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domenica 4 aprile 2021

LA VIA NUOVA - VIA MARISA AL MURO DEL PIANTO

 LA VIA NUOVA

 Via Marisa al Muro del Pianto


Il 2017 è stato sostanzialmente un anno di passaggio e di rinascita anche se al tempo ancora non lo sapevo, la fine dei grandi esami che dovevo sostenere con ansia per avere dei titoli di studio, l'inizio del corso di specializzazione a Trapani, periodo molto denso di attività musicale, l'apertura della prima via e il perfezionamento della fallace tecnica alpinistica che possedevo fino ad allora anche grazie alla dedizione ad esercizi specifici per migliorare la resistenza e la forza nelle braccia e nelle dita dei piedi.

Durante un'uscita precedente in Valle del Sarca in cui partecipò anche il redivivo Stefano, io e il Bocia conoscemmo l'accademico Franco Sartori che ci propose alcuni chiodi di sua fabbricazione, che uso tutt'ora in ogni occasione e che sono di ottima qualità. Si tratta di chiodi in ferro dolce per calcare, piuttosto robusti e che hanno prestazioni pari o migliori di quelli certificati da negozio.
Il Bocia contattò in seguito Franco per poter perfezionare la sua tecnica su roccia e in arrampicata artificiale, nel mentre io procedevo con i miei impegni, fino al giorno in cui uscì la proposta: apriamo una via nuova.
Innanzitutto bisogna dire il dove: il Muro del Pianto, che abbiamo battezzato dallo stillicidio quasi perpetuo canzonando ben più famosi muri, è una fascia rocciosa situata nella stretta forra della Val Gadena, in Valsugana, in passato solcato da alcuni itinerari che pretendevano di essere sportivi e poi dimenticato. La roccia è andante, in alcuni punti solida ma in molti altri decisamente non bella.
Poi bisogna dire il come: l'unico modo per rivitalizzare una parete come quella, nel punto più aggettante, è in artificiale, moderno possibilmente.
L'idea mi piacque per la novità rappresentata, anche se il mio entusiasmo era relativo perché gli altri due nel frattempo avevano già cominciato i lavori e io facevo solo da ospite. 

La linea della via, per quanto piccola, era ardita: si snodava lungo una placca assai strapiombante e serpeggiando tra dei tetti raggiungendo poi un tratto spiovente sopra questi. Poi ci sarebbe stato da valutare cosa si sarebbe potuto fare al di sopra.
La prima volta che erano venuti, Franco aveva sperimentato dei chiodi a pressione corti di sua fabbricazione che però non facevano molta presa nella roccia spugnosa della parete, così quando arrivammo alla base tutti e tre gli toccò un improbo lavoro di valutazione e sostituzione di tutti quelli piantati. Dopo una mattinata passata per l'operazione, finalmente Franco ci chiamò dalla sosta dove potemmo riunirci tutti e tre in scomodità: ne risultò un bel tiro con diversi passaggi su ganci sempre ben protetti da chiodi ora solidi e da alcuni fix.
Nella fase successiva il Bocia partì volontario e baldanzoso (come sempre ignaro di quel che l'attendeva) per chiodare la placca successiva, grigia, senza la più piccola scalfittura. Superò un tetto sempre a suon di fix e poi piegò a sinistra verso una grotta: qui venne il bello!
Una volta entrato nella grotta, non senza difficoltà, trovò un vecchio cavo di traino in acciaio e cominciò a martellare tutte le pareti della caverna che tuonavano come un tamburo. Dopo alcuni minuti in cui non si capiva cosa stesse succedendo Franco chiese al Bocia di recuperarlo nella grotta con fare un po' militaresco e salì con circospezione fino alla cavità. Ciò che avvenne lassù, lontano dalla mia vista, non posso dirlo per intero ma la suspense ci fu davvero (come cantava Faber). Un tempo interminabile dopo giunse il richiamo al sottoscritto di smontare tutto l'ambaradan e di salire, cosa che costituì un sollievo perché non ne potevo più di stare sulla mia tavola in legno appeso con dolori in posti che non immaginavo di avere. Li raggiunsi e ci scambiammo tutti e tre una stretta di mano per la riuscita della piccola ma pur sempre nuova impresa e ci calammo nel vuoto fino a terra con le ultime luci del giorno che se ne andavano. 
Come coronamento della giornata positiva le corde si incagliarono nel recupero e il buon Franco, energico e baldanzoso, fu offerto volontario per risalirle districarle, con la consueta sequenza di improperi e sacramentazioni.


Il muro del Pianto dove si snoda la via.

Azione sul primo tiro

Strapiombi

Tetto del secondo tiro

La risalita delle corde fisse come regalo al termine delle difficoltà

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venerdì 2 ottobre 2020

NEL RIDICOLO - VIA MAESTRI A SAN LEO

 NEL RIDICOLO

Via Maestri-Alimonta a Rocca San Leo


La via Maestri-Alimonta a Rocca San Leo  mi era costata già tre tentativi in precedenza, due con Paolo molti anni prima e uno col Bocia: il primo abbandonato perché attaccammo tardi, col maltempo improvviso in arrivo e una cordata di biellesi che mettevano il nervoso a Paolo, gli altri due abortiti esclusivamente a causa del meteo che in quella zona del riminese, a causa della vicinanza ala mare, imperversava abbastanza violento quando arrivavano perturbazioni consistenti.

La via aperta da Cesare Maestri ed Ezio Alimonta era una sorta di esperimento, completamente in arrampicata artificiale, effettuato nel 1969 per provare il compressore del Cerro Torre e per sensibilizzare l'opinione pubblica al mantenimento della Rocca di San Leo che a quei tempi non versava in buono stato. Un tentativo avveniristico per l'epoca, considerando che la rupe è in arenaria e i chiodi a pressione utilizzati dal Bigio entrano nella roccia per poco meno di 3 cm.

Quel giorno di Novembre del 2016, dopo il faticoso periodo del diploma, pensai che un modo adatto a rimettere le mani sulla roccia fosse proprio questa via, corta e artificiale, che richiedeva più metodo e costanza che allenamento specifico e così ci ritrovammo nuovamente ai piedi della rocca dopo aver superato l'orrendo boschetto ripido e pieno di schifezze gettate dall'alto che porta alla parete. 
Come le altre volte cominciammo a salire e siccome avevo sempre cominciato io e ormai l'inizio lo conoscevo a memoria, lasciai al Bocia l'onore del primo tiro che risalì con calma e tranquillità; io lo raggiunsi con l'andazzo del pensionato alla scomoda sosta. Il tempo era caldo, eravamo carichi moralmente, leggeri, già ad una buona quota e ciò mi parve di buon auspicio. 
Partii per il tiro seguente, dove la parete da strapiombante diventava verticale e si rivelò un poco più difficile del primo per la chiodatura un po' lunga; raggiunsi la scomodissima sosta appesa sotto un tettino, dove era apposto il libro delle firme. Fin qui ancora nulla di strano, tutto da manuale, malgrado fossimo già nel pomeriggio mancava solo un tiro per arrivare in cima e l'avremmo fatto senza nessun problema, fosse arrivato il buio ci avrebbero pensato i riflettori della Rocca a illuminare la via. Recuperai il Bocia, cominciò a salire dapprima con buon ritmo, poi sempre più lentamente, quasi a scatti, poi si fermò per un po' e riprese solo dopo a salire e sbucò lentamente fuori dallo strapiombo. Lo vidi avvicinarsi a me completamente inondato di sudore, aveva una faccia a metà strada tra chi ha lavorato in miniera e chi ha paura del dentista. C'era chiaramente qualcosa che non andava, forse aveva accusato della stanchezza, carenza di liquidi o semplicemente non era in giornata (è successo molto spesso anche a me, per scalare ci vuole il massimo comfort spirituale). 
Gli domandai se se la sentiva di fare il tiro successivo per uscire dalla parete e mi disse di si, anche perché il cambio di posizione e il tempo che volava velocemente suggerirono di risparmiare i convenevoli. Non chiesi oltre, mi disposi per la sicurezza, entrambi facemmo una pausa ristoro e tutto tornò alla normalità.
Eravamo a buon punto, bastava fare solo l'ultimo tiro, nulla era stato lasciato al caso. Solo che...una vocina mi diceva che c'era qualcosa di sbagliato in quella scalata, un fatto che non riuscivo ad identificare ma che non mi faceva stare tranquillo. Mi concentrai sul presente e misi a tacere la coscienza.

Il socio ripartì a buon ritmo, ormai completamente ripreso e ciò mi confortò abbastanza perché sentii che di lì a poco saremmo stati al ristorante a mangiare e a festeggiare la salita portata a termine in questo luogo incantevole. Si alzò velocemente e uscì dal tratto giallo e aggettante di parete entrando in un grigio colatoio dove le difficoltà avrebbero dovuto cominciare a scendere. Ad un tratto le corde si fermarono, non sentii più alcun suono e solo poco dopo mi mise al corrente della situazione: "vecio, qui o xe saltà un ciòdo o qualchedùn ga sbajà aa reasiòn, parché el passo l'è davvero longo!!!" (Vecchio, o qui si è staccato un chiodo o qualcuno ha sbagliato a relazionare  la via perché il salto è davvero lungo) - "varda che ghe dovarìa esserghe n'appejo ala to sinistra, ciapao, cargate su e moschetona el ciodo" (Guarda che ci dovrebbe essere un appiglio alla tua sinistra, usalo e poi acchiappa il chiodo sopra) - "varda che de qua 'ndò ca te disi nol ghe xe gninte, el passo l'è questo!" (Guarda che dove dici te non c'è nulla, il passaggio giusto è questo qui) - "pensito de riussire a farghea?" - "Par mi si, ghe provo" (pensi di farcela? Secondo me si, ci provo).
Non vidi nulla di quello che accadde sopra di me ma dagli sbuffi e dalle imprecazioni (che ho omesso anche dai discorsi, per non turbare gli animi sensibili e fragili) il Bocia diede il meglio di se stesso, riuscendo a passare il liscio muro a suon di cliffhanger e uno spuntoncino. Grandioso! Chissà cosa sarebbe toccato a me appena in seguito. Il socio continuò a salire nel colatoio, lentamente ma regolarmente, lo vidi riapparire lontano da me, ormai a circa quattro metri dal bordo del muro, in direzione della torre della Rocca. Il giorno stava lasciando il posto alle tenebre ma ormai era fatta, anche se fossi salito mentre l'oscurità mi abbracciava non ci sarebbero stati problemi, eravamo ormai fuori e le luci del castello mi avrebbero indicato la via. Tutto è bene quel che finisce bene.

No! Non va tutto bene, anzi va male, malissimo! A due metri dall'uscita il Bocia si bloccò. Provò e riprovò ma niente, usò ancora qualche trucco, i ganci su una minuscola sporgenza ma non tennero, lo intravidi lontano, con l'oscurità che ormai era sopraggiunta, lo sentii in lontananza dimenarsi e bestemmiare ma niente, questa volta si fermò definitivamente. 
Anche urlando non riuscivamo a sentirci chiaramente così misi mano al telefono, tanto c'era piena ricezione, e gli telefonai per avere un aggiornamento sulla situazione. Quello che mi disse mi fece orrore, improvvisamente capii perché sentivo la vocina che mi metteva in allerta e tutto ciò che quel giorno non andava venne a galla in un colpo solo; la sequela di boiate che avevamo fatto era notevole, il giusto miscuglio per il disastro. 

Per capire cosa è successo bisogna fare una digressione e spiegare alcune cose: Maestri aprì la via nel 1969 e per molto tempo quell'itinerario rimase l'unico sulla parete. Una trentina d'anni dopo vennero degli altri alpinisti che aprirono un secondo itinerario, appena sulla destra, lungo un diedro con tetto e all'apparenza anche interessante che, a differenza della via vecchia, riserbava alcuni passaggi in libera a sorpresa, tra cui proprio l'uscita, un muro liscio e atletico che bisognava superare con decisione.
Nell'effettuare il difficile passaggio all'inizio del colatoio è probabile che il socio non abbia notato dei chiodini a pressione che s'innalzavano sulla sua sinistra, o forse gli erano celati alla vista. Così facendo, in quel tratto sbagliò via finendo su quella accanto, in quel punto molto vicina alla nostra e finendo così dritto in trappola. 
Quando si arrampica in artificiale non si usano i normali appigli e appoggi che offre la roccia, o si usano poco, ma ci si affida completamente agli ancoraggi che si posizionano nella parete e li si sfrutta con delle scalette chiamate "staffe", come quelle che si usano per montare i cavalli ma decisamente più lunghe. Per collegarsi agli ancoraggi, a parte la corda e le staffe si utilizza anche un cordino che tramite un meccanismo (ce ne sono di diversi tipi ma sortiscono lo stesso effetto) lo si può allungare o recuperare per tenere il corpo vicino alla parete. Senza questo collegamento tutto il peso dello scalatore sarebbe esclusivamente sulle sue braccia e le sue gambe, rendendo la posizione insostenibile dopo pochi istanti.
Sapendo che la via Maestri-Alimonta era una via completamente artificiale, quel giorno decidemmo di calzare gli scarponi rigidi da ghiacciaio, per mantenere i piedi comodi nelle staffe e agganciammo il meccanismo di recupero del cordino direttamente al moschettone della staffa, per guadagnare qualche centimetro in più e risparmiare energie altrimenti spese in continui allungamenti (da quella volta ho imparato a tenerlo separato e ad agganciare il cordino tramite un uncino che entra direttamente nell'occhiello dei chiodi, sortendo lo stesso effetto e permettendomi di sfilarlo facilmente all'occorrenza). Inoltre quel giorno attaccammo la via in tarda mattinata calcolando poco più di un'ora a tiro, come sulla vicina Penna del Gesso ma tale considerazione si rivelò errata e fummo sorpresi dal buio vicini all'uscita. Nessuno dei due tra l'altro portò le scarpette da roccia.
Tutte queste scelte furono gravide di conseguenze di lì a poco.

Il Bocia rispose al telefono e mi descrisse brevemente il problema: si trovava sotto una placca liscia che presentava un unico appiglio in parte scollato dalla parete e che probabilmente non avrebbe retto allo strappo; inoltre con gli scarponi rigidi ai piedi non riusciva a fare forza da nessuna parte per innalzarsi oltre l'ostacolo. Lo incitai in tutti i modi possibili, anche a provare a prendere il ramo di un rovo che sbucava dal bordo ma era troppo lontano; quei pochi centimetri che dividevano l'arbusto dalle sue mani erano divenuti una distanza siderale, incolmabile, imprescindibile. Era inutile e me lo sentivo e dopo un'interminabile attesa per vedere se la situazione si sbloccava in una qualche maniera, diedi voce al compagno di scendere e che lo avrei calato fino a me per ragionare sul da farsi. Si preparò all'operazione e lo feci scendere lentamente nella mia direzione quando all'improvviso, mentre era in corso l'operazione, sentii chiamare da sotto distintamente e ripetutamente: qualcuno, sentite le voci,  aveva avvisato le forze dell'ordine! 

Io risposi ai ripetuti richiami e l'unica cosa che riuscii a capire era che parlavo con un agente delle forze dell'ordine (non so di che corpo) e che la parete era interdetta a causa del pericolo di crolli (qualche anno prima si era verificato un franamento sul versante opposto) e che dovevamo scendere. 
Nel frattempo il Bocia giunse alla sosta, lo guardai, il suo volto era sconsolato e preoccupato per la situazione in cui ci eravamo venuti a trovare e quindi tutt'altro che nella condizione di poter ragionare.
Mentre cercavo di pensare a cosa sarebbe stato meglio fare, ragionando se avessi potuto fare meglio del compagno là in alto ecco che sentii altri richiami provenire dal basso, sempre da parte dello stesso agente che ci intimava insistentemente di scendere. 
Che sia maledetto! Invece di sbraitare comodo dalla strada, avrebbe potuto portarsi più vicino a noi per rendersi conto della situazione, forse avrebbe convenuto che sarebbe stato meglio lasciarci fare il nostro lavoro in pace. 
Pressato dalle contingenze decisi unilateralmente di scendere abbandonando del materiale sulla parete. Provai a buttare giù le corde e sentii che toccarono qualcosa ma alla base del muro era troppo buio per capire se avessero colpito il suolo o la cima di un albero; nel secondo caso, se mi fossi calato giù fiducioso, mi sarebbe toccata una risalita estenuante per tutti i 60 m delle corde che avrebbe significato finire a notte fonda. Optai per non rischiare e ripercorrere la via al contrario, così cominciai le calate a corda doppia.

Nel cominciare la calata, preso dalla fretta, saltai incautamente il primo ancoraggio e mi trovai a penzolare nel vuoto; provai a pendolare verso sinistra nella speranza di acchiappare almeno un chiodo ma essi erano troppo lontani. Dovevo guadagnare qualche centimetro verso sinistra per riuscire ad afferrare un appiglio e chiesi al Bocia di infilare la gamba sotto le corde, spingendomi un poco più in là. Ricominciai le pendolate fino a che riuscii ad afferrare  l'appiglio sperato e mi avvicinai al chiodo quel che bastava ad agganciarlo al volo e con sforzo indicibile con un moschettone e quindi a proseguire la calata verso la sosta successiva. Avevo l'adrenalina a mille per le manovre eseguite e solo con un grande pena ero riuscito a riportarmi sulla retta via. Dopo aver moschettonato altri due chiodi riesco a raggiungere il punto di sosta e a liberare le corde per permettere al compagno di raggiungermi. Mi sistemai comodo e tirai un sospiro, qualunque cosa fosse accaduta io ero almeno in una posizione comoda e coi piedi appoggiati a qualcosa e non nel vuoto.

Egli cominciò a calarsi lungo le corde arrivando al primo moschettone. Dopo una serie di improperi, visto l'andamento obliquo delle corde, riuscì a sganciare l'ancoraggio e proseguì con apprensione verso il secondo, trovandosi però sempre più fuori dalla verticale della sosta su cui ero io. Al secondo ancoraggio, per riuscire a mantenersi vicino ad esso e riuscire a sganciarlo, il ragazzo imbracciò la longe (il cordino allungabile già menzionato) e si strinse forte al moschettone commettendo un errore fatale, ossia quello di passare tale longe sotto le corde e mettendo fatalmente in tensione entrambe e rimanendo quindi lì bloccato, incapace di muoversi. Ovviamente non potevo slegare i capi delle corde dalla mia sosta in modo che lui potesse gestire il garbuglio o sarebbe finito a dondolare sotto i grandi strapiombi, incapace di salire o scendere, per sempre (o almeno fino a un salvataggio, comunque assai critico). Eccoci dunque entrambi bloccati in mezzo alla strapiombante parete della Rocca con la notte ormai sopraggiunta incapaci di scendere e salire. 
Anche il fatto di avere agganciato il cordino direttamente al moschettone della staffa giocò il suo tragico ruolo: con tutto il materiale in tensione era impossibile sganciare i moschettoni e chiunque ne abbia avuto in mano uno, anche come portachiavi, sa che la loro forma lo impedisce.
Questa sequela di eventi dimostra come le tragedie non siano frutto di un singolo evento ma la somma di tanti piccoli accadimenti, a volte estranei e sconosciuti al soggetto che la subisce, altre volte messi in moto dallo stesso.

Mentre si consumava il dramma alcuni metri sopra di me, io, che me ne stavo tranquillo in sosta incitando il Bocia e cercando di guidarlo nelle manovre per uscire dal garbuglio creatosi ricevetti una chiamata dal basso: qualcuno, credo lo stesso agente di prima ma non ci giurerei, mi chiese di mettersi in contatto e se ci servisse aiuto. Finalmente, ce ne mise di tempo a capire l'immane danno che aveva causato! 
Gli gridai il mio numero il più chiaramente possibile e poi parlammo al telefono, non ricordo chi fosse ma mi chiese cordialmente quale fosse il problema e che, sentendo il chiasso che facevamo, aveva allertato il soccorso alpino. Lo ringraziai per la premura ed egli mi disse che avrei ricevuto a breve una chiamata proprio dai soccorritori. 
Il tempo continuava a passare, io ero appollaiato sul minuscolo gradino di sosta e il partner era su nel suo groviglio, appeso come un salame a stagionare, inerme e sconfitto. Ricevetti la telefonata dei soccorsi che mi avvisavano che dopo la chiamata si erano subito organizzati e stavano facendo convergere nella zona anche un'altra squadra dalla valle vicina, oltre a quella del paese di Pietramora. Mi dissero che sarebbe stata un'operazione difficile per la posizione in cui eravamo, nel mezzo del grande strapiombo, e che dovevano  pianificare accuratamente l'operazione ma che con un po' di pazienza ce l'avrebbero fatta. 
Passò altro tempo, ormai era ora di cena, per le strade non transitava più nessuno, la notte era inoltrata e sebbene non facesse freddo per il mese in cui eravamo la posizione di carcasse appese che avevamo cominciava a farsi decisamente tediosa, con dolori alle anche e alle gambe. Ricevetti una seconda telefonata sempre del soccorso alpino che mi informò che la prima squadra era in posizione e che dovevano attendere anche la seconda per valutare se provare il salvataggio dall'alto o dal basso. Poco dopo vidi accendersi delle luci nei prati sottostanti, al limitare del bosco, segno che c'era una certa attività e delle persone erano in fermento.

Eravamo ancora lassù, si stava facendo tardi e cominciai a temere per il sopraggiungere della notte profonda in quelle condizioni, senza essere attrezzati per il vero freddo e coi soccorsi che stavano tardando paurosamente. Telefonai ai soccorritori una terza volta, per sapere a che punto fossero coi preparativi, la risposta fu evasiva: erano ancora incerti su quale fosse il modo più sicuro per procedere, l'esercitazione l'avevano fatta dall'alto con un argano, dovevano fare il sopralluogo sulla parete e altre amenità simili. In parole povere erano ancora in alto mare e la squadra di supporto era chissà dove per strada. Capii che prima di mezzanotte non ce la saremmo cavata ma soprattutto mi ricordai che nessuno dei due aveva avvisato casa per tranquillizzare i nostri cari su un tale ritardo, nel mese di Novembre. 
Questo pensiero mi accese dentro qualcosa di particolare, molto diverso da quello che era successo sul Col Nudo mesi prima: cominciai a provare un'autentica "fiammata di ritorno" di virilità italica e di orgoglio. Mi vergognai profondamente di avere mosso degli aiuti su una paretina insignificante come quella di San Leo e cominciai a ribellarmi con violenza alla situazione che ci teneva inchiodati là sopra, studiando un modo per sbloccare le impedenze del compagno là sopra, arreso all'aggravarsi degli eventi e passivo verso di loro. 
Fu sotto la spinta della rabbia che mi venne l'Idea: "Bocia, senti, riesci coi piedi a toccare il chiodo sotto quello in cui ti sei bloccato?". Dopo qualche istante mi arrivò la risposta forte e chiara, come se anche lui avesse avvertito il mio stesso sentimento sovversivo: "Si, ci arrivo". Malgrado la sua posizione quasi orizzontale e del tutto spostata dall'asse dei chiodi poteva ancora allungarsi nella loro direzione e toccarne uno: "Ecco bravo, aggancia la staffa che ti è rimasta al chiodo sotto e datti una spinta per scaricare il peso dalle corde, innalza il discensore (attrezzo meccanico usato per frenare lo scorrimento delle corde durante la discesa, N.d.A.) quel che basta ad averlo in alto e allentare la longe. - E poi? Faccio fatica!! - Poi ti recuperi sul chiodo su cui sei incastrato, sciogli il nodo di bloccaggio della longe e la sfili dall'ancoraggio e ti abbandoni alle due corde, lasci lì tutto il materiale e tratterrò il le corde vicino alla parete! "

Dopo un attimo di esitazione l'idea parve buona anche al compare e con fatica si innalzò piano piano fino ad allentare le corde di discesa e infilando il braccio tra staffa e roccia si tenne su quel che bastava a sciogliere il nodo della longe e a sfilarla dall'ancoraggio. Dopo un ultimo momento di incertezza si lasciò andare e roteò liberamente nel vuoto trattenuto a braccia dal sottoscritto per mantenerlo vicino alla roccia. 
Finalmente, dopo ore di attesa, mi raggiunse con l'espressione di chi ha assistito all'apertura delle acque del Mar Rosso ed entrambi ci trovammo riuniti alla sosta. Le corde di sfilarono senza impedimenti e compimmo la calata in corda doppia fino a terra senza intoppi, increduli di avere toccato nuovamente qualcosa di orizzontale, stanchi fino all'inverosimile ma felici di aver salvato quantomeno l'onore. 
Ci sedemmo comodamente alla base, il Bocia si accese una sigaretta e io ritirai le corde con adesso l'ansia di dover rassicurare i parenti a casa che, vista l'ora tarda e le scarse notizie fino a quel momento, sicuramente pensavano all'ammontare di un possibile riscatto da pagare (per tenerci, sia chiaro!). 

Dopo qualche minuto un gruppetto di persone armate di torcia sbucarono dal boschetto, erano i soccorsi che stavano venendo a vedere la situazione e rimasero stupiti come se avessero visto gli alieni, dal fatto che fossimo già a terra sani e salvi e soprattutto tranquilli: "Beh, dai, vi aiutiamo a rientrare nel boschetto...". Giustamente, visto il dispiegamento di forze, dovevano giustificare la loro presenza sul posto.
Arrivammo al campo provvisorio allestito dalla squadra di soccorso e il medico ci visitò per assicurarsi che tutto fosse a posto: "Mi scusi, ma, dato che tutto è andato per il meglio, non è che per caso finiremo sul giornale? Mi spiacerebbe fare la figura dell'ultimi degli idioti visto che ci hanno intimato di scendere proprio dalla fine della via..." chiesi al medico che coordinava le operazioni, a suoa volta incredulo alla mia notizia in quanto non era al corrente di nessun divieto circa l'arrampicata sulla Rocca: "stia tranquillo, al massimo ci saranno due righe sull'Ansa locale e nulla più, d'altronde noi dobbiamo solo certificare che abbiamo ricevuto una chiamata di soccorso e che alla fine non c'è stata necessità di nessun intervento. - La ringrazio per la disponibilità, dottore."

Colgo l'occasione per ringraziare, sinceramente, coloro che vedendoci titubanti e in difficoltà si presero la briga di chiamare le Forze dell'Ordine. Li ringrazio per il pensiero, anche se non era necessario perché, probabilmente, un modo per uscire dalla parete lo avremmo trovato comunque. 

Il giorno dopo eravamo su sette giornali come i "salvati a San Leo"....!!!


Relazione



La Rocca di San Leo con ancora in corso i lavori di consolidamento. La via passa sulla destra.


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venerdì 25 settembre 2020

SOPRAVVISSUTI - CANALONE IMPROVVISO AL GE' DEL CAMP

 SOPRAVVISSUTI

CANALONE IMPROVVISO AL GE' DEL CAMP

Venne il 2016, anno del mio diploma di pianoforte, un esame pesante e lungo, che mi richiese molto studio costante e una certa attenzione nelle mie uscite montane perché se mi fossi fatto del male avrei buttato all'aria parecchio lavoro inutilmente.

Volendo comunque evadere dalla mia prigione come uno scimmione in gabbia coinvolsi il Bocia più nell'escursionismo e nell'esplorazione di alcune zone un po' fuori mano delle montagne più vicine a casa. Fu così che, memore della lettura del libro di Miotto "Pareti del cielo" mi venne l'idea di un tour fotografico nel gruppo del Col Nudo, lungo il sentiero delle Due Forcelle, un giro ad anello sopra la Casera Ditta, in Valle del Vajont. Doveva essere teoricamente una gita per fare fiato e macinare dislivello e che come ricompensa ci avrebbe regalato degli scorci grandiosi a cui pochi occhi avevano dedicato attenzione, senza troppi pensieri. Il problema è che dalla teoria alla pratica passa un intero universo, che la natura se ne frega di noi tristi omuncoli e che purtroppo il pericolo si annida proprio in ciò di cui abbiamo più confidenza. 

Partimmo come da routine e ci incamminammo alla volta della Casera Ditta che raggiungemmo tra una chiacchiera e l'altra in 50 minuti di cammino a larghe falcate. Dopo una piccola pausa ristoro cominciammo a risalire una debole traccia dietro al rifugio che puntava direttamente alla Cima di Camp, una dorsale boscosa in faccia al Col Nudo, quando invece l'idea era di puntare prima alla Forcella Col del Pin e poi di scendere per quel sentiero. Malgrado l'errore la scelta finì per rivelarsi azzeccata in quanto, dopo un'assai ripida salita a bestemmiare sul fogliame viscido, ci trovammo davanti ad un canalone completamente invaso da neve di valanga pressata. Si presentò quindi il dilemma: proseguire o retrocedere? Il Bocia decise per entrambi: avanti! 
In effetti, con gli scarponi rigidi era possibile incidere delle tacche nella crosta della neve e poterne ricavare un appoggio confortevole, così cominciammo lentamente a scalare il canalone, all'inizio un po' prudenti e poi sempre con più ritmo. 
La risalita del canale, in quelle condizioni, non fu particolarmente allegra, non tanto per il pericolo di scivolare, dato che la neve si lasciava modellare facilmente, quanto perché le slavine avevano sradicato tutti gli alberi e cancellato con essi le segnalazioni del sentiero. Ad un certo punto mi accorsi praticamente per caso di una lieve cengetta che si staccava sulla destra portando fuori dal canale nevoso dritta in una macchia di alberi e la imboccai istintivamente trovandovi, per mia fortuna, una segnalazione vecchia su un albero. Percorremmo tutta la cengia, molto stretta e punteggiata di landri (piccole grotte) e risalimmo un ennesimo pendio di erba ripida per sbucare sul crinale della Cima del Camp, in mezzo a campi nevosi ancora consistenti, fuori dalla prima metà del percorso. 

Lo scenario che ci si presentò davanti ricordava l'esplosione di una Tunguska: alberi abbattuti ovunque, nella più totale desolazione; a ciò si aggiungeva il manto nevoso che nascondeva le tracce di passaggio sia degli umani che degli animali e quindi dovemmo cercarci la nostra strada in quel macello, cercando di raggiungere la Forcella del Camp. Dopo un tempo interminabile passato a cercare un passaggio tra gli alberi caduti e i vari scoscendimenti raggiungemmo infine la forcella alle 15,00. Era l'inizio di Aprile e considerando che il percorso normalmente avrebbe richiesto ancora 3 ore di cammino col sentiero perfetto la questione cominciava a farsi preoccupante, soprattutto perché, dopo quanto ci era toccato subire fino a quel momento, non eravamo affatto sicuri che il sentiero sarebbe stato in condizioni ottimali. Inoltre tornare sui nostri passi presupponeva di rifare in discesa il canale nevoso che a questo punto non sarebbe stato più molto confortevole. 

All'improvviso, mentre questi pensieri mi frullavano in testa, vidi una casa ad una distanza ragionevole da noi, in basso, al fondo di una valletta che muore contro la Cima del Camp e detta Val Lagarìa, una laterale del Vajont come la Val Mesaz dove sorge Casera Ditta. Decisi, sotto l'effetto di una sorta di eccitazione nervosa, che la cosa più intelligente da fare era cercare di raggiungere la casetta col percorso più rettilineo possibile per poter rientrare alla macchina ancora con la luce del sole (scelta che alla fine si rivelò ragionevole, anche dopo aver ripercorso il sentiero in senso opposto e con le segnalazioni completamente rifatte). Il Bocia non obbiettò, aveva il volto irrigidito dalla preoccupazione e mi seguì mentre cercavo un percorso camminabile lungo lo spiovente coperto di neve, in mezzo allo sfacelo appena passato. Man mano che procedevo questo accentuava la sua pendenza, divenendo sempre più intollerabile. Ad un certo punto il pendio cominciò a formare un angolo considerevole, troppo accentuato da percorrere senza picca e ramponi, sulla destra scendeva il calanco di una frana e a sinistra un canalone a guisa di imbuto. Scelsi di infilarmi in quest'ultimo e traversai un pendio ripidissimo in mezzo agli alberi, subito seguito dal Bocia che, mentre traversava, osservava inorridito la neve cedere sotto il suo peso e rotolare a valle. Osservai la sua discesa trattenendo il fiato per la tensione mentru lui scendeva un passo alla volta, scavando a calci delle impornte sufficientemente piatte da poter restare in equilibrio mentre dei piccoli blocchi di neve si stacccavano precipitando verso il canale sottostante ed emettendo un sibilo tenue ma sinistro. Fortunatamente tutto andò bene  e mi fermai un momento a riposare ad un albero bello robusto, che formava una piccola piazzola; il Bocia mi superò e proseguì in discesa all'interno del canalone quando subito trovò una spiacevole sorpresa: un collo di bottiglia inclinato a 70°. Carico di fiducia per la traversata appena compiuta non si perse d'animo e, reggendosi ai bastoncini da trekking che affondò con forza, incise la neve con le punte degli scarponi ricavandone delle tacche abbastanza solide da permettere a entrambi di scendere, seppur con grande apprensione (scivolare avrebbe significato arrivare a valle). L'operazione si svolse sotto i miei occhi mentre ero immobile a percepire ogni minimo sussulto, anche se ero consapevole che nulla avrei potuto fare se fosse scivolato e tale "favore" era reciproco.

Dopo una manciata di minuti che parvero eterni entrambi fummo oltre la strozzatura del canale, dove questo spianava leggermente e ciò ci permise una discesa rapida fino a quando terminò la neve; poi iniziarono il fango e il fogliame, scivoloso esattamente come la neve ma senza la possibilità di poterli incidere. 
Scendemmo con molta cautela e dopo un breve tratto in mezzo alla selva il canale presentò all'improvviso un salto verticale, grosso problema dato che non avevamo con noi una corda. Fu un secondo momento di sconforto che richiese alcuni minuti per essere superato e, differentemente dal solito, anche la mia faccia doveva aver assunto un'espressione preoccupata, stando a come mi guardava il socio. Esplorando il bosco alla nostra destra ci incoraggiammo ancora e trovammo che l'interruzione era limitata al solo canale; quando fummo sotto l'interruzione tirammo un primo grosso sospiro di sollievo. 
Passò momentaneamente in testa il Bocia perché avevo bisogno di un momento di tranquillità. Ad un tratto, scendendo un ripido scivolo di foglie mentre io lo lasciavo passare, gli si staccò una zolla da sotto il piede, cadde seduto e iniziò la sua corsa verso il basso guadagnando velocità come (se non peggio) se fosse sulla neve, precipitando verso un abisso insondabile che aspettava solo di ingurgitare carne umana. 
Lo vidi allontanarsi a tutta velocità da me e, alzando lo sguardo, vidi il dirupo davanti a lui: fu un attimo, presi coscienza che era finita e che di lì a pochi istanti mi sarei trovato solo, incapace di chiamare i soccorsi e di aiutarlo, ignaro della sua sorte. Continuai a seguire impietrito la sua scivolata che ora piegava bruscamente a sinistra e si avviava fatalmente verso la fine del pendio, sempre più vicina, ormai solo a due metri di distanza. 
La divina Provvidenza volle che, durante la caduta, il Bocia toccasse violentemente con la chiappa destra un sasso il quale deviò bruscamente la sua traiettoria ed egli finì incagliato contro l'ultimo albero prima del burrone, fermandosi proprio agli ultimi venti centimetri prima dell'ultimo balzo. 
Lì per lì, vedendolo immobile, pensai che si fosse rotto qualcosa e già pensavo che nulla mi avrebbe evitato la tragica scelta che avrei dovuto prendere in quanto eravamo in una zona isolata e senza segnale, quindi in sostanza non sarebbe cambiato nulla eccetto il risparmiarmi l'orrore di vedere sparire l'amico in qualche meandro. Appena dopo però vidi che egli si rialzò piano piano e che necessitava solo di lasciar passare lo spavento, non avendo il fiato per emettere alcun suono. Avevamo sfiorato la tragedia, mi sentii ringiovanire e riuniti alla sua posizione eravamo sollevati che la cosa fosse finita solo con uno spauracchio. Dopo una ben meritata pausa passata a sdrammatizzare riprendemmo il cammino attraverso quell'inferno verde. 

Proseguimmo lungo il canale, ora meno evidente perché in alcuni punti era coperto dalla fitta vegetazione ma procedemmo con tranquillità convinti che dopo l'esperienza passata saremmo stati in grado di far fronte ad altri eventuali imprevisti. Sbagliato!! Poco dopo raggiungemmo un secondo salto, alto circa 15 m con erba verticale e sassi tenuti fermi dal fango, impossibile da scendere senza una corda. Fu il terzo momento di sconforto, il più disarmante fino a quel momento: mi sentii davvero morire dentro e per la prima volta pensai che saremmo dovuti rimanere su quella montagna, incapaci di salire e di scendere, a cercare di passare una notte gelida e penosa fino allo spuntare dell'alba senza avere la certezza di poter fare davvero qualcosa. Avevamo faticato tanto, corso pericoli considerevoli, eravamo arrivati ormai così vicini alla meta e invece tutto si fermò in quel punto, sopra una parete di pochi metri a separarci dal mondo. 
Mentre meditavo sul da farsi, ormai incline alla rassegnazione, vedi che un po' a destra le cime degli alberi che si toccavano, il che segnava un divallamento più regolare del pendio; mi diressi in quella direzione e scoprii che un pino era cresciuto a ridosso della paretina che formava il salto e che i suoi rami si erano inerpicati lungo il pendio come i tentacoli di una gigantesca piovra. Intuii che aggrappandosi ai rami e alle rocce si potesse scendere e con attenzione, lasciandomi scivolare piano piano e centimetro dopo centimetro, riuscii a toccare la base del salto. Guidai il compare attraverso lo stesso passaggio con molta attenzione ma sentii distintamente una nuova, potente e irresistibile energia farsi strada nel mio petto. Era fatta! Sentii che l'ostacolo più grande era ormai alle spalle e mi parve di tornare a vivere, una sensazione potente e pervasiva di tutto il corpo che in quel momento si trovò rinvigorito e al massimo della sua prestazione, nulla avrebbe più potuto fermarci da quel momento in avanti. 

Continuammo ascendere nel canale, adesso più spavaldamente rispetto a prima e poco dopo trovammo un altro salto, un affioramento roccioso che lo sbarrava a metà circa. Andai avanti, questa volta senza stare a guardare troppo a destra o a sinistra e arrampicai le roccette viscide in discesa quando un appiglio mi rimase in mano. Sentii il corpo tremare mentre cercavo di mantenere il baricentro sufficientemente vicino alla roccia per non capovolgermi; iniziai a scivolare coi piedi e a grattare con le unghie ma qualche centimetro sotto il piede sinistro cozzò contro un appoggio piatto e resistente permettendomi di abortire la scivolata e quindi, in un impeto di rabbia, saltai decisamente giù dalle roccette. 
Passai oltre oltre continuando a seguire l'impluvio fino a quando questo cominciò a rinserrarsi tra due muri rocciosi e a compiere delle curve molto brusche, come se fosse un toboga, così scavallai a destra il suo crinale fangoso in preda all'esasperazione e mi misi a correre giù per il pendio, affondando nel fango e incurante di dove fosse rimasto il compagno (di cui però udivo i passi dietro di me) e raggiunsi così il fondo di un torrente. Annaspai ancora nel fango seguendo il corso d'acqua e, presso una cascatella, sbucai su una strada sterrata proprio in prossimità della casa che avevo visto dalla cima. Urlai al compagno che eravamo salvi e che era fatta, eravamo arrivati a fondovalle tutti interi: contrariamente alle impressioni e alle quote topografiche delle cartine, avevamo percorso circa 800 m di canalone e bosco con difficoltà spaventose ed eravamo arrivati vivi e sani.

Stavano per sopraggiungere le tenebre e ci avviammo in fretta lungo la strada che porta a Pineda lungo la sponda del Logo del Vajont, solo che non si intuiva quanta strada avremmo dovuto fare, così chiedemmo ad un signore anziano che indugiava fuori casa; egli ci rispose che saremmo arrivati dopo la curva, oltrepassata la galleria. Certo, come no, sempre chiedere agli indigeni le indicazioni che perché conoscono il posto! Raggiungemmo la macchina si dopo la galleria, ma quasi 3 km più avanti, ormai col buio pesto. 
Il posto in cui eravamo stati era vergine, senza alcuna traccia umana, solo gli animali vi erano stati prima di noi e seguendo le loro tracce avevamo percorso un itinerario nuovo e molto difficile. Lo battezzai Canale dell'Improvviso per la decisione improvvisata di scendere da quel lato, al Ge' del Camp, il torrentello senza nome che scendeva accanto al nostro canale nel rispetto dei nomi locali.

Nel Novembre 2020 sono tornato a Cima Camp e ho percorso il pezzo di itinerario che non avevamo fatto quella volta, ossia partendo da Casera Ditta e salendo a Forcella Col del Pin e poi a Forcella del Camp. A posteriori posso dire che quella volta prendemmo la decisione giusta, il sentiero era infatti franato in alcuni punti e senza segnalazioni l'avremmo sicuramente perso in più punti perdendo tempo prezioso, specie in prossimità di una cresta dove non è affatto intuitivo capire dove bisogna attraversare.

Il Canalone Improvviso è stata la mia prima vera via nuova ed è un peccato che dopo di noi non vi salirà più nessuno, in buone condizioni di innevamento sarebbe un itinerario decisamente notevole e con le corde i salti non costituirebbero un problema. 

Lungo il nevaio di salita

La cengia coi landri

Il canalone nel tratto nevoso poco a monte della strozzatura a 70°

Quasi al termine della neve

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ASCENSIONI AUTUNNALI

 ASCENSIONI AUTUNNALI


Dopo il Diedro dall'Oglio il resto del 2015 trascorse senza avvenimenti degni di nota, tutto da manuale, compresa un'uscita alla Torre Wundt sotto un sole talmente spietato che dovemmo percorrere i camini della parete sud letteralmente saltando da un'ombra ad un'altra, ed eravamo a più di duemila metri!

Il meglio dell'annata però lo avemmo in autunno: riuscimmo a portare a termine "linea di confine" sul Soglio dei Corvi, una parete appena scoperta dall'infaticabile esploratore delle Piccole Dolomiti Tranquillo Balasso e su cui aveva tracciato una serie di itinerari nuovi (aveva cominciato solo l'anno prima). Fu una classica giornata dove tutto andò alla perfezione, lungo un bello spigolo di roccia con passaggi atletici e divertenti, approfittando del tepore di un'alta pressione che faceva tardare l'arrivo della stagione fredda. 
Successivamente fu la volta di un tentativo abortito a causa della partenza ad ora troppo tarda sulla "Tostata del Bostel", un'altra via nuova di Tranquillo Balasso con difficoltà abbastanza sostenute lungo il giallo e strapiombante pilastro del Soglio Bostel, la parete sottostante il paese di Rotzo. Arrivammo in quell'occasione oltre i grandi tetti ma dovemmo ripiegare perché avremmo corso il rischio di trovarci ad arrampicare e fare manovre con la pila frontale in mezzo alla parete. Nonostante ciò riuscimmo comunque a percorrere delle belle e impegnative lunghezze. Nel mese di Dicembre ci trovammo poi a percorrere una via sul Monte Cengio, l'ennesima nuova creazione di Balasso, lungo il pilastro della Terza Pala e chiamata "Loli" che ci regalò una magnifica e atletica scalata lungo diedri e fessure e dove per la prima volta anche il Bocia si trovò alle prese con passaggi di VI (tralascio il fiume di imprecazioni che mi sono beccato per averlo trascinato a soffrire con fraudolenza!). Arrivato Dicembre e con esso il freddo e la neve, oltre ad impegni vari, se ne andò anche l'anno 2015 che tanto era stato colmo di soddisfazioni.


Torre Wundt

Lungo il primo tiro

Nel camino superiore

Vetta della Torre Wundt

Il sottoscritto alla base di Linea di Confine sul Soglio dei Corvi

Il primo tiro visto dall'alto

Valdastico autunnale

Monte Cengio a Dicembre, infondo la Terza Pala con il pilastro della via Loli

Lungo i diedri della via

Il sottoscritto al primo tiro

Tratto chiave della via

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sabato 19 settembre 2020

CIMA DEL LAGO - DIEDRO DALL'OGLIO

CIMA DEL LAGO 

DIEDRO DALL'OGLIO 

Passato il mese di Luglio del 2015, piuttosto caldo e faticoso, venne finalmente un periodo di meritata vacanza e approfittai per organizzare una salita con l'amico svezzato da poco alla montagna e che da poco era divenuto Dottore (nel senso di medico). Come avvenne anni prima andai alla ricerca di una via facile ma lunga per rimettere in sesto le braccia e il fiato dopo il periodo di inattività: aprii la Bibbia del Buscaini sulle Dolomiti Orientali e la scelta cadde su questa via degli anni '50 aperta da Dall'Oglio e Consiglio lungo un regolare diedro nel gruppo di Fanis.

Piazzammo la tenda in una radura abbastanza nascosta lungo il fiume che costeggia la strada che sale alla Capanna Alpina e il Dottore tirò fuori un bel materassino da tenda "matrimoniale" su cui dovemmo dividerci i cm quadrati disponibili, senza agitarsi. Passò la notte con un sonno altalenante ma che tutto sommato rimase calda e la mattina, assonnati e con una pigrizia sopraggiunta come le zecche che non si staccano, ci avviammo alla volta della parete, partendo assai di buon'ora dato che ormai lo stare distesi a contare i minuti era divenuto straziante. Scambiammo giusto due parole con una coppia decisamente più matura di noi che ci superò allegramente nella faticosa salita verso l'attacco, mentre le nostre pance vuote e penzolanti di nullafacentismo ci ostacolavano il cammino. Arrivammo comunque alla base della parete, mentre la coppia di prima si stava alzando lungo lo zoccolo sacramentando abbondantemente malgrado l'apparenza bonaria. Partii anche io e capii subito il perché di tante bestemmie: lo zoccolo era un ghiaione, una catasta di rocce sfasciate e accatastate le quali, oltre a non fornire assolutamente una valida presa, rischiavano di lobotomizzare il compare di sotto (nel mio caso si sarebbero rotti i sassi). Al primo tiro mancai la sosta di pochi metri e dovetti attrezzarne una alla buona coi friend dentro dei buchi non molto rassicuranti (ma vince la quantità). Ai tiri successivi la nuotata continuò, sempre su terreno precario e con notevoli impacci causati dalle corde che, ovviamente, non perdevano occasione di impigliarsi su ogni minima asperità non necessariamente fissa. Arrivammo alla cengia a metà della via esausti e con le mani tremanti vista l'arrampicata del tutto inaspettata che avevamo dovuto affrontare. Indietro non si tornava e quindi avanti!!!

Traversata la cengia verso destra mi portai sotto una nicchia rotonda chiusa da uno strapiombo; nel frattempo il sole si fece cocente malgrado la quota di 2000 m. Dopo qualche tentennamento decisi di infilarmi nell'incavo per rimanere bloccato ancora una volta incerto sul da farsi: bisognerà affrontare lo strapiombo? Devo uscire a destra? Perché non c'è nulla? Le difficoltà non erano eccessive comunque avessi deciso di procedere ma per non sapere né leggere e né scrivere piantai un buon chiodo e uscii dalla nicchia a destra trovando subito un chiodo di via nascosto in un buco. A quest'ultimo seguì un diedro strapiombante faticoso che mi portò ad un misero terrazzino di sosta con un'ancor più misera sosta; la roccia però migliorò decisamente quasi ciò che avevamo passato prima fosse una sorta di selezione. La lunghezza successiva fece dimenticare tutte le tribolazioni: una placca compatta e monolitica che più in alto si chiudeva a diedro e che regalava un'ottima arrampicata su belle e solide maniglie. 

Alla sosta successiva fummo raggiunti da un gruppo di cinque "stagionati" provenienti dalla Toscana e la cui età media era difficile da definire. Probabilmente la somma di tutte le loro età avrebbe coperto il tempo che separava noi da Leonardo. Essi procedevano con una cordata da 3 ed una da due, ci raggiunsero e per cercare di far presto ci sorpassarono cercando di accorpare i tiri con conseguenti ingarbugli delle corde e con il problema ulteriore di suddividere ulteriormente le già non spaziose piazzole di sosta sui magri e usurati chiodi (con conseguenti auguri di "buona salute" rivolti alla loro direzione). Malgrado il caldo torrido e la grande confusione generata dal sopraggiungere delle altre due cordate la scalata procedette a suon di "mi fa male la prostata...ti sto tenendo con le mani...fermati che ho lo protesi all'anca, Maremma maiala...(e non solo quella)" lungo la fenditura principale del diedro, col loro capocordata in testa e io subito dietro. Il diedro qui si fece di proporzioni enormi, fino all'ultimo tiro, magnifico. Alla fine, vista l'evidente stanchezza di noi due e della situazione di groviglio  che si era venuta a creare approfittai della generosità della cordata da due, formata da lui e lei, per avere un passaggio da secondo, rilassarmi un attimo e sveltire l'uscita in cresta. 

Arrivammo in cima alle 17,00, stanchi fino nell'anima ma contenti e soddisfatti ma non era ancora finita. Ci avviammo lungo la discesa, per tracce e con le corde ormai legate per il trasporto fino ad una calata in corda doppia, l'unica di tutta la discesa, in cui il gruppetto di vecchi si ostinò a voler ritirare le proprie corde per sveltire la discesa, secondo loro. Ci costrinsero quindi a sciogliere le corde appena raggomitolate, legarle insieme, calarci, bestemmiare per il groppo che ne conseguì e in tutto a perdemmo quasi un'ora per superare l'ostacolo. Arrivammo giù al Rifugio Scoiattoli stanchi, giusto per un panino, prima di riprendere il sentiero di discesa con la sorpresa che il rifugista ci chiese che fine avessero fatto i tizi dalla prostata ingrossata che non si erano ancora fatti vivi e cominciava ad essere in pensiero. Lo tranquillizzammo dicendo che probabilmente erano già alla macchina e continuammo la discesa. Ritornammo stanchi morti alla radura dove ripiazzammo la tenda e ci riaccomodammo sul materassino matrimoniale che si bucò, e su cui facemmo involontariamente l'altalena per tutto il resto della notte.


Relazione


La Cima del Lago dal parcheggio

La stessa vista dopo il Rifugio Scoiattoli

La base della parete

Lungo la parte centrale del diedro

Lungo l'ultima fessura



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UNA GITA DOMENICALE

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