuta senza possibilità di proteggersi e di retrocedere. Ma vaff...anche a 'sti modaioli che si credono chissà chi!!!). 
Approfittai allora per chiedere loro un "passaggio" grazie alle loro corde tese, visto che erano svelti e ci stavano scavalcando, allo scopo di velocizzare il nostro arrivo in vetta, dato che nel mentre si andavano addensando delle nubi da nord. Molto gentilmente i due acconsentirono (menomale) e proseguirono seguiti immediatamente dal sottoscritto. Una volta che il loro capocordata arrivò in sosta gli urlai di tenere le corde bloccate un momento per permettermi di passare una nicchia e raggiungere un buon chiodo e così diedi due possenti bracciate per issarmi su quando sentii arrivare delle urla disperate che mi bloccarono pietrificato, non riuscendo a distinguere le parole. Contemporaneamente un tuono rimbombò tra le vette circostanti e il cielo si incupì di colpo (nel giro di una decina di minuti) facendoci sprofondare nella nebbia. 
Cercai di non badare alle lagne che mi giungevano dall'alto e proseguii verso un diedro fornito di ottima clessidra quando all'improvviso mi piovve addosso una valanga d'acqua mista a nevischio che cominciò ad imbiancare rapidamente la zona circostante e, bloccato in quella posizione infelice, non potei fare altro che sorbirmela tutta sperando nella magra protezione del kwai. Tutto ciò avvenne mentre i miei due soci sghignazzavano allegramente al riparo nella nicchia di sosta.
Il temporale durò per un po', circa una mezz'ora, bastevole a gelarmi il sangue nelle vene, a togliere il sorriso dalle facce dei due compagni e a ridurmi come la spugna servita a Cristo agonizzante. 
Mi decisi a tirare in ballo Giovanni per riprendere il comando facendosi aiutare dalla cordata che ci aveva incrociato e che era rimasta intrappolata come noi nel temporale. Acconsentì senza obbiettare e anche l'altro ragazzo non si oppose. Giovanni mi raggiunse, mi sorpasso e dopo poco arrivammo tutti sulla cima della torre, giusto per tirare un po' il fiato e tentare di scaldarsi un po' al sole, fortunosamente risbucato dalle nuvole, mentre l'altra cordata si avviò direttamente alla discesa. 
In quel mentre Giovanni mi guardò, accennò un sorriso molto amaro e mi sussurrò il motivo del perché mi giunsero delle urla disperate dall'alto, ossia il pericolo micidiale avevamo corso ignari solo poco prima, quando avevo strattonato la corda degli altri due per superare la nicchia strapiombante: il capocordata, che mi aveva rassicurato, lo ribadisco, sul fatto che avrebbe tenuto bloccate le corde per permettermi di issarmi nel tratto più scabroso, visto il temporale in arrivo, aveva nella fretta allestito una sosta e recuperato il compagno, il sottoscritto e Giovanni su un solo friend (specie di cuneo meccanico a molla) malamente appoggiato tra due macigni; se fosse venuto via per uno strattone avremmo avuto sicuramente due morti, uno gravemente inforunato, un altro con qualche escoriazione (grazie alla robusta clessidra) ed uno incapacitato ad intendere e volere. Per fortuna eravamo saldamente  ancorati ai chiodi di sosta nella nicchia.

A questo segue una riflessione: come ho avuto modo di sperimentare varie volte in seguito (questa fu solo la prima), tutto il discorso sui gradi, la tecnica cresciuta in falesia, la velocità sul facile, sicurezza delle dita, ecc., sono solo UN MUCCHIO DI BALLE raccontate da gente ignorante che firma i documenti con la X (ad insulto di gente poco istruita ma che fece la guerra e altre grandi prodezze), che si mette a cianciare di cose che non sa, o che ha solo sentito dire. 
Costoro o mentono per motivi di immagine o dovrebbero fare un pellegrinaggio in qualche luogo santo per la fortuna che hanno avuto e che poi se ne vadano a prenderlo dove non batte il sole!!!! Purtroppo di gente che ciarla ce n'è troppa.

La cosa più importante è essere padroni della tecnica, ossia dell'uso corretto del materiale a partire dai concetti più semplici, non farsi scrupoli nel prendersi il tempo che serve (e se è troppo si torna a casa  prima di inguaiarsi) a progredire sicuri e conoscere il più possibile l'ambiente che si va ad affrontare (inteso anche come luogo geografico). Dopo di questo arriva anche l'allenamento muscolare.

Dopo il momento di religioso silenzio per il dramma appena vissuto iniziammo anche noi la discesa e buttammo la prima doppia sul lato opposto del campanile. 
Giovanni affrontò per primo l'abisso e scomparve alla nostra vista. Dopo un lungo periodo di attesa in cui non si sentiva nulla dal basso io e Paolo cominciammo a chiamare e a inveire verso il poveretto là appeso come un salame fin quando, dopo diversi improperi ed un'attesa snervante arrivò il tanto sospirato richiamo di "corda libera" che significava abbandonare quello stretto fazzoletto orizzontale per fare i conti col vuoto. 
Capimmo poco dopo perché Giovanni era rimasto bloccato, anche se non mancavo di prenderlo in giro per il suo trastullo fanciullesco: le corde infatti non finivano nei pressi della calata successiva ma su un vuoto insondabile da cui sarebbe stato necessario pendolare verso la forcella formata dal campanile col corpo principale della montagna (manovra che rese famosa l'ascensione e che mise nei guai più di qualche ripetitore, come scoprimmo in seguito). Giovanni dovette quindi dondolarsi sugli ultimi centimetri delle corde per riuscire a raggiungere un pianerottolo mentre noi coi piedi ben piazzati a terra lo "incitavamo" a darsi una mossa, ovviamente col rischio che le corde si sfilassero del tutto dal suo discensore. 
Non finì lì, infatti, appena riuniti tutti e tre sulla forcella, le corde rimasero incagliate da qualche parte sopra il grande strapiombo che ci sovrastava, lasciandoci come tre vacche che fissano la discesa di un possente asteroide, mentre la sera cominciava a calare su di noi. Provammo a turno tutti e tre a tirare una delle corde ma nulla, il nodo di giunzione era saldamente incastrato lassù da qualche parte. Ci mettemmo tutti e tre su una corda solo ma nulla, erano immobili come bastoni di legno. Ad un tratto Giovanni ebbe un'idea (che aveva sfiorato anche me ma che non avevo il coraggio di proporre): essendo io il più pesante del trio mi sarei legato con un nodo autobloccante alla corda e ci sarei saltato sopra nel tentativo di strappare il nodo di giunzione dalla sua posizione, con un cordino sarei rimasto attaccato alla sosta principale. Giustamente bisogna mandare avanti i giovani!
L'idea non era per nulla piacevole, data la posizione spaziosa come un tavolino da bar, sospesa su orridi canali dipartentesi dalla piccola forcellina della torre ma, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente le corde cominciarono a scorrere, seppure con molta fatica. 
Qualche centinaio di tentativo dopo era fatta, tutti e tre cominciammo a tornare alla vita dopo questa lunga serie di "emozioni forti". Proseguimmo con le calate che per altre due volte videro le corde incagliarsi. La differenza fu che fummo più previdenti nel buttare le doppie  e fu più facile levarle dai piedi. All'ultima calata in corda doppia Giovanni mancò la sosta finendo su un terrazzino dove fu costretto a slegarsi e ad aspettare la nostra discesa prima di riportarsi in carreggiata, tanto per non farsi mancare nulla. Arrivammo alle ghiaie col buio che avanzava, lieti finalmente di essere su qualcosa di orizzontale, baciando il terreno. Sapemmo in seguito, ripassando per il rifugio, che anche i due che ci avevano preceduto avevano vissuto momenti di terrore lungo la discesa per l'incagliamento sistematico delle corde doppie. Beh, magra consolazione, almeno potevamo dire di non essere del tutto impediti. 
Sulla strada del ritorno, ormai alle due di notte, una pattuglia ci fermò per fare un controllo e ci fece aprire il bagagliaio pensando che fossimo spacciatori di ritorno da una discoteca. 
Fu l'ultima emozione dell'uscita.


Il Campanile Dulfer con lo spigolo.



Momenti di scalata sulla parte alta dello spigolo

Lungo la parte bassa per un magnifico diedro

Il tratto più affilato dello spigolo

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mercoledì 22 luglio 2020

KLEINER ANGELUSSPITZE - SOLO TRA I GHIACCI

KLEINER ANGELUSSPITZE 

Solo tra i ghiacci


Venne l'anno 2013, che già in primavera aveva visto una ripartenza timida dopo i disastri dell'anno precedente portando a casa qualche bella via di Arco come la Rita alla Parete Zebrata, mi trovai in vacanza con i miei genitori a Solda, località ai piedi dell'Ortles che ha segnato la mia esistenza fin dalla tenera infanzia.
Quando ero bambino tentai una volta di salire ad una delle vette del Circondario, il Kleiner Angelus, una piccola cima rocciosa ammantata da un piccolo ghiacciaio molto ripido; desistemmo a causa della neve alta che era caduta nei giorni precedenti e non se ne parlò più. 
Quell'estate, in un momento di caldo opprimente decisi di chiudere il conto con quella cima lasciata così in sospeso: presi la prima seggiovia del mattino per raggiungere il Kanzel e mi incamminai spedito lungo il sentiero per il Rifugio Serristori (Dusseldorf per i nordici) sorpassandolo dopo un'ora di cammino. Continuai lungo le imponenti distese moreniche dell'alta valle di Zai nella più totale solitudine; il caldo era opprimente ma il cielo terso. Raggiunsi la base del ghiacciaio dopo un'altra ora di cammino e di lotta coi macigni e risalii il pendio molto rapidamente raggiungendone la sommità poco dopo mezzogiorno: la vetta dell'Angelo Piccolo distava solo pochi metri lungo un piccolo pianoro di sfasciumi. Mi distesi tra i sassi ad assaporare un po' il calore del sole e il totale silenzio che regnava tra quelle creste, fissando ipnotizzato il movimento delle nubi di vapore che si andavano formando col calore del giorno. 
La pace di quel momento rimase per sempre scolpita in me quasi come un angolo segreto in cui rifugiarmi quando la vita purtroppo ci mette davanti alla dura realtà.
La discesa, se non per la foga con cui avvenne, non ha storia e riuscii a prendere l'ultima seggiovia alle 17,00, poco prima della chiusura (che avrebbe significato un'ulteriore pesantissima discesa lungo un sentiero faticoso).

panorama del gruppo dell'Ortles
La trinità dell'Ortles: Gran Zebrù o Konigspitze (sx), lo Zebrù e sua maestà a destra.

immagine dell'Angelo Piccolo dal rifugio Serristori
Il Kleiner Angelusspitze

immagine del lago alla base del ghiacciaio
Il piccolo laghetto alla base del ghiacciaio

immagine del piccolo ghiacciaio di Zai
Lungo il ghiacciaio

immagine della vetta dell'Angelo Piccolo
In vetta

autoritratto in vetta



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CAMPOCATINO

CAMPOCATINO


Malgrado i disastri, nel 2012 ci fu un'uscita felice, fatta per cercare di lasciarsi alle spalle le tristezze. Fui attratto dalle foto della Roccandagia, la Penna di Campocatino, perché rappresentava il giusto compromesso tra lunghezza, scarse capacità, bel tempo e ambiente ameno, o così pensavo io.

Campocatino è una piccola località situata sopra il lago di Vagli, visitata ed amata anche da David Bowie su cui svetta una montagna marmorea che espone ad est una affilata cresta, scalata la prima volta nel 1949. La montagna è esattamente al centro delle Alpi Apuane.

Proposi l'idea a Paolo che fu immediatamente d'accordo e ci avviammo alla volta di questa zona che nessuno dei due aveva mai visto.
L'ambiente ameno c'era di sicuro, tanto che rimirarlo una stradina secondaria credendola una scorciatoia, così larga e accogliente che in caso di fermata saremmo dovuti scendere dal bagagliaio, ovviamente chi aveva visto il parapetto, cos'era quella schifezza da donnette di città (!!). Beh, tanto Paolo dormiva...!
Arrivammo a sera a Campocatino con ancora le curve in corpo e, dopo una cena con vista lago piazzammo il nostro "campo-base" in un punto un po' defilato per non essere fermati come zingari. 
Sapendo di non avere il materassino premeditai di dormire in macchina dato che i sedili, già ben collaudati (eh se potessero parlare...!), erano larghi e confortevoli. Paolo dormì invece nella sua tendina, la solita cara e vecchia tenda tarlata usata nelle uscite dolomitiche. Era un fine settimana di luglio, ventilato e non caldo, con un cielo splendido.

Mi coricai pensando al giorno dopo, ripassando mentalmente la relazione e pensando che nei dintorni non c'erano bar quando, nel momento in cui presi sonno, suonò all'improvviso il telefono svegliandomi di soprassalto. Era un mio ex compagno di classe delle superiori, ubriaco marcio tanto che potevo sentire la puzza di alcol anche lì e che stava chiamando i numeri in rubrica. 
Felice della sua premura, aveva avuto il buon cuore di dedicarmi un pensiero, gli spiegai gentilmente in quale modo fosse stato concepito e che animale associare ad ogni santo del calendario, domanda pregnante all'una di notte e chiusi la conversazione.  
Mentre ceravo di riprendere sonno, ancora bestemmiante, si alzò improvvisamente un forte vento, tanto potente da scuotere la macchina come se fuori ci fossero dei teppisti che cercassero di farmi la festa e immediatamente cominciarono a turbinare grossi goccioloni di pioggia che mi costrinsero velocemente a chiudere il finestrino che avevo lasciato appena aperto per respirare. 
Nel bagliore dei lampi vidi la tenda di Paolo scossa violentemente e pensai a che goduria stesse vivendo in quel momento, a volte avere il braccino corto può avere i suoi lati positivi. Cullato dal vento e dal rumore continuo del vento che risuonava come un mantra presi sonno e riaprii gli occhi che il sole si era già levato sull'orizzonte.

Paolo, levatosi da poco anche lui, aveva l'aspetto del "sopravvissuto" ad una notte di guardia ma era comunque carico d'entusiasmo vista la limpida e fresca mattinata. Purtroppo nei dintorni c'era solo un campeggio e a quell'ora del mattino non c'era nessuno in giro perciò ci toccò avviarci verso la cresta con la pancia vuota (per fortuna avevamo fatto un lauto pasto la sera precedente). 
La ricerca dell'attacco ci fece perdere penare un po', è incredibile come in un boschetto di pochi metri quadrati il sentiero si potesse smarrire lasciando tracce in tutte le direzioni; ovviamente con alberi abbastanza alti e frondosi da nascondere la montagna sempre onnipresente durante tutta la marcia. Fortunatamente, con un po' di buon senso, trovammo il canale di attacco della cresta che stava sotto al nostro naso (facile, basta andare su sempre e comunque).

La prima parte della via per circa 70 m era un inferno verde: bisognava strisciare aggrappandosi disperatamente al "paleo", quell'erba a ciuffi molto lunga e pungente che nel Veneto è chiamata Loppa e che sulle Apuane cresce in maniera impressionante occupando qualunque anfratto, appoggio e fessura, crescendo perfino in parete purché sia appena meno pendente di 90°. Poco male, per due guerrieri l'erba era un riscaldamento in vista delle vere difficoltà: dopo il canale iniziale fatto dal sottoscritto Paolo prese il comando della cordata con volontà incrollabile e si lanciò senza paracadute per quattro lunghezze, per un totale di 150 m, con alcuni passaggi impegnativi dentro camini ma sempre caratterizzati da pendii di arrampicata vegetale. 
Un camino ricurvo a sinistra, in particolare, richiedeva un passo di schiena, ossia appoggiando i piedi sulla volta dove erano presenti appigli e chiodi mentre la faccia appoggiata era completamente levigata. Paolo piantò un chiodo piatto nel lato appoggiato, così messo bene che lo si poteva muovere con le dita. Arrivai al punto incriminato e non fui capace di cavarne un ragno dal buco, anche perché portavo a spasso lo zaino gonfio che ben avrebbe fatto da cuneo dentro il camino. Mi venne l'idea di mettere il piede in un cordino agganciato al chiodo di Paolo, che resse il peso incurvandosi in maniera preoccupante ma tenne. Inutile dire che poi saltò con una martellata. 
Le quattro lunghezze di corda alternavano tratti di roccia compattissima a dei pendii di erba così ripidi e scivolosi che non ne trovai mai più di così tosti, neanche nei viàz più selvaggi, infatti, dopo un tratto di arrampicata, dovemmo tirarci su praticamente come in spalliera sui ciuffi di erba pungente, le cui punte si piantavano nelle carni facendole arrossare e pizzicare. 
Giunti ad una forcella della cresta, dopo essere sopravvissuti all'incubo precedente, iniziava il vero viaggio sulla roccia apuanica, il marmo, con la sua ruvidezza e gli appigli taglienti come rasoi, attraverso torri squadrate e verticali pareti su entrambi i lati: seguirono una serie di passaggi di grande soddisfazione per la qualità della roccia e l'esposizione. L'ultimo tiro, una placca molto levigata che richiedeva decisione, V+, toccò al sottoscritto e ricordo che rimasi sorpreso da quanto attrito facevano le scarpette anche sul liscio, cosa che facilitò enormemente il passaggio.
Sbucammo per ora di pranzo sulla spalla della Roccandagia, in un cielo terso, ventilato e fresco: intorno non c'era nessuno, le cave tacevano, le montagne brulle facevano da guardiani alla conca di Campocatino, in lontananza si vedeva il mare. 
Si presentò un dilemma: scendere nel Canale di San Viano a sinistra o proseguire lungo la cresta fino alla vetta donde avremmo trovato un più comodo ma più lungo sentiero per scendere a Campocatino. Provammo quindi ad insistere lungo la cresta scavalcando due risalti ma ci arenammo davanti ad un muro a mattonelle, schiodato, che precludeva l'accesso all'ultimo gradone della cresta: ci consultammo e decidemmo che il lavoro di chiodatura per proseguire, visto anche il lungo viaggio di ritorno a casa, ci avrebbe sicuramente fatto perdere un sacco di tempo, unito al fatto che avevamo solo un mazzetto di 4 chiodi e bisognava attrezzare tutto. Inoltre il passaggio chiave stava là, dritto davanti a noi: un muro liscio e strapiombante rigato da una singola fessurina che richiedeva un bel lavoro di arrampicata artificiale.  
Ci avviammo a malincuore lungo lo spiovente che adduceva al canalone di San Viano accorgendoci subito quanto mendace fosse l'abbaglio che prendemmo: per più di 100 m scendemmo attraverso un pendio erboso ripidissimo saltando da un affioramento roccioso all'altro come naufraghi in un mare in tempesta che cercano disperatamente di aggrapparsi al relitto. 
Dopo un grande patema d'animo in cui i piedi non ebbero mai un appoggio orizzontale e stabile venne il canale: un solco con sassi affilati come il coltello del Piramid Head a guardia di Silent Hill, da percorrere seduti tanto era ripido e che presto mi lasciò in mutande (sopravvisse solo l'elastico dei pantaloni) esponendo al vento le mie orrende zampe pelose. 
Ad un tratto Paolo esclamò: "Da qui non passa neanche San Giuseppe!": il canale compiva un salto verticale completamente composto da un accatastamento di sassi e erba, tenuti insieme dal fango secco. Ecco che toccò disfare le corde, calarci lungo il salto e riprendere la "slitta" nel canalone. Arrivammo comunque a sera domandandoci quanto "intelligenti" siamo stati a non aver forzato quel muro, stanchi morti, però con uno spiraglio nel cuore.



Roccandagia
La Roccandagia col tracciato della cresta.

Campocatino
Campocatino

camini della Roccandagia
Nei profondi camini che solcano lo spigolo

placca lungo la cresta Roccandagia
Bellissimo passaggio lungo il filo di cresta

placca finale della Roccandiagia
La placca finale

vetta della Roccandagia
Al termine della cresta

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sabato 4 aprile 2020

SCHUMANN - Kinderszenen op. 15

SCHUMANN

Kinderszenen op. 15



Le "scene infantili" di R. Schumann è una suite di 13 pezzi per pianoforte ed è tra le più celebri composizioni della storia della musica per questo strumento, in particolare il primo e il settimo, utilizzati anche come colonne sonore in molte occasioni nel cinema.
Esse furono scritte nel 1838 ed ispirate da alcune lettere scritte dalla moglie di Schumann, Clara Wieck, in cui parlava della fanciullezza; in esse il compositore volle esprimere delle "reminiscenze per adulti da parte di un adulto", ossia il ricordo di alcuni attimi e delle relative emozioni vissute da bambini attraverso però la mente di un uomo maturo. Originariamente dovevano essere piccoli pezzi per bambini ma successivamente Schumann modificò il proprio giudizio come suddetto considerando questi pezzi già un'opera matura.


Le Scene Infantili sono articolate così:

  1. Di paesi e uomini stranieri (Vom fremden Landern und Menschen);
  2. Storia curiosa (Kuriose Geschichte);
  3. Rincorrersi (Hasche-Mann);
  4. Fanciullo che supplica (Bittendes Kind);
  5. Quasi felice (Gluckes genug);
  6. Avvenimento importante (Wichtige Begebnheit);
  7. Sogno (Traumerei);
  8. Al camino (Am kamin);
  9. Sul cavallo di legno (Ritter vom Steckenpferd);
  10. Quasi troppo serio (Fast zu ernst);
  11. Babau (Furchtenmachen);
  12. Bambino che si addormenta (Kind im Einschlummern);
  13. Il poeta parla (Der Dichter spricht).

Tutti i pezzi hanno una semplice struttura A-B-A e sono caratterizzati da un unico tema; talvolta, come si vedrà nel seguito, le frasi si ripetono più volte nel corso del brano. Ciò che rende le Kinderszenen speciali è la caratterizzazione dei vari pezzi che cercano di esprimere (o di guidare, per dirla col critico Hanslick) i sentimenti legati alla scena descritta dal titolo.

1) Di paesi e uomini stranieri. Schumann non segna alcuna agogica, come in nessun altro dei tredici pezzi, delegando quindi all'interprete la responsabilità di rendere al meglio la scena descritta (siamo ancora nell'ambito di una musica che dovrebbe essere cantata). E' un pezzo di 22 battute in Sol maggiore e in 2/4 scritto come una romanza, un canto accompagnato da semplici terzine di crome che ne completano l'armonia. Il tema di A è composto da una proposta e da una risposta positiva (2+2 battute) e da 4 battute di conclusione V-I. 

incipit Kinderszenen
Tema

Segue una sezione B in cui l'intervallo di quinta del tema viene invertito e la melodia diviene un controcanto al basso di una nuova melodia espressa dalle doppie terze alla mano destra.

sezione b
Sezione B

L'idea dei "paesi e uomini stranieri" viene resa dal compositore tramite l'arietta in Sol maggiore, in piano, di carattere sognante e ottimista che contrasta con la parte B in cui compaiono degli accordi minori, quasi a simboleggiare il lato oscuro che si cela verso ciò che non è conosciuto, angoscia che si dissolve quasi subito con il ritorno del Sol maggiore e la ripresa del tema.

2) Storia curiosa. In 3/4, 41 battute e mezzoforte per la gran parte del brano. Il tema è formato da una proposta di 4 battute a cui rispondono altre 4 battute; la proposta è costituita da due battute assai caratteristiche, con partenza in levare di 1/4, in cui si ode un motivetto in Re maggiore con un ritmo puntato addolcito da una piccola fioritura che lo rende meno marziale.

inizio di storia curiosa
Inizio: proposta

Le altre due battute riconfermano in maniera più vigorosa in Re maggiore le due battute precedenti. Nella risposta le prime due battute vengono ripetute mentre nelle altre due vi è una modulazione a La maggiore, dominante di Re, che prepara la successiva ripetizione. La parte A del pezzo è quindi formata da una frase che si ripete per uguale per due volte (sta all'interprete poi cercare di rendere diversa la ripetizione). La parte B è invece formata dalla breve fioritura di 4 battute attorno al Mi minore e dalla nuova ripetizione del tema a cui segue una codetta in Re maggiore. Anche i questo caso la frase viene ripetuta due volte e il brano si conclude, senza una vera ripresa.

seconda parte
Parte B

L'idea della "storia curiosa" viene resa da Schumann dal contrasto tra la breve proposta marziale iniziale e il distendersi del ritmo nervoso con le brevi scalette che conducono al La maggiore. Il disegno delle melodie che "salgono" e che passano rapidamente da un ritmo più agitato ad uno più tranquillo trasmettono all'ascoltatore un senso di aspettativa e di sospensione in attesa dell'arrivo della frase successiva che si conclude teneramente in Re maggiore, quasi a rassicurare l'auditore che tutto è andato bene.

3) Rincorrersi. Brano molto corto, di 21 battute e in Si minore, in 2/4. E' formato da una struttura A-B-A composta da due temi molto brevi. Il tema di A è una breve sequenza di scale di Si minore di 4 battute di I-IV-V-I che viene ripetuta. Il tema di B è lo stesso che viene presentato prima in Sol maggiore, poi in Mi minore, cadenza d'inganno V-VI e ritorno al Si minore con V-I. Segue una brevissima ripresa A e poi ritornello con la conclusione.

mosca cieca
Incipit del brano
cadenza di mosca cieca
Cadenza

La scena descritta dalla musica è immediata: si possono distintamente immaginare i bambini che si rincorrono o che giocano a nascondino grazie al contrasto del primo arpeggio sforzato seguito dalle scalettine staccate e in piano che seguono. Non c'è nessuna agogica ma la scena suggerisce velocità.

4) Fanciullo che supplica. Ancora più corto del precedente, in 2/4 e di 17 battute, assomiglia per costruzione al pezzo 2) se non fosse che la struttura armonica lo rende molto originale. La struttura A-B-A che governa i brani è qui molto labile in quanto caratterizzata dalla ripetizione della prima frase; in tutto il pezzo si possono distinguere tre frasi composte a loro volta dalla ripetizione (risposta positiva) di due semifrasi. Il pezzo è in Re maggiore ma la tonalità non viene annunciata apertamente se non dopo una battuta e per un momento sfuggente, insiste di più invece il La maggiore, la dominante. Anche la fine del pezzo rimane sospesa su una settima di dominante, senza conclusione, il tutto a suggellare la scena che il compositore si appresta a descrivere.

fanciullo che supplica
Inizio del brano che già mostra la particolare armonia

Lo sforzo fatto da Schumann per rendere al meglio il "bambino che supplica" è notevole: dall'armonia basata su appoggiature in cui Re maggiore rimane velato, alla tenera melodia discendente e in piano che simboleggia il piagnucolio e la fine sospesa, come se fosse in attesa di ricevere una risposta da parte dell'adulto, risposta che si può immaginare che arrivi col pezzo successivo.

5) Quasi felice. In 2/4 e Re maggiore, caratterizzato da un tema ascendente che continua sostanzialmente quello del pezzo precedente, gravitando attorno alla dominante La maggiore. La costruzione del pezzo è simile al precedente, ossia formato da frasi che si ripetono senza una vera ripresa ed una modulazione improvvisa da La maggiore a Fa maggiore molto accentuata durante la breve progressione finale.

quasi felice
L'inizio mostra già che il pezzo è una sorta di prosecuzione del precedente

Tocca all'interprete esprimere il "quasi felice" tramite il rubato del tempo assecondando gli slanci della melodia ascendente fino alla rassicurante conclusione in Re maggiore.

6) Avvenimento importante. Una marcia in La maggiore, in tempo dispari di 3/4 (solitamente sono in tempo pari ma dipende dalle unità militari) basata su una semplice armonia della scala di La. Formata da un A-B-A in cui il tema della marcia è ripetuto tale e quale all'inizio e alla fine. Al centro del pezzo (a meno dei raddoppi dovuti alla timbrica) c'è il Trio, ossia un episodio a tre voci e che funge da intermezzo alla marcia, in questo caso in Re maggiore.

avvenimento importante
Tema della marcia

                                    trio dell'avvenimento importante
Trio

L'idea della marcia è resa dall'evidente ritmo puntato presente nel tema e dalla verticalità della costruzione del pezzo; il carattere solenne serve a sottolineare quello che dice il titolo, ossia un avvenimento importante, accolto in pompa magna.

7) Sogno. Uno dei pezzi più famosi della letteratura pianistica, il più famoso di Schumann. In C, ossia 4/4 e in Fa maggiore, consta di una vaga struttura A-B-A in cui la forma trascende in una sorta di brano costruito su iterazioni. Esso è formato da 6 sequenze (che diventano 8 col ritornello) in cui è ripetuto sempre lo stesso incipit del tema (in una ripetizione è però in Si bemolle maggiore) e viene poi concluso in maniera diversa in ogni ripetizione (da qui l'iterazione), dando l'idea che da un nucleo centrale comune a tutte le idee si possa spaziare poi in direzioni diverse liberamente, proprio come in un sogno in cui la fantasia vaga libera. Il pezzo poi è costruito su una miniatura del linguaggio polifonico in cui le voci che lo compongono, sostanzialmente 4, compiono imitazioni e canoni in uno spazio molto ristretto mostrando la grande maestria del compositore nel trattare il movimento delle voci.

sogno
Inizio, si nota fin da subito una scrittura polifonica, imitativa, quasi corale

iterazioni del tema in sogno di Schumann
Iterazioni della frase, qui in una sorta di ripresa conclusiva

Il carattere del pezzo è calmo, tranquillo, la melodia va sempre assecondata perché essa guida l'ascoltatore nel sogno semplice e innocente del bambino alter-ego di Schumann calato all'interno di queste scene.

8) Al camino. E' la continuazione del brano precedente, in 2/4 e sempre in Fa maggiore, in cui il tema viene richiamato dal salto di quinta iniziale e dal movimento della melodia che ricalca quella del pezzo precedente. Questo brano ritorna alla forma della romanza, in A-B-A' seguita da una lunga (in proporzione) coda mentre l'episodio B è formato da una progressione che passa attraverso i toni minori.

al camino
Già dall'inizio si nota come una sorta di ripresa del pezzo precedente

Il titolo "al camino" qui non ha un significato letterale se riferito alla musica ma invece esprime la quiete dello stare davanti al fuoco dopo un'intera giornata, ricordando gli episodi trascorsi.

9) Sul cavallo di legno. E' un piccolo scherzo, in Do maggiore e 3/4, caratterizzato da una melodia sincopata alla mano destra (inizia con una pausa di croma) che si appoggia alla scansione sia ritmica che armonica della mano sinistra. La struttura della composizione è miniaturizzata: A è costituito da un'unica frase in cui la melodia passa dalla voce più acuta alla parte interna degli accordi mentre alla mano sinistra c'è un controcanto in contrappunto con la parte melodica; B è costituito da una lunga modulazione che sfrutta le appoggiature ai gradi fondamentali della scala per portarsi poi sulla dominante, Sol, e concludere con la ripresa di A, in cui il canto è nella parte interna degli accordi. In questa mini-ripresa vengono ripetute le prime quattro misure di A per poi concludere con altre quattro battute.

sul cavallo di legno
Per dare l'idea del dondolio, Schumann utilizza una sincope sul canto, mentre il tempo viene scandito alla mano sinistra

intermezzo del cavallo di legno
Breve intermezzo

La sincope molto rapida che compone tutto il pezzo e che si riunisce al basso sempre sulla terza pulsazione da l'idea del dondolio del cavallino di legno, mentre l'aria allegra ed eroica del pezzo suggerisce le avventure immaginate dal bambino a bordo del suo giocattolo.

10) Quasi troppo serio. In 2/8, tempo inusuale, è in Sol diesis minore. E' un pezzo costituito da una linea melodica accompagnata e composto da frasi di 8 battute al termine delle quali vi è una fermata con corona. La forma è A-A, ossia un'esposizione di tre frasi, seguite da un breve raccordo di 6 battute e poi dalla ripetizione integrale dell'esposizione fino alla breve corda conclusiva, sempre in Sol diesis minore.

quasi troppo serio
Tema ed omogeneità del pezzo il Sol# minore

Si tratta di un pezzo sommesso e con delle armonie cupe e tristi, quasi a voler interrompere la giornata spensierata. Si potrebbe leggere come il momento in cui bisogna andare a letto, momento dell'infanzia in cui tutti ci siamo trovati, a voler continuare a stare in piedi pieni di energie ma col bisogno poi di riposo in vista della giornata successiva. Di fatti, i brani successivi sono proprio la descrizione del momento in cui il bambino si reca a dormire.

11) Babau. Il titolo del brano in tedesco indica proprio il tradizionale mostro che spaventa i bambini nel buio. Malgrado il titolo poco allegro è un'ennesima miniatura di Schumann di una struttura abbastanza complessa. Il pezzo è in 2/4 e comincia sempre in Mi minore per poi concludere in Sol maggiore. La prima frase è composta dalle consuete due semifrasi di proposta e risposta, la prima di 4 battute caratterizzata dalla ripetizione del Si sopra una discesa cromatica, Schumann crea qui il mistero e l'attesa. A questa si contrappone poi una risposta negativa ma che imita la proposta con la ripetizione del Re al basso e la conclusione rassicurante a Sol maggiore. 

inizio Babau
Proposta


il Babau di contrasto
Risposta veloce e contrastante alla ricerca dell'effetto (vedi seguito)

Inizia quindi la seconda frase, "Schneller" che presenta una melodia al basso alternata a degli accordi staccati alla mano destra. Anche in questo caso l'armonia oscilla, tra Mi minore e Do maggiore (I-VI) come l'ultimo misterioso accordo. Segue quindi la ripetizione della prima frase e un breve intermezzo di 8 battute, forte e composto da elementi contrastanti (una quartina di semicrome, accordi staccati e una melodia di minime) che si porta da Do maggiore alla dominante di Mi minore, Si maggiore. A questo segue poi la ripetizione integrale dell'esposizione e la conclusione in Sol maggiore.
L'attesa creata dall'armonia della prima proposta, le varie rassicurazioni in maggiore che si avvicendano nel pezzo e gli episodi più veloci "Schneller" rappresentano le paure del bambino che ancora non riesce a dormire e si trova nel buio, prontamente rassicurato dal genitore a cui si aggiungono dei "rumori" sospetti. Il tutto poi si conclude serenamente perché alla fine nel buio non c'è nessuna minaccia ma solo pace.

12) Bimbo che s'addormenta. Continua la tonalità di Mi minore, in 2/4, come nel pezzo precedente di cui è diretta conseguenza. E' in forma di romanza ed è caratterizzato da un'imitazione tra le voci gravi e quelle acute che è un'ostinato in cui la melodia è data dalla nota finale dell'acuto. Questo continua per 8 battute fino alla sezione B, in Mi maggiore che introduce una piccola sincope nel secondo quarto ma continua sostanzialmente sull'ostinato di A. Dopo una breve ripetizione di A in Mi minore arriva improvvisa la conclusione in La minore, il IV di Mi, che rimane così in sospeso e con questa termina il brano.

bimbo che s'addormenta
Inizio col tema lamentoso in Mi minore


seconda parte di bimbo che s'addormenta
Inizio parte B

Il tema tranquillo, prima in minore, poi in maggiore e la sospensione della tonalità sul IV grado ci guidano nei sogni: il bimbo si è addormentato e tutta la giornata si è conclusa. L'alternanza tra maggiore e minore descrivono l'inquietudine del primo sonno ma lasciano spazio ancora ad un pezzo prima della conclusione della suite.

13) Il poeta parla. E' il finale della suite, in C e in Sol maggiore, stessa tonalità del primo pezzo. E' un brano etereo, formato da due semifrasi di 4 battute su accordi di minime, la prima in Sol maggiore, la seconda che si conclude in La minore. Gli accordi mimano un corale e le due semifrasi si differenziano non solo per l'armonia ma anche per la conclusione, nella seconda è presente un ritmo puntato. 

corale in il poeta parla
Corale

Dopo l'esposizione del breve pensiero inizia una cadenza che imita un recitativo formata da degli arpeggi di 7° di Re# e poi da un melisma libero e senza tempo. 

cadenza conclusiva
Sezione cadenzale

Successivamente c'è la ripetizione del breve corale e la conclusione definitiva a Sol maggiore.
La melodia eterea e sospesa della voce più acuta degli accordi, gli abbellimenti e la cadenza che occupa il centro del pezzo racchiudono in pochissimo spazio non solo l'imitazione di una scenetta teatrale, con tanto di corale e recitativo, ma anche le citazioni dei pezzi precedenti, come gli arpeggi della cadenza o il ritmo puntato.
In questo pezzo siamo ormai già nel sonno profondo, la giornata passata è solo un ricordo e la voce che parla, magari del genitore che legge una fiaba, accompagna il bimbo che dorme, chiudendo un ciclo ma lasciando immaginare che poi uno nuovo riprenderà il giorno successivo.

Bibliografia

ENGLISH VERSION



The Kinderszenen by R. Schumann is a suite of 13 pieces for piano and is among the most famous compositions in the history of music for this instrument, in particular the first and seventh, also used as soundtracks on many occasions in the cinema .
They were written in 1838 and inspired by some letters written by Schumann's wife, Clara Wieck, in which she spoke of childhood; in them the composer wanted to express "reminiscences for adults by an adult", that is, the memory of a few moments and the relative emotions experienced as children through the mind of a mature man. Originally they were supposed to be small pieces for children but later Schumann changed his judgment as above considering these pieces already a mature work.

The Infantile Scenes are structured as follows:
  1. Of foreign countries and men (Vom fremden Landern und Menschen);
  2. Curious history (Kuriose Geschichte);
  3. Recourse (Hasche-Mann);
  4. Child who begs (Bittendes Kind);
  5. Almost Happy (Gluckes genug);
  6. Important event (Wichtige Begebnheit);
  7. Dream (Traumerei);
  8. At the fireplace (Am kamin);
  9. On the wooden horse (Ritter vom Steckenpferd);
  10. Almost too serious (Fast zu ernst);
  11. Babau (Furchtenmachen);
  12. Child falling asleep (Kind im Einschlummern);
  13. The poet speaks (Der Dichter spricht).
All the pieces have a simple A-B-A structure and are characterized by a single theme; sometimes, as will be seen below, the phrases are repeated several times in the course of the piece. What makes the Kinderszenen special is the characterization of the various pieces that try to express (or to guide, in the words of the critic Hanslick) the feelings linked to the scene described by the title.

1) Of foreign countries and men. Schumann does not score any agogics, as in any other of the thirteen pieces, thus delegating to the interpreter the responsibility of making the scene described as best as possible (we are still in the context of a music that should be sung). It is a 22-measure piece in G major and in 2/4 written as a romance, a song accompanied by simple eighth note triplets that complete the harmony. The theme of A is made up of a proposal and a positive answer (2 + 2 bars) and 4 closing bars V-I. A section B follows in which the fifth interval of the theme is reversed and the melody becomes a counterpoint to the bass of a new melody expressed by the double thirds on the right hand.
The idea of "foreign countries and men" is rendered by the composer through the melody in G major, in piano, of a dreamy and optimistic character that contrasts with part B in which minor chords appear, as if to symbolize the dark side that it hides towards what is not known. The anguish dissolves almost immediately with the return of G major and the resumption of the theme.

2) Curious history. In 3/4, 41 measures and mezzoforte for most of the piece. The theme consists of a proposal of 4 bars to which another 4 bars respond; the proposal is made up of two very characteristic bars, starting in the upbeat of 1/4, in which a tune in D major is heard with a dotted rhythm softened by a small flourish that makes it less martial. The other two measures reconfirm the two previous measures in a more vigorous way in D major. In the answer the first two measures are repeated while in the other two there is a modulation in A major, dominant of D, which prepares the next repetition. Part A of the piece is therefore formed by a phrase that is repeated for the same twice (it is up to the interpreter to try to make the repetition different). Part B, on the other hand, is made up of a brief flourish of 4 bars around E minor and the new repetition of the theme followed by a codetta in D major. Also in this case the phrase is repeated twice and the piece ends, without a real reprise.
The idea of the "curious story" is rendered by Schumann by the contrast between the brief initial martial proposal and the relaxation of the nervous rhythm with the short stairways leading to A major. The design of the melodies that "rise" and rapidly pass from a more agitated rhythm to a more sedate one convey to the listener a sense of expectation and suspension awaiting the arrival of the next phrase that ends tenderly in D major, almost like a reassure the auditor that all is well.

3) Run after each other. Very short piece, of 21 bars and in B minor, in 2/4. It is formed by an A-B-A structure made up of two very short themes. The theme of A is a short sequence of B minor scales of 4 bars of I-IV-V-I that is repeated. The theme of B is the same that is presented first in G major, then in E minor, deception cadence V-VI and return to B minor with V-I. A very short take A follows and then the chorus with the conclusion.
The scene described by the music is immediate: one can distinctly imagine the children chasing each other or playing hide and seek thanks to the contrast of the first strained arpeggio followed by the detached and flat steps that follow. There is no agogic but the scene suggests speed.

4) Child who begs. Even shorter than the previous one, in 2/4 and 17 bars, it resembles piece 2 in construction except that the harmonic structure makes it very original. The A-B-A structure which governs the pieces is very weak here as it is characterized by the repetition of the first phrase; throughout the piece we can distinguish three phrases composed in turn by the repetition (positive response) of two semiphases. The piece is in D major but the key is not announced openly until after a bar and for an elusive moment, A major, the dominant one, insists more. Even the end of the piece remains suspended on a dominant seventh, without a conclusion, all to seal the scene that the composer is preparing to describe.
The effort made by Schumann to make the "begging child" the best is remarkable: from the harmony based on supports in which D major remains veiled, to the tender descending and flat melody that symbolizes the whimpering and the suspended ending, as if it were waiting to receive a response from the adult, a response that one can imagine arriving with the next piece.

5) Almost happy. In 2/4 and D major, characterized by an ascending theme that substantially continues that of the previous piece, gravitating around the dominant A major. The construction of the piece is similar to the previous one, that is made up of phrases that are repeated without a real reprise and a sudden modulation from A major to F major very accentuated during the short final progression.
It is up to the interpreter to express the "almost happy" through the stolen time, following the impetus of the ascending melody up to the reassuring conclusion in D major.

6) Important event. A march in A major, in 3/4 odd time (usually in even time but it depends on the military units) based on a simple harmony of the A scale. Formed by an ABA in which the march theme is repeated as is at the beginning and at the end. At the center of the piece (except for the doubling due to the timbre) there is the Trio that is an interlude with three voices, in this case in D major.
The idea of the march is rendered by the evident punctual rhythm present in the theme and by the verticality of the construction of the piece; the solemn character serves to underline what the title says, that is an important event, welcomed with great pomp.

7) Dream. One of the most famous pieces of piano literature, Schumann's most famous. In C, that is 4/4 and in F major, it consists of a vague A-B-A structure in which the form transcends into a sort of piece built on iterations. It consists of 6 sequences (which become 8 with the chorus) in which the same incipit of the theme is always repeated (in one repetition it is in B flat major) and is then concluded in a different way in each repetition (hence the iteration ), giving the idea that from a central nucleus common to all ideas one can then freely range in different directions, just like in a dream in which the imagination wanders free. The piece is then built on a miniature of the polyphonic language in which the voices that compose it, substantially 4, perform imitations and canons in a very small space, showing the composer's great skill in dealing with the movement of the voices.
The character of the piece is calm, peaceful, the melody must always be supported because it guides the listener in the simple and innocent dream of Schumann's alter-ego child who has fallen into these scenes.

8) At the fireplace. It is the continuation of the previous piece, in 2/4 and always in F major, in which the theme is recalled by the initial jump of fifth and by the movement of the melody which follows that one of the previous piece. This piece returns to the form of the romance, in A-B-A 'followed by a long (proportionally) coda while episode B is formed by a progression that passes through the minor tones.
The title "al camino" here does not have a literal meaning when referring to the music but instead expresses the quiet of being in front of the fire after a whole day, remembering the past episodes.

9) On the wooden horse. It is a small Scherzo, in C major and 3/4, characterized by a syncopated melody in the right hand (it begins with a quaver rest) that lays on both the rhythmic and harmonic scansion of the left hand. The structure of the composition is miniaturized: A consists of a single phrase in which the melody passes from the highest voice to the internal part of the chords while on the left hand there is a counterpoint in counterpoint with the melodic part; B consists of a long modulation that exploits the supports to the fundamental degrees of the scale to then move to the dominant, G, and conclude with the reprise of A, in which the singing is in the internal part of the chords. In this mini-take, the first four measures of A are repeated and then concluded with another four bars.
The very rapid syncope that makes up the whole piece and that comes together on the bass always on the third beat gives the idea of the rocking of the wooden horse, while the cheerful and heroic air of the piece suggests the adventures imagined by the child aboard his toy. 

10) Almost too serious. In 2/8, an unusual time, it is in G sharp minor. It is a piece consisting of an accompanied melodic line and composed of 8-bar phrases at the end of which there is a stop with a crown. The form is A-A, that is an exposition of three phrases, followed by a short connection of 6 measures and then by the complete repetition of the exposition up to the short final note, always in G sharp minor.
It is a subdued piece with dark and sad harmonies, as if to interrupt the carefree day. It could be read as the moment in which you have to go to bed, the childhood moment in which we all found ourselves, wanting to continue standing full of energy but with the need to rest for the next day. In fact, the following passages are precisely the description of the moment in which the child goes to sleep.

11) Babau. The title of the song in German indicates the traditional monster that scares children in the dark. Despite the not very cheerful title, it is yet another Schumann miniature of a fairly complex structure. The piece is in 2/4 and always begins in E minor and then ends in G major. The first sentence is composed of the usual two half-sentences of proposal and response, the first of 4 bars characterized by the repetition of the B over a chromatic descent, Schumann creates here the mystery and the expectation. This is then countered by a negative answer but which imitates the proposal with the repetition of the D on bass and the reassuring conclusion in G major. Then begins the second phrase, "Schneller" which presents a melody on the bass alternating with detached chords in the right hand. Also in this case the harmony oscillates, between E minor and C major (I-VI) as the last mysterious chord. Then follows the repetition of the first phrase and a short 8-bar interlude, strong and composed of contrasting elements (a quatrain of sixteenth notes, detached chords and a melody of minims) that goes from C major to the dominant of E minor, B major. This is then followed by the complete repetition of the exposition and the conclusion in G major.
The expectation created by the harmony of the first proposal, the various additional reassurances that alternate in the piece and the faster "Schneller" episodes represent the fears of the child who still cannot sleep and is in the dark, promptly reassured by the parent to which are added some suspicious "noises". Everything then ends peacefully because in the end there is no threat in the dark but only peace.

12) Child falling asleep. The key of E minor continues, in 2/4, as in the previous piece of which it is a direct consequence. It is in the form of a romance and is characterized by an imitation between low and high voices which is an ostinato in which the melody is given by the final note of the high pitch. This continues for 8 bars up to section B, in E major which introduces a small syncope in the second quarter but continues substantially on the ostinato of A. After a short repetition of A in E minor, the conclusion in A minor suddenly arrives, the IV of Mi, which thus remains pending and with this ends the piece.
The quiet theme, first in minor, then in major, and the suspension of the tonality on the fourth degree guide us in our dreams: the child has fallen asleep and the whole day is over. The alternation between major and minor describe the restlessness of the first sleep but still leave room for a piece before the conclusion of the suite.

13) The poet speaks. It is the finale of the suite, in C and in G major, same key as the first piece. It is an ethereal piece, made up of two semi-phrases of 4 bars on minimum chords, the first in G major, the second ending in A minor. The chords mimic a choral and the two semi-phrases differ not only in harmony but also in their conclusion, in the second there is a dotted rhythm. After the exposition of the brief thought, a cadenza begins that imitates a recitative formed of 7 ° arpeggios of D # and then by a free and timeless melisma. Then there is the repetition of the short choral and the final conclusion in G major.
The ethereal and suspended melody of the highest voice of the chords, the embellishments and the cadence that occupies the center of the piece contain in a very small space not only the imitation of a theatrical skit, complete with choral and recitative, but also the citations of the pieces precedents, such as cadence arpeggios or dotted rhythm.
In this piece we are already in deep sleep, the past day is just a memory and the voice that speaks, perhaps of the parent reading a fairy tale, accompanies the sleeping child, closing a cycle but letting imagine that then a new one will resume the day following.

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