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sabato 23 novembre 2019

TRA I VAPORI DEL FUMANTE

TRA I VAPORI DEL FUMANTE


La voglia di roccia era rimasta e cercai di coinvolgere Stefano in una nuova impresa per alzare di un poco l'asticella delle capacità, un po' ringalluzzita dall'ultima salita al Cimoncello. Era verso la fine di giugno ed era mia intenzione rinnovare il tentativo alla via Soldà sulla parete sud della Sisilla, uno scoglio a qualche minuto dal Rifugio Campogrosso che già ci aveva respinto per maltempo in precedenza.
Questa strapiombante parete si innalza direttamente sopra il Passo di Campogrosso ed è percorsa da itinerari di estrema difficoltà, oltre ad ospitare una palestra di roccia sui suoi strapiombi basali.
Stefano partì di slancio lungo la prima difficile fessura: a differenza della volta scorsa, in cui c'era una nebbia fittissima a braccetto con molta ignoranza, imbroccammo subito quella giusta (tanto la colpa è sempre della relazione). Dopo averla salita io lo seguii come un gorilla in piena digestione post pasquale e lo raggiunsi su un magro terrazzino.
Venne quindi il mio turno di condurre la danza e cominciai ad arrampicarmi lungo la parete gialla e strapiombante fino ad una pancia a cubetti, di roccia friabile, in cui mi appesi ad un chiodo studiando il da farsi, con lo sguardo greve proteso verso il cielo, volto a nascondere il profondo imbarazzo in cui mi trovavo. 
Cominciai ad innalzarmi lentamente ma deciso usufruendo del chiodo e cercando qualunque cosa orizzontale si potesse afferrare, specialmente un cubettone di roccia che mi occhieggiava un po' a sinistra quando, d'un tratto, il buon Stefano se ne uscì: "vecchio (già intuiva la mia senescenza precoce), oggi non ho voglia di tribolare, andiamo giù". Io protestai: "dai, almeno facciamo un tentativo, ormai sono qui...", ma lui replicò: "...dai, lascia stare, andiamocene, stemo qui tuto el dì". Mi arrivò come una doccia fredda addosso, sopra di me la parete illuminata dal sole mi sovrastava con fare arrogante e beffardo (che romantico!) ma evidentemente non era giornata, almeno per il compagno e così buttammo le doppie e in pochi minuti rientrammo alla macchina. 
La giornata però aveva ancora altre possibilità da offrire, dato che era appena ora di pranzo, perciò pensai: "senti, e se andassimo alla Guglia GEI? E' infra-settimana, non c'è nessuno e la via è una classica facile, ci divertiremo lo stesso, tanto xe lì! (classica insinuazione per infondere fiducia al partner bighellone ben sapendo di mentire)". Dopo qualche titubanza Stefano accettò e in breve ci incamminammo verso il Piazzale SUCAI.

Questo è una grande conca rocciosa solcata da impervi canaloni di frana ma circondata da un anfiteatro di pareti e guglie unico nel suo genere (vedi la pagina "A proposito del Carega"), che a loro volta formano il Gruppo del Fumante. La Guglia GEI è la prima guglia che si trova a destra, provenendo da Campogrosso, ed è percorsa da una via del 1932 di Menato e Pamato, due arrampicatori locali, apritori di alcuni altri itinerari di media difficoltà della zona.

Arrivammo all'attacco  della via verso le due del pomeriggio con il morale risollevato e ci fermammo per una pausa ristoratrice mentre intorno a noi cominciavano a salire le nubi dal fondovalle che proprio su queste guglie vanno ad accumularsi, dando giustizia all'appellativo Fumante di questo gruppo montagnoso. 
Come nella mattinata fu sempre Stefano a prendere l'iniziativa, rinvigorito nell'animo dall'aspetto più bonario del posto (e dal panino al salame che stava venendo disciolto nel suo stomaco), superando di slancio una placca levigata e procedendo poi attraverso un canale di roccia friabile fino ad un anello di sosta. Al mio turno mi resi conto di come fosse lisciata la roccia nei punti obbligati, abbastanza ovvio vista la facilità della via. 
Raggiunsi il compare e proseguii delicatamente su rocce facili ma appena appoggiate e in parte sfasciate fino ad un bel terrazzo spazioso alla base di un camino mentre intorno a noi intanto la nebbia si faceva fitta e l'atmosfera cupa. Nessuno però disprezzava il bel freschetto del momento. Stefano ripassò in testa e scalò la placca a destra del camino, mitragliandomi di sassi dovuti alla roccia un po' "allegra" e poi si buttò nel camino. Qualche bestemmia dopo mi giunse chiaro il richiamo di risalita e lo raggiunsi in uno stretto intaglio. Meritata pausa ad osservare il panorama: ovunque attorno a noi i vapori che s'alzavano proiettavano raggi di sole che facevano assomigliare il gruppo di cime ad un'immenso vulcano che si stava raffreddando; eravamo nel silenzio assoluto silenzio, dettaglio che incuteva un certo timore al socio e a me l'ansia di doverlo incitare..
Riprendemmo la scalata; passai in testa e m'inoltrai oltre la forcella dentro una gola su rocce instabili per approdare ad una stretta balaustra sotto un grosso strapiombo giallo. 
In questo punto convergevano tutte le vie della torre e la nostra saliva diretta lo strapiombo su chiodi così nuovi di zecca da avere ancora le zecche attaccate! 
Niente paura, soprattutto davanti allo sguardo dubbioso del socio che mi fissava con pena, tirai fuori la staffa e subito aggredii lo strapiombo giallo e levigato. 
Risultato: il consueto ribaltone con sbucciatura del ginocchio, data la mia esperienza minimale in fatto di staffe ed equilibrio unita al fatto che cominciavo infatti ad avere le braccia abbastanza molli per le acrobazie in Sisilla del mattino. 
Rimasi l in contemplazione come un beota mentre dalla luce che andava affievolendosi appariva chiaro che bisognava trovare una soluzione entro tempi utili. Scartai decisamente l'idea di ripercorrere la strada già fatta, m'impettii come un soldato e cominciai a traversare a sinistra lungo un'esile cornice fino a trovare un chiodo (chiaramente non segnato nella relazione scaricata aggratis da internet, sempre colpa della relazione, eh!), superai una nicchia strapiombante cercando una via d'uscita dalla parete verticale che aggirasse gli strapiombi e trovai quindi un'altra cornicetta che continuando verso sinistra, all'improvviso, mi portò sulla cresta sommitale, a poca distanza dal blocco di vetta. 
Recuperai molto alla buona Stefano che si stava spazientendo e finalmente guadagnammo la sommità della torre, proprio mentre le nuvole andavano diradandosi e appariva il tramonto.
Stefano sentiva la fame molto più di me, che mi ero perso un'altra volta in contemplazione perché subito mi presentò il problema di come scendere. 
Tra le due cime delle guglie GEI e Negrin si apriva un vano colmo di ghiaie che verso ovest precipitava con un'alta parete verticale di roccia rotta. Cominciammo a percorrere il vano in lungo e largo e la prospettiva abbastanza snervante che si prospettava era quella di dover scalare la Guglia Negrin e discendere sul versante opposto, cosa che con la sera che avanzava non era tanto allegra (imparai in seguito che sarebbe stato molto semplice e veloce). D'un tratto, esaminando la parete della guglia Negrin, vidi uno stretto camino da cui penzolava un cordone, visto che esso non portava da nessuna parte verso l'alto, forse nascondeva un passaggio per poter scendere sul versante opposto. Stefano si precipitò subito nel camino in preda all'istinto di sopravvivenza e mi recuperò velocemente dalla sua sommità: da lì si apriva un corridoio nelle viscere della montagna, buio e umido. Mi inoltrai nel corridoio, che metro dopo metro diveniva sempre più stretto: ad un certo punto un blocco boccava l'uscita. Ovviamente per un attimo ebbi un tonfo al cuore, pensando che se mi fossi incastrato avrei fatto la fine della bionda di Kill Bill ma senza riuscire a rompere le pareti della mia tomba. Pensare in questi casi è deleterio: mi abbassai e effettuai il passaggio nello stretto foro al di sotto del masso; era così stretto che dovetti tirare il fiato fino sull'altro lato. D'improvviso la luce tornò a filtrare e ci trovammo sul Giaròn dea Scala, l'immensa colata di ghiaia che scende dalla cima del Fumante; lo percorremmo scivolando velocemente verso valle come due bimbi "innocenti" fino al sentiero che riportava a Campogrosso, felici nell'animo per l'avventura vissuta. Raggiungemmo la macchina con l'ultima luce dell'ora di cena.




immagine del Gruppo del Fumante nel Carega
Verso le guglie del Fumante



immagine della Guglia Gei nel Fumante sopra Campogrosso
La Guglia GEI, la via si svolge presso la cresta di destra



inizio della Diretta alla Guglia GEI
Sulla prima placca della via



nebbie sul Fumante
Giochi di nebbie sul Fumante


camino sulla Diretta alla Guglia GEI
Il tiro del camino

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mercoledì 20 novembre 2019

L'AVVENTURA CONTINUA

L'AVVENTURA CONTINUA


Dopo un mese dalla salita dello spigolo del Primo Apostolo sulle Piccole Dolomiti, vedendo lo spirito di iniziativa pari all'ECG di un cadavere dei nuovi soci mi imbattei per caso nella descrizione di una via molto interessante nella Valdastico, sopra l'abitato di Arsiero, e precisamente l'affilato e verticalissimo spigolo del Monte Cimoncello. Ovviamente la relazione proveniva dallo stesso sito internet (le guide cartacee erano ancora troppo evolute per il sottoscritto) affidabile e preciso che aveva mandato in confusione me e Stefano la volta prima a Rocca Pendice. Lo proposi a Paolo sviolinandogli una manfrina vergognosa e fraudolenta su come fosse comodo e tranquillo, ovviamente senza neppure essere capace di trovare il Cimoncello sulla carta geografica. Il sermone sortì l'effetto voluto perché accettò e addirittura coinvolse altri tre ragazzi nell'impresa (poveretti...).

Prima di proseguire, due parole sulla Valdastico: questa valle, che da Thiene prosegue in direzione di Trento, ha un aspetto vario, bucolico anche se qua e là emergono le vestigia di un'industrializzazione nata col boom economico ma che ancora resiste, ameno nel suo tratto superiore perché ancora abbastanza rustica e selvaggia. Essa è circondata dal Monte Novegno a sud-ovest, dall'altopiano di Asiago a nord-est e dall'altopiano di Folgaria-Lavarone a nord-est. Da quest'ultimo si eleva un bastione roccioso e boscoso, visibile anche da Padova nelle belle giornate, chiamato Monte Cimone, luogo aspramente conteso durante la Prima Guerra Mondiale, e il suo fratello minore ma più roccioso e verticale, il Cimoncello. La conquista del suo spigolo sud avvenne da parte di Umberto Conforto, compagno storico di Gino Soldà, medaglia d'oro al merito sportivo e uno degli uomini del K2, e di altri due compagni, Toffoli e Zacchi, nel 1935, tramite una via di elevato impegno tecnico per l'epoca (e anche oggi non proprio da mangiare a colazione).

Era maggio del 2010, l'inizio di maggio, clima non troppo caldo ma non freddo, meteo soleggiato ma con sobbalzi, molta umidità ma non ancora al massimo possibile. Ci dividemmo in due cordate, io e Paolo e gli altri tre per i fatti loro e subito dietro di noi. 
Le indicazioni della relazione, seppure magre, parevano rassicuranti: parcheggiare in prossimità della galleria Tartura e poi salire nel bosco per il sentierino che passa a ripide svolte per delle casere per poi alla fine piegare a sinistra alla base dello spigolo. Nulla di più facile!! Certo tre righe per riassumere 700 m di dislivello di foresta con tanto di rovi e liane forse avrebbero dovuto mettermi in allarme ma quando si propone una gita con decisione elevandosi a "Duce" del gruppo non si possono mostrare esitazioni. E così fu! 
Mezz'ora dopo aver parcheggiato in precaria posizione appena dopo la galleria eravamo grondanti di sudore e bestemmianti per la fatica lungo un sentiero ripidissimo che saliva l'erto pendio boscoso in direzione delle pareti. Beh, pensavo io in direzione delle pareti, dato che nel fitto del bosco potevamo anche essere nel Wyoming. Per di più il terreno era "pregno" di umidità: ogni passo significava sdrucciolare in basso e pestare rami che, facendo effetto rastrello, ci finivano inevitabilmente in faccia; a questo bel quadretto andava aggiunto il caldo del sole di maggio delle basse quote che, nel bosco, ci faceva rivivere le crude battaglie del Vietnam.
Ovviamente il quartetto che mi seguiva aveva il morale a terra, Paolo si chiedeva perché mi avesse dato ascolto o perché fossi nato e il tratturo diveniva sempre più spietato nello scivoloso e nella pendenza, altri 2° e avremmo tirato fuori le corde. Io provavo a incitare i compagni di ventura con qualche espediente come "là vedo della roccia, dai che ci siamo...tira un pochino ma è allenamento, dai su!" e in cambio ricevevo grugniti "gravidi" di odio.
Impiegammo circa tre ore di faticoso e penoso arrancare nella selva oscura per raggiungere le pareti del Cimoncello e a quel punto il sentiero si perse irrimediabilmente nella boscaglia. 
La situazione era più o meno quella dei Tedeschi a Stalingrado: i tre ragazzi dicevano cose senza senso come persi davanti all'ineluttabile destino, Paolo divenne disilluso e io, che mi sentivo colpevole per l'idea strampalata che avevo avuto, dissi che almeno, prima di gettare la spugna, sarebbe stato bello almeno vedere l'inizio della via che avremmo dovuto percorrere. Presi uno dei ragazzi e cominciai a frugare nella foresta andando a naso in direzione dello spigolo fino a trovare un bollo rosso dipinto sulla parete rocciosa. Improvvisamente gli altri si galvanizzarono come davanti all'apparizione delle "grazie" femminili e, visto l'ora non era troppo tarda, circa mezzogiorno, Paolo prese le redini della situazione e animò tutti con un discorso da comandante alle truppe davanti all'ultima battaglia: avevamo fatto tutta quella fatica ed ora bisognava fare la via!!! Solo che purtroppo non era la via giusta.
Paolo si fiondò in un attimo sulla placca che ci sovrastava, incitato ovviamente da me e dagli altri tre che ora costituivamo un gruppo compatto che mandava l'esperto davanti al nemico come "carne da cannone". Dopo aver percorso alcuni metri Paolo si bloccò e con piglio deciso esclamò: "dove c...o è il chiodo?", prontamente gli risposi io dicendogli : "guarda che ce lo devi mettere tu, ti pare che te lo lascino perché sei il bello?" e lui: "Perché non vieni tu qui e mi mostri come si fa visto che sai tutto?". Gli altri intanto incitavano Paolo a continuare su per la placca che si faceva via via più verticale quando a me venne un sospetto: le difficoltà erano troppo elevate rispetto a quelle dichiarate e che quindi la via poteva non essere quella giusta; traversai ancora più a sinistra mentre gli altri erano ancora lì a guardare l'azione che si svolgeva e finalmente arrivai sull'orlo di un profondo calanco alla base della lama dello spigolo, inequivocabile inizio del nostro itinerario (finalmente).
Richiamai tutti dicendo di essere finalmente sulla via corretta e Paolo, con qualche tentennamento ridiscese la placca che stava salendo e ancora legato venne fino a me ripartendo deciso come una Ferrari a cui avevano iniettato il Nos.
Dopo le prime roccette la parete si raddrizzava in modo impressionante col superamento di una placca grigia, seguita da un lungo e strapiombante diedro. Paolo proseguì automaticamente ed io non obbiettai, anche se avrei voluto andare io da primo lungo quella placca, probabilmente il coniglio che era in me  ritenne opportuno di non peggiorare ulteriormente la situazione dato che ora tutti avevano ritrovato il necessario entusiasmo. 
Il tratto successivo, per quanto punteggiato di chiodi, non fu affatto facile. Pensai ai primi salitori, al capocordata Umberto Conforto che, tenendosi in trazione con le corde di canapa legate in vita, con la compressione delle costole, andò alla ricerca di crepe e buchetti in cui infilare piccoli pezzi di ferro, ovviamente a suon di bestemmie, i quali ancora oggi permettono la salita altrimenti assai problematica. Dopo qualche fatica raggiunsi il mio compagno alla sosta che partì immediatamente per il tratto successivo: il diedro iniziava con una bella lama fino ad un tetto che andava aggirato per proseguire poi lungo una fessura che sporgeva sempre di più e si interrompeva contro la nuda placca grigia. 
All'inizio il socio partì di slancio, superò il tetto senza problemi ma il ritmo rallentò nell'affrontare la fessura seguente. Lo guardavo preoccupato all'idea che qualcosa andasse storto perché in quel caso sarei stato di gran poco aiuto: metro dopo metro e chiodo dopo chiodo avanzava lungo la verticalissima parete fino ad un passaggio con i chiodi particolarmente lontani; ecco l'intoppo, il punto in cui lo slancio inevitabilmente cala, il momento in cui l'adrenalina e l'agitazione annebbiano l'attenta valutazione. Prova e riprova, ad un certo punto sentii un verso come di chi fosse stato appena sfiorato da un camion; mi guardò e con occhi incerti tra l'entusiasta e il terrorizzato mi disse "Rossi!!! E' entrato al volo, il moschettone, è entrato al volo!!!". Mi sentii ringiovanire, per lui ovviamente, tutto era filato liscio.
Toccò a me quindi salire il diedro e la seguente fessura che subito mi fece capire come il compagno avesse fatto un capolavoro nel salirlo così di slancio e, arrivato al punto incriminato, mi afferrai senza nessuna remora al moschettone penzolante con cui superai il difficile tratto strapiombante; dopo un ultimo passo simile a Robocop con problemi intestinali per superare un gradone liscio, ci riunimmo sulla cengia di sosta.
Il salto successivo si mostrava ostico come il precedente ma più corto, ancora una volta Paolo andò da primo risolvendo agevolmente il passaggio e riprendendo il filo della cresta che ora si presentava più abbattuta: il problema consisteva in un corto gradone verticale da cui sbucavano due chiodi, col dilemma che la corda tirava fortemente di lato. Presi una staffa (una specie di scaletta) dallo zaino e la agganciai al primo chiodo, senza avere la minima idea di come equilibrarmici sopra. Nell'atto di passare al chiodo successivo mi ritrovai a mangiare le formiche e a grattarmi il petto contro la roccia. Decisi di lasciare perdere la staffa e di issarmi a brutale forza di braccia sul chiodo fino ad afferrare con un salto il seguente. Con i muscoli che invocavano lo sciopero per condizioni di lavoro non sindacali l'operazione riuscì e dopo un po' raggiunsi Paolo al comodo terrazzo di sosta. Dopo un ultimo tiro di corda comodo e aereo finalmente raggiungemmo le roccette terminali del Cimoncello, su un comodo spiazzo. Malgrado le difficoltà affrontate la scalata era stata veloce, poco più di tre ore. Siccome tutto era filato quasi liscio ci voleva ancora un po' di emozione: sopra di noi, la splendida giornata primaverile lasciò spazio alle dense nubi scure di un temporale e il vento iniziava a spirare intenso dalla valle sollevando nubi di polvere che ci entravano negli occhi.
Paolo cominciò a preoccuparsi perché sebbene fuori dalla via la discesa era ancora lunga e l'altra cordata era rimasta indietro: aspettammo alcuni minuti e nulla, cominciammo a chiamare a gran voce e nulla, provammo a sporgerci oltre il cornicione e nulla; che avessero deciso di calarsi senza dire nulla a nessuno? Non mi sarei affatto sorpreso.
Cominciammo a sistemare le corde per scendere a vedere cosa fosse successo quando, all'improvviso, ecco che sbucò una testa dal ciglio del terrazzo. Li avevamo staccati di circa un'ora. Nel frattempo il temporale che ci minacciava girò in un'altra direzione, verso l'altopiano di Asiago, e tornò a splendere il sole su di noi. Finalmente la tensione poteva calare un po', ridemmo e scherzammo e per qualche minuto gustammo il momento.
Una delle menzogne più mendaci tramandate dai racconti e da fiumi di letteratura alpina è il godimento del panorama ad ascensione compiuta, le emozioni della salita compiuta, l'affratellamento coi propri compagni. Ovviamente tutti ben si guardano da menzionare che bisogna anche tornare a casa e che in discesa ancora non si può assecondare la gravità che ci attira verso la terra, preferendo i comuni mortali giacere nel proprio letto e non nella terra lieve.

Iniziammo infatti la discesa dopo la classica stretta di mano sulla vetta e tramite una sottile cornice scendemmo all'interno del profondo vallone che sprofondava parallelo al sentiero di andata un po' come il famoso sentiero pe' la selva oscura. Era nostra intenzione infatti riprendere l'itinerario di andata che già conoscevamo e scenderlo velocemente fino alla strada. Ovviamente dopo la cengetta non fummo in grado di risalire alla base dello spigolo, che sorgeva sopra una parete rocciosa importante e proseguimmo nel canalone che scendeva buio verso il basso. Ovviamente le bestemmie ripresero a scorrere a fiumi ma questa volta col sorriso. Dopo un tratto assai rocambolesco in cui il canale presentava dei salti fangosi, i nostri compagni passarono in testa con la determinazione di scambierebbe un impero per una birra. Continuammo a scendere lungo l'impluvio della valle, io restai indietro perché ogni cinque o sei passi mi fermavo a dare una rapida occhiata al vestiario per prevenire dei simpatici aracnidi succhiatori di sangue che hanno l'insana usanza di dimorare nei boschi di bassa quota. Fortunatamente non erano abbastanza svegli visto il periodo. Dopo altre tre ore di discesa praticamente seduti a causa della ripidezza del terreno attraverso la valle, ci trovammo la strada sbarrata da una sgangherata rete paramassi: stava venendo il buio, la stanchezza era ormai insopportabile e tutti sembravamo i superstiti dalla nuotata nei tunnel in Alien la Clonazione. Non ricordo esattamente come avvenne ma ricordo che mi fiondai sulla rete come chi ormai non ha nulla da perdere e gli altri mi seguirono senza fiatare. L'operazione di scavalcamento poteva ricordare un'orda della serie serie di The Walking-Dead, con noi nella parte dei non-morti, ma ce la facemmo mettendo piede finalmente sulla strada esattamente davanti alle macchine.
Fu il passaggio chiave di tutta la giornata.



immagine dello spigolo del Cimoncello
    Lo spigolo visto dalla prima sosta

immagine dell'arrampicata lungo lo spigolo del Cimoncello

immagine di Alerossi lungo lo spigolo del Cimoncello
    Il sottoscritto nel tiro della fessura strapiombante


immagine di Alerossi in uscita dallo spigolo del Cimoncello
Ormai fuori dalle difficoltà

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martedì 19 novembre 2019

WORK IN PROGRESS

WORK IN PROGRESS



Alcuni mesi dopo la prima volta, nell'aprile del 2010, ci fu un'uscita sulle Piccole Dolomiti, il gruppo di montagne frastagliate che troneggia i Monti Lessini, in provincia di Vicenza. L'obiettivo era lo spigolo est del Primo Apostolo, itinerario molto conosciuto nella zona.

Le Piccole Dolomiti, gruppo di montagne a cavallo delle province di Trento, Verona e Vicenza, è il più esteso gruppo delle Prealpi Venete e formato dal Carega (culmine dei Lessini), dalla catena del Sengio Alto (tra i passi di Campogrosso e Pian delle Fugazze) ed il noto massiccio del Pasubio con la sua "Strada delle 52 Gallerie". 
La catena del Sengio Alto, chiamata così per la forma frastagliata della sua cresta, puntellata di guglie e gugliette, è sicuramente la più frequentata dai rocciatori, anche per la solidità del calcare che la compone e gli accessi corti alle pareti. Il Primo Apostolo è la più a sud delle tre sommità rocciose che fiancheggiano il Baffelàn, grande e squadrata pala rocciosa ben visibile dalla pianura e palestra dei rocciatori vicentini fin dal 1908, anno della prima scalata della parete est del suddetto; 400 m di canali e camini levigati dall'acqua che impegnarono a fondo i coniugi Gino e Maria Carugati uniti ad Antonio Berti, cantore delle crode. Il Primo Apostolo, la cui sommità è un'insignificante gobba erbosa, presenta uno spigolo di roccia verticale molto estetico che fu vinto nel 1936 da Ottorino Faccio, forte scalatore vicentino attivo nella zona e nel resto delle Dolomiti, e da Francesco Snichelotto, tramite un itinerario di media difficoltà ancora oggi molto ambito.

Durante tutto l'inverno presi sul serio l'idea di un allenamento più sistematico e provai addirittura a fare un piano per progredire velocemente nella sicurezza della scalata, cosa che coinvolse pure Stefano, malgrado la magra riuscita della prima volta (inutile dire che i buoni propositi ci sono sempre ma poi bisognerebbe pure reallizzarli).
I mesi invernali passarono sulla plastica (quella per arrampicare, specifichiamo!) e a messaggi con Paolo sui progetti futuri in vista dell'estate (anche in questi caso i buoni propositi non mancano mai) che vennero ovviamente subito approvati "con gioia" dalla morosa di turno che sospettava stessi cambiando sponda (non so quale fosse la vera avventura, se lei o la montagna).

Dopo il ritrovo in una calda domenica di Aprile (che tanto gentile e tanto onesta pareva...), presso la mia umile dimora, si aggiunse anche un tipo scanzonato e proveniente dal Basso Polesine, già conoscente di Paolo, montammo tutti su una macchina e ci dirigemmo verso Recoaro per poi da lì proseguire su per la stretta strada a numerosi tornanti che, dopo "la Guardia", si dirige al Passo di Campogrosso. Sono contento, ripensando a quell'occasione, di aver ceduto il posto davanti a Paolo che si è fatto l'andata e il ritorno praticamente seduto in strada; di fatti, visti i tempi di trasferta, l'amico alla guida doveva aver attraversato un Wormhole tanto che ci ritrovammo a Recoaro nel giro di non tanti minuti.

Alla piccola galleria prima del passo ci attese la prima sorpresa: un'enorme valanga, caduta durante l'inverno, aveva lasciato un grosso blocco di ghiaccio che sbarrava completamente l'uscita della galleria e, com'è ovvio, in un punto piuttosto stretto della strada. Il nostro Terzo Uomo (d'ora in poi lo chiamerò così), persa d'un tratto tutta la sua goliardia e cominciò a manifestare i segni della crisi di nervi che da lì a poco si sarebbe manifestata; infatti tentò un parcheggio azzardato al centro della curva all'ultimo tornante con la scusa pigra che tanto la strada era sbarrata. Nell'arco di alcuni secondi salvo la situazione cominciò a farsi interessante: Paolo cominciò ad avere le ansie pensando alla multa dei vigili (e non aveva tutti i torti), il Terzo Uomo cercava di minimizzare e si impuntò nel non muovere la macchina ed io che agivo da ammortizzatore sociale (almeno nell'intenzione). 
Dopo l'aumento graduale del volume della voce dei due soggetti seguì un subitaneo momento di silenzio di forse un minuto ma totale e ricco di pathos, tanto che alla fine il Terzo Uomo rinunciò all'atto di forza (forse perché non era Shwarznegger e noi non eravamo, o almeno non sapevamo essere mutanti) e portò giù la macchina ad un piccolo parcheggio sito poco prima, con la nostra promessa di trovarci nello stesso punto.

Dopo un'attesa abbastanza pacifica, in cui Paolo continuò ad avere qualche ansia, entrambi decidemmo di avvantaggiarci portando su il pesante fardello dell'attrezzatura, tanto la strada era una sola e comunque il nostro altro componente sarebbe stato veloce (vatti a fidare dell'ovvio).
Trascorse quasi un'ora di lento e monotono cammino lungo la strada ancora in parte innevata fino alla svolta che portava al cospetto di sua maestà il Baffelàn. Intanto il nostro Terzo Uomo non arrivava, ed il tempo passava inesorabile; malgrado la neve a terra faceva già abbastanza caldo per la stagione, dalle montagne circostanti si levavano i tuoni di valanghe e frane dovute al disgelo e nei tratti piani si affondava rendendo particolarmente facile la blasfemia a noi schiavi oppressi dalle nostre colpe. 
Ad un certo punto, preoccupati per il tempo trascorso, decidemmo di ritornare indietro a cercare il nostro compare oramai dato per disperso quand'ecco, come un messia (dei poveri, molto poveri...), si fece avanti dal bosco la sua figura con fare un poco truce. 
Per la sensibilità del lettore tralascio gli improperi rivolti alla Santissima Trinità e a noi che non lo avevamo aspettato nel punto prestabilito e che era stato assalito dal timore di averci sbagliato o che ci eravamo persi (lungo una strada asfalto per autobus circondata da clivi ripidi, non ho ancora conquistato questa medaglia al merito ma mai disperare). Si vocifera tutt'ora infatti che nel bosco di Recoaro ci sia una casa di marzapane...

Risolto l'inghippo arrivammo infine alla meta (o alla Mecca), ossia all'attacco dello spigolo, ormai ad ora di pranzo tuttavia col morale ancora alto e decisi ad andare avanti con la nostra scalata. 
Dopo una minuziosa preparazione che aveva sortito l'effetto di annodare le corde il nostro Terzo Uomo  si offrì volontario per andare da capocordata, senza lasciare spazio a repliche e lasciando a me il compito di fare l'enigmista con le corde, il tutto giusto per mostrare a noi uomini la durezza del suo membro. 
Cominciammo bene: proprio perché la via è di difficoltà moderate, e perché in queste zone si ostinano a perseguire un'etica di attrezzatura degli itinerari attuale e sicura come l'andare all'assalto di un tank con arco e frecce (ma su cui tralascio di esprimermi) ebbene lungo la via gli ancoraggi non abbondano ma si richiede un pizzico di intuito e di ragionamento nel cercare i passaggi migliori e di proteggersi adeguatamente. Questo fatto trae sempre in inganno chi è abituato ad andare solo con corda scarpette e qualche moschettone. Ciò che seguì ovviamente non fece eccezione.
Il nostro Terzo Uomo partì quindi baldanzoso, ovviamente senza pensare che la superbia debba essere supportata anche da un'adeguata preparazione per non finire come un palloncino sui cactus. Infatti, egli superò di slancio il primo difficile passaggio (reso difficile dalla levigatura degli innumerevoli passaggi) e si diresse poi nel bel mezzo di una placca senza possibilità di salire e di scendere, incrodato. Ciò fu dovuto anche al fatto che il vero rocciatore cerca il difficile nel facile: cosa è quella scanalatura ben gradinata a confronto del liscio piombo che la rupe oppone al pettoruto maschio italico, orgoglio della patria e della razza?! 
Malgrado le indicazioni di Paolo che, anni addietro, aveva già percorso l'itinerario, e che incitava il virgulto (ormai retrocesso a ominide nella scala evolutiva) a spostarsi verso un tratto di più miti consigli non ci fu nulla da fare. L'unica soluzione per salvare "la capra" e i cavoli, a quel punto fu che partisse anche Paolo, lasciando il sottoscritto in retroguardia a fare sicura (psicologica) sotto la mitragliata dei sassi scagliati dagli altri due (quando si dice la sicurezza...!!). 
Dopo un po' di pena (e invocazioni generose all'Altissimo) il problema venne risolto e tutti e tre ci trovammo sulla prima sosta. Da qui in poi proseguì sempre Paolo in testa con me ed il Terzo Uomo ad alternarci da secondi lungo il resto dello spigolo, sempre bello solido ed esposto, col sole che lentamente degradava verso ovest allungando le ombre delle montagne in un cielo rosato e malinconico.
Arrivati alla cima dello sperone est del Primo Apostolo il nostro capocordata, sicuro di sé, ci fece slegare con la scusa "tanto il sentiero è qui" e con virile baldanza si diresse lungo i lastroni della cresta che collegavano il detto sperone con il sentiero di arroccamento delle creste del Sengio Alto; noi lo seguimmo a ruota ovviamente con le scarpe bagnate fradice e la roccia viscida e rigorosamente slegati perché, si sa, un morto è meglio che tre, la sicurezza prima di tutto! 
Arrivati fortunosamente al sentiero (sacramentando), lo seguimmo verso Campogrosso per pochi metri per vederlo sparire in mezzo a cumuli di neve e giustamente col sole ormai tramontava. 
A questo punto gli altri due si misero nuovamente a battibeccare su quale fosse il sentiero da seguire per raggiungere il più velocemente possibile Campogrosso, giusto mentre cominciava a tirare uno sbarzolino gelido su per i pantaloni. Visto che le due "aquile" non prendevano posizione allora raccolsi io l'iniziativa (a volte anche la ciurma deve essere indirizzata dal capitano) dirigendomi in linea retta giù dal pendio ed affondando fino al petto in alcuni punti, riuscendo però a risparmiare un sacco di andirivieni per raggiungere la strada del passo, ovviamente con i due che continuavano a sacramentare in lingue arcane per la fatica.
Il rientro a casa avvenne tra una goliardata e l'altra attraverso un nuovo wormhole, infatti in circa 40 aminuti eravamo già oltre Padova, con Paolo che nuovamente si trovò direttamente in autostrada, ma fortunatamente tutto andò bene. 
Dopo questo episodio non rividi mai più il Terzo Uomo che da allora (per fortuna) prese altre strade. Intanto ebbi la prima, vera, seria esperienza su una montagna e nelle condizioni in cui la trovammo mi sentii parte per un attimo di quel mondo che avevo sentito narrato e descritto nella mia infanzia.




immagine dello spigolo est del Primo Apostolo

autoritratto a Campogrosso

immagine in arrampicata lungo lo spigolo

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LA PRIMA VOLTA

LA PRIMA VOLTA




Quest'anno 2019, e precisamente lo scorso ottobre, sono esattamente 10 anni che arrampico, il tempo è passato, a velocità soggettiva diseguale ma è passato (e già qui comincio il blog come un vecchio pescatore che fuma davanti all'oceano mentre gli attributi del lettore si allungano e puliscono terra).

Come da titolo l'episodio in questione tratta della mia prima via a più tiri percorsa in qualità di capocordata, nella goliardia di un evento affrontato immaginando per un momento di essere il Bonatti di turno e di vivere in piccolo le avventure lette nei libri (che poesia!!!!).

Quel giorno di ottobre 2009, una domenica ancora calda e umida, mi avventurai a Rocca Pendice, la parete "di casa" (diciamo la prima "erezione" che si incontra percorrendo i dintorni della mia piccola città, sita dove gli uccelli volano all'altezza dei pesci) con un amico che, dopo aver ascoltato le mie predicazioni neanche fossi Gesù nel tempio, riuscii a convincere a seguirmi nell'avventura.

Prima di andare oltre col racconto ci vuole una breve panoramica su questo colle chiamato Rocca Pendice: esso sorge presso il piccolo, panoramico e rustico paesello di Teolo, nel cuore dei Colli Euganei, in provincia di Padova. Verso est, ossia in direzione del mare, esso precipita nella valle sottostante con un muro compatto di trachite (una roccia metamorfica simile al granito) alto all'incirca 150 m e sulla sua sommità sorge un castello diruto su cui aleggia una leggenda di una principessa di nome Speronella, imprigionata dal perfido conte Pagano, storie sentimentali da pieno Medioevo. La prima conquista della parete fu una vera avventura: i coniugi Gino e Maria Carugati, accompagnati da Antonio Berti (per chi è un alpinista è l'autore di molte delle guide grige della CAI-TCI, detto il "cantore delle crode") e un tale Mariano Rossi, tutti provetti scalatori, attaccarono l'unico camino alla base della parete, piuttosto ostico a quei tempi (e pure oggi non scherza, come vedremo) e furono sorpresi da un temporale violento poco oltre. La tempesta li costrinse a passare la notte sulla parete, in pessime condizioni e si rese necessario un salvataggio da parte di coraggiosi volontari, contadini del posto, calando una corda dall'alto. Ritentarono pochi giorni dopo, con discrezione perché, a detta del Berti, dopo la passata esperienza "c'era di che farsi rinchiudere come i matti" e l'impresa riuscì. Correva l'anno 1909.

Tornando a me ed alla mia vitt...ahem, compagno di sventura, Stefano, era nostra intenzione cimentarci con la grande via storica perché, nella nostra mente vergine alla croda, doveva essere un'ascensione facile, con difficoltà moderate (si, ecco...!!!); così, forti di una relazione scaricata da internet che aveva l'unico pregio di essere gratis, di tre friend (specie di cunei ad espansione meccanici piuttosto costosi ma molto importanti e che soprattutto mi erano costati due sacche di sangue) e un paio di chiodi ci portammo all'attacco (aah, i tempi dell'alpinismo eroico...!).

L'ascensione del camino Carugati, una strombatura dalle pareti verticali e levigate che a metà si chiude con uno strapiombo a campana, mostrò già i primi indizi che la giornata sarebbe stata lunga. Nei primi 15 m tutto andò liscio ma, arrivato alla vistosa strozzatura dell'imbuto, ecco presentarsi il primo serio problema per le mie "innate" doti arrampicatorie: esso era spaccato in due da una liscia crepa che buttava fortemente all'infuori ed era troppo stretta per strisciarvi dentro (e no, non era una questiona di dieta, almeno allora). 
Prova, riprova, tenta all'esterno, spingi coi piedi ma nulla, la paura di volare prese il sopravvento e restai lì impalato per più di un'ora. Dopo molte titubanze, visto il venir meno dell'onore, mi venne un'idea: incastrai un friend dentro la crepa a mo' di leva e con uno strattone tentai una giravolta all'esterno per afferrare un appiglio promettente un po' a destra. La manovra riuscì in apnea e mi trovai su un terrazzino, sormontato da una liscia placca. Un altro ostacolo alla "naturale" sequenza degli aggraziati e gorilleschi movimenti. Questa però volta l'imbarazzo durò poco (si sa, la povertà "guzza" l'ingegno diceva qualcuno): dentro un chiodo a mo' di gradino e via, finalmente verso un decente punto di sosta su un minuscolo gradino.

Nel frattempo sopraggiunse un'altra cordata formata da tali Paolo e Nicola che, pur commentando affettuosamente il mio sopraffino operato (ma che cazzo fa il tuo amico? Pianta un chiodo a Rocca Pendice? A l'è mat...senti, ma l'è bon de nar su? Maial...), si aggrapparono famelici ai miei ancoraggi per salire.

Dopo questo semplice e "divertente" introito, così incoraggiati che già stavamo buttando le doppie per tornarcene a casa, i nuovi due arrivati provarono a ringalluzzirci puntando sull'onore (dopo tutta 'sta fadiga tornè anca indrè? Maial...) al punto che io e il socio (non so ancora perché) decidemmo di proseguire, ovviamente ignoranti (nel senso che ignoravamo...) ciò che stavamo facendo. Ricordo infatti di avere effettuato lunghezze di corda piuttosto corte onde sfruttare il più possibile gli anelli cementati presenti lungo la via, poco importava a due giovani masculi (specie a me) che la corda fosse di 70 m e ce ne fossero sempre 55 da recuperare, ovviamente lisci come la seta, su una roccia che sale "drittah" come un fuso (mannaggia). 
La via comunque si snodava attraverso magnifiche e solide placche di trachite (almeno quello) e il tratto più caratteristico dell'itinerario consisteva in un lungo diedro chiuso da un altro strapiombo atletico (scoprirò in seguito che si trattava di una variante, l'itinerario del 1909 si snodava più a destra lungo rocce appoggiate). 
Pian piano mi avvicinai al pancione che sbarrava la "natural burella", cominciavo già a pregustare il (dis-)piacere che il suo superamento mi avrebbe apportato: cm dopo cm piano piano eccolo avvicinarsi, potevo vederne le rughe, la radice che lo sormontava, la possibilità di muoversi in spaccata sulle pareti laterali, come un top climber nel passo più estetico. 
Risultato reale: crampi alle braccia e ad un anca, era meglio se andavo a guardare un cantiere. Fortunatamente i due che procedevano con noi e che nel frattempo erano passati in testa, ebbero la pietà di lanciarmi un capo della corda per potermi issare al di sopra del tratto fatidico e raggiungere il punto di sosta. Recuperai velocemente il compagno lasciandogli l'onore (o l'onere) di portarsi alla fine del diedro liscio onde uscire dalla parete una volta per tutte. 
Venne su e davanti alla gentile richiesta di un Duce al suo esercito cominciò titubante a muoversi lungo la fenditura, la fame e il calare del sole lo motivarono di più.
Arrivammo in vetta con l'ultima luce, giusto per fiondarci giù dal sentiero di discesa e rientrare alla macchina. I due che avevano percorso la via con noi gentilmente ci aspettarono e scambiammo due chiacchiere: ancora non sapevo che sarebbero divenuti miei compagni di cordata per i seguenti tre anni.

La prima volta fu movimentata, avventurosa e anche un po' scavezzacollo, se ci ripenso col senno di poi, ma fu la prima di una lunga serie.

immagine della est del Rocca Pendice

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