L'AVVENTURA CONTINUA
Dopo un mese dalla salita dello spigolo del Primo Apostolo sulle Piccole Dolomiti, vedendo lo spirito di iniziativa pari all'ECG di un cadavere dei nuovi soci mi imbattei per caso nella descrizione di una via molto interessante nella Valdastico, sopra l'abitato di Arsiero, e precisamente l'affilato e verticalissimo spigolo del Monte Cimoncello. Ovviamente la relazione proveniva dallo stesso sito internet (le guide cartacee erano ancora troppo evolute per il sottoscritto) affidabile e preciso che aveva mandato in confusione me e Stefano la volta prima a Rocca Pendice. Lo proposi a Paolo sviolinandogli una manfrina vergognosa e fraudolenta su come fosse comodo e tranquillo, ovviamente senza neppure essere capace di trovare il Cimoncello sulla carta geografica. Il sermone sortì l'effetto voluto perché accettò e addirittura coinvolse altri tre ragazzi nell'impresa (poveretti...).
Prima di proseguire, due parole sulla Valdastico: questa valle, che da Thiene prosegue in direzione di Trento, ha un aspetto vario, bucolico anche se qua e là emergono le vestigia di un'industrializzazione nata col boom economico ma che ancora resiste, ameno nel suo tratto superiore perché ancora abbastanza rustica e selvaggia. Essa è circondata dal Monte Novegno a sud-ovest, dall'altopiano di Asiago a nord-est e dall'altopiano di Folgaria-Lavarone a nord-est. Da quest'ultimo si eleva un bastione roccioso e boscoso, visibile anche da Padova nelle belle giornate, chiamato Monte Cimone, luogo aspramente conteso durante la Prima Guerra Mondiale, e il suo fratello minore ma più roccioso e verticale, il Cimoncello. La conquista del suo spigolo sud avvenne da parte di Umberto Conforto, compagno storico di Gino Soldà, medaglia d'oro al merito sportivo e uno degli uomini del K2, e di altri due compagni, Toffoli e Zacchi, nel 1935, tramite una via di elevato impegno tecnico per l'epoca (e anche oggi non proprio da mangiare a colazione).
Era maggio del 2010, l'inizio di maggio, clima non troppo caldo ma non freddo, meteo soleggiato ma con sobbalzi, molta umidità ma non ancora al massimo possibile. Ci dividemmo in due cordate, io e Paolo e gli altri tre per i fatti loro e subito dietro di noi.
Le indicazioni della relazione, seppure magre, parevano rassicuranti: parcheggiare in prossimità della galleria Tartura e poi salire nel bosco per il sentierino che passa a ripide svolte per delle casere per poi alla fine piegare a sinistra alla base dello spigolo. Nulla di più facile!! Certo tre righe per riassumere 700 m di dislivello di foresta con tanto di rovi e liane forse avrebbero dovuto mettermi in allarme ma quando si propone una gita con decisione elevandosi a "Duce" del gruppo non si possono mostrare esitazioni. E così fu!
Mezz'ora dopo aver parcheggiato in precaria posizione appena dopo la galleria eravamo grondanti di sudore e bestemmianti per la fatica lungo un sentiero ripidissimo che saliva l'erto pendio boscoso in direzione delle pareti. Beh, pensavo io in direzione delle pareti, dato che nel fitto del bosco potevamo anche essere nel Wyoming. Per di più il terreno era "pregno" di umidità: ogni passo significava sdrucciolare in basso e pestare rami che, facendo effetto rastrello, ci finivano inevitabilmente in faccia; a questo bel quadretto andava aggiunto il caldo del sole di maggio delle basse quote che, nel bosco, ci faceva rivivere le crude battaglie del Vietnam.
Ovviamente il quartetto che mi seguiva aveva il morale a terra, Paolo si chiedeva perché mi avesse dato ascolto o perché fossi nato e il tratturo diveniva sempre più spietato nello scivoloso e nella pendenza, altri 2° e avremmo tirato fuori le corde. Io provavo a incitare i compagni di ventura con qualche espediente come "là vedo della roccia, dai che ci siamo...tira un pochino ma è allenamento, dai su!" e in cambio ricevevo grugniti "gravidi" di odio.
Impiegammo circa tre ore di faticoso e penoso arrancare nella selva oscura per raggiungere le pareti del Cimoncello e a quel punto il sentiero si perse irrimediabilmente nella boscaglia.
La situazione era più o meno quella dei Tedeschi a Stalingrado: i tre ragazzi dicevano cose senza senso come persi davanti all'ineluttabile destino, Paolo divenne disilluso e io, che mi sentivo colpevole per l'idea strampalata che avevo avuto, dissi che almeno, prima di gettare la spugna, sarebbe stato bello almeno vedere l'inizio della via che avremmo dovuto percorrere. Presi uno dei ragazzi e cominciai a frugare nella foresta andando a naso in direzione dello spigolo fino a trovare un bollo rosso dipinto sulla parete rocciosa. Improvvisamente gli altri si galvanizzarono come davanti all'apparizione delle "grazie" femminili e, visto l'ora non era troppo tarda, circa mezzogiorno, Paolo prese le redini della situazione e animò tutti con un discorso da comandante alle truppe davanti all'ultima battaglia: avevamo fatto tutta quella fatica ed ora bisognava fare la via!!! Solo che purtroppo non era la via giusta.
Paolo si fiondò in un attimo sulla placca che ci sovrastava, incitato ovviamente da me e dagli altri tre che ora costituivamo un gruppo compatto che mandava l'esperto davanti al nemico come "carne da cannone". Dopo aver percorso alcuni metri Paolo si bloccò e con piglio deciso esclamò: "dove c...o è il chiodo?", prontamente gli risposi io dicendogli : "guarda che ce lo devi mettere tu, ti pare che te lo lascino perché sei il bello?" e lui: "Perché non vieni tu qui e mi mostri come si fa visto che sai tutto?". Gli altri intanto incitavano Paolo a continuare su per la placca che si faceva via via più verticale quando a me venne un sospetto: le difficoltà erano troppo elevate rispetto a quelle dichiarate e che quindi la via poteva non essere quella giusta; traversai ancora più a sinistra mentre gli altri erano ancora lì a guardare l'azione che si svolgeva e finalmente arrivai sull'orlo di un profondo calanco alla base della lama dello spigolo, inequivocabile inizio del nostro itinerario (finalmente).
Richiamai tutti dicendo di essere finalmente sulla via corretta e Paolo, con qualche tentennamento ridiscese la placca che stava salendo e ancora legato venne fino a me ripartendo deciso come una Ferrari a cui avevano iniettato il Nos.
Dopo le prime roccette la parete si raddrizzava in modo impressionante col superamento di una placca grigia, seguita da un lungo e strapiombante diedro. Paolo proseguì automaticamente ed io non obbiettai, anche se avrei voluto andare io da primo lungo quella placca, probabilmente il coniglio che era in me ritenne opportuno di non peggiorare ulteriormente la situazione dato che ora tutti avevano ritrovato il necessario entusiasmo.
Il tratto successivo, per quanto punteggiato di chiodi, non fu affatto facile. Pensai ai primi salitori, al capocordata Umberto Conforto che, tenendosi in trazione con le corde di canapa legate in vita, con la compressione delle costole, andò alla ricerca di crepe e buchetti in cui infilare piccoli pezzi di ferro, ovviamente a suon di bestemmie, i quali ancora oggi permettono la salita altrimenti assai problematica. Dopo qualche fatica raggiunsi il mio compagno alla sosta che partì immediatamente per il tratto successivo: il diedro iniziava con una bella lama fino ad un tetto che andava aggirato per proseguire poi lungo una fessura che sporgeva sempre di più e si interrompeva contro la nuda placca grigia.
All'inizio il socio partì di slancio, superò il tetto senza problemi ma il ritmo rallentò nell'affrontare la fessura seguente. Lo guardavo preoccupato all'idea che qualcosa andasse storto perché in quel caso sarei stato di gran poco aiuto: metro dopo metro e chiodo dopo chiodo avanzava lungo la verticalissima parete fino ad un passaggio con i chiodi particolarmente lontani; ecco l'intoppo, il punto in cui lo slancio inevitabilmente cala, il momento in cui l'adrenalina e l'agitazione annebbiano l'attenta valutazione. Prova e riprova, ad un certo punto sentii un verso come di chi fosse stato appena sfiorato da un camion; mi guardò e con occhi incerti tra l'entusiasta e il terrorizzato mi disse "Rossi!!! E' entrato al volo, il moschettone, è entrato al volo!!!". Mi sentii ringiovanire, per lui ovviamente, tutto era filato liscio.
Toccò a me quindi salire il diedro e la seguente fessura che subito mi fece capire come il compagno avesse fatto un capolavoro nel salirlo così di slancio e, arrivato al punto incriminato, mi afferrai senza nessuna remora al moschettone penzolante con cui superai il difficile tratto strapiombante; dopo un ultimo passo simile a Robocop con problemi intestinali per superare un gradone liscio, ci riunimmo sulla cengia di sosta.
Il salto successivo si mostrava ostico come il precedente ma più corto, ancora una volta Paolo andò da primo risolvendo agevolmente il passaggio e riprendendo il filo della cresta che ora si presentava più abbattuta: il problema consisteva in un corto gradone verticale da cui sbucavano due chiodi, col dilemma che la corda tirava fortemente di lato. Presi una staffa (una specie di scaletta) dallo zaino e la agganciai al primo chiodo, senza avere la minima idea di come equilibrarmici sopra. Nell'atto di passare al chiodo successivo mi ritrovai a mangiare le formiche e a grattarmi il petto contro la roccia. Decisi di lasciare perdere la staffa e di issarmi a brutale forza di braccia sul chiodo fino ad afferrare con un salto il seguente. Con i muscoli che invocavano lo sciopero per condizioni di lavoro non sindacali l'operazione riuscì e dopo un po' raggiunsi Paolo al comodo terrazzo di sosta. Dopo un ultimo tiro di corda comodo e aereo finalmente raggiungemmo le roccette terminali del Cimoncello, su un comodo spiazzo. Malgrado le difficoltà affrontate la scalata era stata veloce, poco più di tre ore. Siccome tutto era filato quasi liscio ci voleva ancora un po' di emozione: sopra di noi, la splendida giornata primaverile lasciò spazio alle dense nubi scure di un temporale e il vento iniziava a spirare intenso dalla valle sollevando nubi di polvere che ci entravano negli occhi.
Paolo cominciò a preoccuparsi perché sebbene fuori dalla via la discesa era ancora lunga e l'altra cordata era rimasta indietro: aspettammo alcuni minuti e nulla, cominciammo a chiamare a gran voce e nulla, provammo a sporgerci oltre il cornicione e nulla; che avessero deciso di calarsi senza dire nulla a nessuno? Non mi sarei affatto sorpreso.
Cominciammo a sistemare le corde per scendere a vedere cosa fosse successo quando, all'improvviso, ecco che sbucò una testa dal ciglio del terrazzo. Li avevamo staccati di circa un'ora. Nel frattempo il temporale che ci minacciava girò in un'altra direzione, verso l'altopiano di Asiago, e tornò a splendere il sole su di noi. Finalmente la tensione poteva calare un po', ridemmo e scherzammo e per qualche minuto gustammo il momento.
Una delle menzogne più mendaci tramandate dai racconti e da fiumi di letteratura alpina è il godimento del panorama ad ascensione compiuta, le emozioni della salita compiuta, l'affratellamento coi propri compagni. Ovviamente tutti ben si guardano da menzionare che bisogna anche tornare a casa e che in discesa ancora non si può assecondare la gravità che ci attira verso la terra, preferendo i comuni mortali giacere nel proprio letto e non nella terra lieve.
Iniziammo infatti la discesa dopo la classica stretta di mano sulla vetta e tramite una sottile cornice scendemmo all'interno del profondo vallone che sprofondava parallelo al sentiero di andata un po' come il famoso sentiero pe' la selva oscura. Era nostra intenzione infatti riprendere l'itinerario di andata che già conoscevamo e scenderlo velocemente fino alla strada. Ovviamente dopo la cengetta non fummo in grado di risalire alla base dello spigolo, che sorgeva sopra una parete rocciosa importante e proseguimmo nel canalone che scendeva buio verso il basso. Ovviamente le bestemmie ripresero a scorrere a fiumi ma questa volta col sorriso. Dopo un tratto assai rocambolesco in cui il canale presentava dei salti fangosi, i nostri compagni passarono in testa con la determinazione di scambierebbe un impero per una birra. Continuammo a scendere lungo l'impluvio della valle, io restai indietro perché ogni cinque o sei passi mi fermavo a dare una rapida occhiata al vestiario per prevenire dei simpatici aracnidi succhiatori di sangue che hanno l'insana usanza di dimorare nei boschi di bassa quota. Fortunatamente non erano abbastanza svegli visto il periodo. Dopo altre tre ore di discesa praticamente seduti a causa della ripidezza del terreno attraverso la valle, ci trovammo la strada sbarrata da una sgangherata rete paramassi: stava venendo il buio, la stanchezza era ormai insopportabile e tutti sembravamo i superstiti dalla nuotata nei tunnel in Alien la Clonazione. Non ricordo esattamente come avvenne ma ricordo che mi fiondai sulla rete come chi ormai non ha nulla da perdere e gli altri mi seguirono senza fiatare. L'operazione di scavalcamento poteva ricordare un'orda della serie serie di The Walking-Dead, con noi nella parte dei non-morti, ma ce la facemmo mettendo piede finalmente sulla strada esattamente davanti alle macchine.
Fu il passaggio chiave di tutta la giornata.
Lo spigolo visto dalla prima sosta
Il sottoscritto nel tiro della fessura strapiombante
Ormai fuori dalle difficoltà
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