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giovedì 23 gennaio 2020

LA CRESTA SOSPESA - TORRI DEL VAJOLET

LA CRESTA SOSPESA

Torri del Vajolet



Alla fine dell'estate del 2010 faticai non poco per combinare un'uscita coi due compagni d'avventure, Paolo e Stefano e, sotto pressione del primo che aveva un conto in sospeso, decidemmo di trascorrere un fine settimana a zonzo per le Dolomiti per combinare insieme due itinerari in posti abbastanza lontani tra loro ma dal divertimento assicurato. Il primo progetto messo in cantiere fu lo Spigolo della Torre Delago, famoso, celebrato e fotografato in ogni libro che parli di Dolomiti e Alto Adige, salita che Paolo aveva una volta abbandonato per maltempo, mentre la seconda di salire lo spigolo del Sass de Stria, un'altura crivellata di gallerie e trincee nella Prima Guerra Mondiale che precipita verso sud con una bella parete compatta.
Per l'occasione comprai una seconda corda di 70 m, oltre a quella che già possedevo, perché avevo e ho ancora il braccino corto e di comprare due leggere mezze-corde contro la più economica singola da 70 m andava contro i miei principi ingegneristici. 
Tali principi però erano e sono tutt'ora teorici perché fanno riferimento a situazioni ideali considerate limite, la realtà è un po' più...complessa diciamo. Infatti, gaudio della corda nuova che avevo comprato ad un ottimo prezzo pensai di aver risolto il problema della cordata a tre con una trovata più furba e sicura rispetto ai comuni mortali, un genio del crimine!

Ci avviammo in un torrido pomeriggio di venerdì alla volta del Catinaccio, a bordo della macchina di Paolo, ovviamente sprovvista di aria condizionata e con 35° all'ombra, tanto che si poteva sentire il profumo dell'asfalto che fondeva sotto il sole, mischiato all'odore di maschio italico a suo interno. Arrivammo verso il tardo pomeriggio a Pera di Fassa, in orario per l'ultima corsa verso il Rifugio Gardeccia, con la pancia che rombava, io che pensavo di avere la febbre e gli altri due mezzi addormentati.

Lo spigolo della Torre Delago, la più occidentale delle torri, e la più appariscente da Bolzano, fu scalato nel 1911 da Gian Battista "Tita" Piaz, la grande guida fassana detta il Diavolo delle Dolomiti, insieme a I. Gasler e Francesco Jori, altro fuoriclasse che dieci anni dopo scalò la parete nord-est dell'Agnèr. A quei tempi fu un'impresa ardita, anche vista la friabilità della roccia e le vertiginose calate dalla vetta. Oggi è una via fin troppo frequentata e ben ripulita.

Lo spigolo Colbertaldo del Sass de Stria fu aperto nel 1939 da A. Colbertaldo e L. Pezzotti, si svolge su roccia ottima ed è molto frequentato, anche se di spigolo vero e proprio ha solo la parte iniziale. Un tratto molto caratteristico della via, che tutt'ora ho impresso, è una specie di corridoio tra la parete ed una torre staccata che consente di cambiare parete.

La marcia di avvicinamento dal rifugio Gardeccia al rifugio Re Alberto presentò il conto della mia parsimonia sulle corde, infatti ero oppresso dal solito carico che mamma aveva raccomandato (commetterò anche in seguito di dare ascolto alle sue paranoie pentendomene sistematicamente) contro il freddo, l'umidità, i reumatismi e la Peste bubbonica, più il peso della corda singola che di certo non era leggera come quelle di adesso. Gli altri due non se la passavano meglio perché, per ragioni a me ignote, anche Paolo e Stefano avevano esagerato con la roba da portare su in relazione ad una via così corta. Arrivammo a destinazione col buio inoltrato e con i brontolii del gestore che già pensava di chiudere la cucina! Per punizione ci sorbimmo fino all'ora di andare a letto tutta la storia della sua vita come se non vedesse l'ora di raccontarla ad una vittima sacrificale.
L'indomani ci avviammo all'attacco con tutta calma e ci trovammo altre cordate lungo l'affilato spigolo. Probabilmente noi non fummo abbastanza mattinieri, forse qualcuno poteva essere salito dai rifugi sottostanti ma per una via di poco più che un centinaio di metri, il fatto che stessero già salendo, significava che questi erano partiti il Ferragosto del '99. 
Il primo tiro, non difficile ma bello verticale, toccò a me, che mi arrabattai lungo una placca alla ricerca di chiodi e mugugnando qualcosa in francese alla cordata davanti a me. Passò poi in testa Paolo che col tiro successivo aveva il suo conto in sospeso, tratto stupendo, in grande esposizione e con panorama sopra la conca di Bolzano. La parte seguente toccò invece a Stefano, per giustizia, che partì deciso lungo una bella paretina, e qui le corde singole dimostrarono tutto il loro potere distruttivo, soprattutto dopo che erano state recuperate con poca accortezza. Si formò a quel punto una specie di insalata che dapprima fece scoppiare a ridere Paolo, poi lo fece diventare più serio, poi lo gettò in uno stato di frenesia ed eccitazione, il tutto mentre io cercavo con "ingegno" di venire a capo della matassa. Sopraggiunse una guida di accento tedesco col cliente che pietosamente ci guardò e disse "tagliamo!!!", salvo poi fare finta di ridere alla sua battuta vedendo il mio martello vicino alla sua testa; si unì nella stoica impresa di sciogliere il nodo alle corde assieme a me e a Paolo che intanto stavamo perdendo fiducia nel destino.  In tutto questo trambusto Stefano era rimasto in mezzo alla placca, appollaiato su una cornice a gustarsi il panorama e chiedendosi, tra sé e sé, se per caso fossimo improvvisamente andati a pranzo o fossimo divenuti "diversamente abili". 
Ci volle un'ora per sbrogliare il groppo alle corde, in tre, sembravamo gli ominidi di 2001 Odissea nello Spazio davanti all'osso. 
Una volta sbrigato l'inconveniente arrivammo finalmente alla cima, incitati dalle bestemmie e dall'intasamento che si andava formando dietro di noi, giusto il tempo per una foto e approfittare di un attimo di vetta sgombra e poi via giù fino a terra con corde doppie. 
Durante l'ultima calata, un'altra guida alpina di non so dove ma di parlata italianissima non solo buttò le corde senza chiamarle ma mi scaricò pure un sasso in testa ingarbugliando nuovamente le mie corde. Una volta scesi e riuniti alla base spiegai a costui da dove venisse e che mestiere faceva sua madre, lui rimase per un attimo tra il contrariato e il divertito, incapace di decidersi se dovesse difendere il suo onore rompendomi il muso o se io fossi semplicemente un pazzo che aveva preso un colpo di caldo. Prima che la situazione si scaldasse troppo Paolo intervenne a dividerci raccontando a costui una manfrina sulle Dolomiti e sull'Alpinismo e facendo andare via la guida stordita. 
Santo Paolo, senza di lui la rissa sarebbe stata assai probabile.
Tornammo giù prendendo poi la strada del Passo Pordoi dopo aver passato il resto della giornata in un bel ristorantino.

Anche questa volta piantammo la tenda nelle vicinanze del valico ma, memore della volta precedente e ancora privo del magico materassino, sempre per parsimonia, decisi di piantare la tenda sull'erba, in un punto più lontano dalla strada. Questa volta riuscii a dormire, un po' rigido ma comunque ce la feci. Proseguimmo la mattina seguente verso il Passo Falzarego alla volta del Sass de Stria. Questa volta l'ascensione filò più liscia del giorno precedente, perché prestai molta più attenzione al recupero delle corde e soprattutto perché procedemmo in fila uno in seguito all'altro e non coi due secondi contemporaneamente, grazie alle singole da 70 m. 
Fino a metà salita però l'entusiasmo oscurò completamente una cosa che se all'inizio non era indispensabile, poi cominciò a farci vivere anche questa volta un'avventura: mi accorsi di aver dimenticato di riempire le bottiglie d'acqua! Magico, senza acqua su una parete sud e col cielo terso! Giunti all'altezza della fenditura che cambia parete io cominciavo a non riuscire a parlare, Stefano si muoveva con movimenti calcolati per non sprecare neanche una goccia di sudore e Paolo sembrava un sopravvissuto di El Alamein. Sopraggiunse un'altra cordata proprio in quel punto a cui era rimasta una bottiglietta di aranciata che dovemmo razionare per riuscire a soddisfare le nostre gole riarse: fu come buttare del vetriolo sul legno, ma almeno ci diede l'illusione di un po' di frescura.

La salita si svolse senza altri fatti di rilievo e tutti arrivammo sulla vetta stanchi, assetati ma felici per i giorni appena vissuti. Con queste ascensioni terminava anche l'estate d'esordio, costellata di piccole gioie e piccoli episodi che ancora si raccontano davanti ad una birra.



Torri del Vajolet dal rifugio Re Alberto
Le Torri del Vajolet con a sinistra lo spigolo

partenza dello spigolo Piaz alla torre Delago
L'inizio dell'affilatissimo spigolo.

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mercoledì 22 gennaio 2020

GUGLIA NEGRIN - VIA SOLDA'

GUGLIA NEGRIN - VIA SOLDA'


Salita effettuata in una splendida giornata di fine luglio 2010. Una salita senza storia, giusto per non dover andare troppo lontano ed affrontare un viaggio lungo da casa alla ricerca di pareti.

La via Soldà alla Guglia Negrin, la seconda da destra che incombe sul Piazzale SUCAI del Carega, fu aperta nel 1933 dai fratelli Gino, guda alpina e medaglia d'oro al merito sportivo nel 1936, e Italo Soldà, quest'ultimo futuro campione di sci. L'itinerario vince direttamente la verticale parete est della torre su roccia non sempre buona.

Quel giorno mi trovai con Paolo a girovagare lungo il Piazzale SUCAI senza la consueta nebbia delle Prealpi, in uno scenario da cartolina, quasi fatto al computer. Era mia intenzione, accettata di buon grado anche dal partner, di esplorare una via poco nota nelle Piccole Dolomiti e senza fare molta fatica. La via si svolse senza intoppi, come da manuale, un'arrampicata piacevole e sempre esposta. 
Non concordo da quanto detto da altri che vennero dopo di noi, sulla qualità della roccia, un po' rotta solo alla fine ma in generale solida. L'ultima parte originale, che si mantiene in parete, è un po' confusa perché ci sono chiodi un po' dappertutto ma dovrebbe stare esattamente al centro della parete dove c'è una fessura.



gruppo del Carega da Campogrosso
Il gruppo del Carega da Campogrosso

Cornetto e Pasubio visti dal Fumante
Verso il Cornetto e il Pasubio

Piazzale sucai nel gruppo del Fumante
Piazzale SUCAI

parete est della Guglia Negrin
Lungo la verticale parete della guglia

placche della Guglia Negrin
Poco prima del grande tetto che sbarra la parete

spigolo finale della Guglia Negrin
Lungo lo spigolo terminale.

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SCHIENA A PEZZI - IL SASS PORDOI

SCHIENA A PEZZI

Il Sass Pordoi



Luglio 2010: caldo, afa, zanzare e la sensazione di dover combattere contro i Vietkong. Scrissi a Paolo per sondare il terreno e mi propose di andare a ripetere qualcosa di interessante nelle Dolomiti assieme a Nicola; la scelta cadde sul Sass Pordoi grazie al suo comodo avvicinamento e alla roccia ottima che permette arrampicate divertenti, in particolare alla via Maria, la più gettonata del settore.

La via Maria al Sass Pordoi venne aperta nel 1932 da Gian Battista Piaz, il Diavolo delle Dolomiti, attivissimo scalatore e guida alpina di Alberto I re del Belgio, e V. Dezulian, percorre una serie di camini prossimi allo spigolo sud dell Sass Pordoi.

Partimmo un sabato sera, Paolo e Nicola vennero fino a casa mia a prendermi, riuscendo a perdersi nella "grande metropoli" e girando tre volte lo stesso isolato. Ci avviammo a bordo dell'ammiraglia di Nicola, che aveva nel contachilometri un viaggio sulla Luna andata e ritorno, rigorosamente senza climatizzatore perché l'aria fredda fa male alla salute e  così raggiungemmo con pochi liquidi in corpo il Passo Pordoi dove, ormai a notte inoltrata, decidemmo di cenare ad una tavola calda e di accamparci per tenere in tasca un po' di spiccioli. 
A quel punto Paolo estrasse dalla "ammiraglia" la sua tenda, di cui andava orgoglioso e che doveva essere stata una prelibatezza per i topi dello scantinato; fortunatamente era abbastanza spaziosa per due persone e soprattutto (particolare non trascurabile) facile da montare. 
Sul momento restai imbambolato come uno scemo perché, da "cittadino" abituato al comfort, non avevo preventivato il campeggio, specie dopo tutte le avvertenze di mamma riguardo i reumatismi e le infiammazioni muscolari che avrei sicuramente contratto se non avessi fatto caso all'umidità, data la mia età ormai avanzata (...!!!!). La mia ignoranza in materia, controbilanciata però da una dose di preveggenza riguardo l'altrui parsimonia, mi aveva fatto portare appresso il sacco a pelo ma non un altro ingrediente fondamentale: il materassino! 
Come il lettore avrà intuito, stavo per affrontare le delizie della vita selvaggia, in grado di temprare lo spirito e svezzarlo alle più ardue imprese dell'eroico uomo virile.
Fino al momento di entrare nella tenda non pensai nemmeno per un attimo che mi sarebbe servito il tal materasso ma Paolo, da uomo sapiente ed esperto che aveva previsto la mia "sagacia" al riguardo mi confortò prontamente che aveva portato un gonfiabile da spiaggia facile e rapido da usare.
Ringalluzzito da cotanta bontà d'animo, quasi fraterna, gonfiai in fretta e furia il detto materasso e mi fiondai nella tenda per accomodarmi nel giaciglio. Paolo si addormentò sul colpo, mentre dalla mia posizione cominciò a provenire un suono di flatulenza tenue e continua, segnale di un oscuro presagio che di lì a poco si sarebbe verificato. Infatti lo spessore del materasso gonfiabile si ridusse nel giro di un paio di minuti a quello di un foglio per la lista della spesa e mi ritrovai con la schiena sui sassi.
Nicola si accomodò invece in una tendina accanto; non volendo fare l'ospite rompic... pretenzioso, decisi che avrei potuto trovare una posizione di compromesso e contare sulla giornata lunga, calda e faticosa e sulla lentezza del tempo per riuscire a prendere sonno. Ecco un'altra menzogna mendace! Fu una notte da incubo, continuamente tormentato dalla ghiaia e dalla durezza della terra battuta che mi schiacciava le ossa facendomi sentire una billetta in forgiatura; dormii all'incirca 1,30. L'alba fu come l'apparizione dell'Altissimo ai discepoli di Emmaus.
Dopo aver riposto il nostro giaciglio ci concedemmo un caffè sostentatore nel bar dell'alberghetto del passo, che aprì di buon mattino e poi ci avviammo verso l'attacco della via. La giornata era splendida ma la marcia di avvicinamento, sebbene corta, fu presa da tutti e tre un po' troppo di petto e per me fu il giusto coronamento alla notte appena trascorsa, o le cose si fanno completamente o non si fanno! Il susseguirsi della via ebbe poca storia in sé, Paolo tirò l'intera via da primo mentre io e Nicola seguimmo. Ciò che mi rimase impresso di quell'esperienza fu il fatto di aver scalato la mia prima via sulle Dolomiti, gustandomi una bella arrampicata atletica ma mai difficile, immerso tra le rocce a 360°, con tutti i colori che andavano dal rosso acceso, al giallo, al nero. L'impressione poi di vedere le altre vette abbassarsi con alle spalle le cime maggiori è poi difficile da descrivere, bisogna viverla.
Questo idillio durò fino all'ultima paretina, dove il Sass Pordoi cominciò a spianare.

Vista l'ascensione da manuale appena effettuata ci volevano delle emozioni forti ad aggiungere sale a quanto fatto fino ad allora.
La via terminava contro una torre rocciosa posta al di sotto della stazione della funivia; Paolo era indeciso se seguire il canale a destra o proseguire verso il più facile pendio a sinistra. Non ricordo se io o Nicola (più probabile me) notò una traccia calpestata in mezzo ai detriti che si dirigeva verso sinistra. Dopo aver fatto il secondo per tutta la giornata volevo prendermi un po' di gloria e così mi ci buttai senza stare molto attento a dove stavo andando a finire. Seguii la traccia e gli altri mi vennero dietro per trovarci poi infognati lungo uno spiovente di ghiaia impressionante, in equilibrio solo per la spigolosità dei sassi che sobbalzavano appena toccati e rotolavano giù, il tutto rotto da una paretina verticale ancora più marcia. Ovviamente tra i sassi spuntavano i rifiuti dei civilissimi turisti della funivia che rendevano l'idea di essere in una discarica piuttosto che in montagna.
Ci eravamo già slegati e, anche usando le corde non vi sarebbe stato niente a cui ancorarle. Così partì prima Paolo, seguito da me e da Nicola, che s'inerpicò lungo il pendio un passo alla volta, ben ragionato e ben posato perché se i detriti avessero cominciato a franare a valle avrebbe significato rotolare giù con essi e finire in fondo alla montagna. Il passaggio più terribile fu la paretina, che di parete aveva poco, più che altro era una sorta di catasta di sassi incastrati tra loro: Paolo passò con un balzo ed una bestemmia, io afferrai uno spuntoncino con la mano destra e con la sinistra annaspai disperatamente alla ricerca di qualcosa di solido; mentre svolgevo l'operazione sentii i piedi scivolare sui sassi. Buttai la mano sinistra nei sassi e feci forza quel che bastava a issarmi mentre lo spuntoncino si staccava; tutto intorno crollava. Nicola sopraggiunse un attimo dopo. La rampa seguente fu un penoso risalire a carponi lungo un ghiaione inclinato da cui sbucavano cavi metallici del sistema parafulmine come scogli salvifici in un mare in tempesta. Mi inerpicai su di essi percorrendo con pochi balzi la distanza che li separava e alla fine giunsi ad afferrare il corrimano della terrazza della funivia, finalmente qualcosa di stabile, solido e orizzontale.



Sass Pordoi
Il Sass Pordoi con al centro lo spigolo

la parete del Sass Pordoi dove corre la via Maria
La via Maria si svolge lungo il camino a sinistra della parete.


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IL PILASTRO SOLDA'

UN NEBBIOSO GIORNO AL PILASTRO SOLDA'


Una mattina calda del Luglio 2010 concordai con Stefano, il fido scudiero, una salita un po' più d'ingaggio del solito Rocca Pendice e così decisi di andare a ficcanasare lungo le pareti del Baffelàn, la montagna più famosa delle Piccole Dolomiti. Avevamo con noi poco materiale, giusto tre friend (cunei meccanici a molla), la corda da 70 m e un po' di moschettoni e cordini (eh, il braccio era corto).

La via Soldà al Pilastro nord-est del Baffelàn è una delle vie più ripetute e famose delle Dolomiti Vicentine, grazie alla sua roccia solida e ben ripulita ed alle sue difficoltà modeste. La via venne aperta nel 1928 da Gino Soldà, forte guida alpina di Valdagno, medaglia d'oro al merito sportivo nel 1936 per la vittoria della sud-ovest della Marmolada e membro della spedizione al K2 del 1954, e da Franco Bertoldi, fedele secondo di cordata di Soldà e ingegnere alla Ferrari.

Andammo su un giorno infrasettimana e all'alpe di Campogrosso non v'era nessuno, tutto deserto e silenzioso immerso nella bianca foschia rischiarata da un sole pallido, mentre già si arrostiva, di fatto il posto era stato scelto sia per la comodità dell'accesso, sia per la rpesenza della nebbia che in una giornata a 40° ci avrebbe dato sollievo. 
Lungo la stradina di avvicinamento, mentre camminavamo nella più totale blasfemia consci di essere gli unici due idioti in mezzo a quel nulla, incontrammo una pattuglia della Polizia, un gruppetto di agenti che tranquillamente faceva una passeggiata che ci chiese dove fossimo diretti, guardandoci con fare compassionevole. Dopo veloci convenevoli un po' imbarazzati, dato che loro dovevano essere in giro e noi sembravamo scappati di casa, ci trovammo nuovamente soli e nel silenzio. All'inizio la scalata andò liscia (o meglio, sudata) sotto il caldo sole, poi, all'altezza della torre Figlio del Baffelàn fummo come di consueto avvolti dalla nebbia, tipica di queste zone prealpine, salutandola con gioia perché finalmente portava fresco. 
La via oggigiorno seguita non è l'originale percorso di Soldà, fatto salvo il tratto centrale, ma una combinazione di varianti che permettono di salire direttamente dalla base della parete est evitando il lungo giro per il faticoso Boale del Baffelàn, un impluvio franoso che scende dalla parete nord. La via poi s'inoltra in un enorme ed estetico diedro solcato da camini. 
Questa volta mi feci più coraggioso e partii io, traversando lungamente a destra e risalendo un costolone fino all'anello di sosta. Venne su Stefano, si pigliò il materiale e ripartì sparendo dietro un angolo, tutto quello che sentii dopo era il placido fluire di bestemmie del socio che mi indicava che tutto stava andando bene.
Lo raggiunsi e a quel punto mi toccò una lunghezza di camino rotta e gocciolante risolta con una giravolta scimmiesca su friend che per fortuna nessuno vide. Ritoccò di nuovo allo scudiero andare su per una fessura verticale completamente da attrezzare e che fu prontamente condita dalla solita serie di sacramentazioni di entrambi; a quel punto ci trovammo sotto il tiro chiave e immersi in una nebbia così fitta da sembrare sera (non era neanche mezzogiorno): un diedro a gradoni chiuso a metà da uno strapiombo; un classico! 
Probabilmente il clima mi giocò in quel momento un brutto scherzo e fui preso da un attacco di "coniglite", intravvedendo me bloccato in mezzo ad una placca faticare ore e ore per trovare una soluzione, bloccato in un grigio senza fine.
Con qualche moina condita da occhi imploranti cedetti volentieri il passo a Stefano che avanzò mestamente nella nebbia lungo la fenditura del diedro: due passi in su, un friend, un cordino per allungare un rinvio e via, uscì dalla mia vista perdendosi nella nebbia. Continuavo però a sentirlo chiaramente e vicino, malgrado la scarsa visibilità.
Ad un tratto cominciai a sentire più bestemmie del solito e capii che il mio amico si era piantato alla base del pancione che sbarra il diedro: "Oooh, vecio, non so più che fare" mi gridò Stefano dal punto in cui era, invisibile a me dal terrazzo di sosta. Ecco manifestarsi il peggiore degli incubi e anche la divina punizione per la coniglite di prima: il compagno, bloccato in un punto e distante in orizzontale così da non poterlo calare.
Così presi a chiedere: "gheto un ancorajo sicuro? Cossa vedi su?"-"ghe son du ciodi piantà int'una sfessa ma non riesso a tirarme su, spanza massa per tirar!"-"Ok, passa un cordino per legare insieme i due chiodi e recuperami lì". 
Idea brillante: collegare due chiodi di progressione in ferro battuto piantati a pochi centimetri nella stessa fessura, il che significa nessuno dei due veramente buono. Fortunatamente il diedro era appoggiato e la probabilità di strapparli violentemente era bassa; improvvisamente sentivo anche una profonda fiducia nelle mie modeste capacità. 
Giunto a lui, su un discreto gradino, guardai dove mi recuperava e vidi che era meno peggio del previsto, due ottimi chiodi in due buchi, così mi appesi e mi posizionai in modo tale da farlo salire su di me a guisa di piramide umana quando, sul punto di eseguire l'operazione, sempre con occhio vigile sui chiodi, disse: "ma varda ti che ghe jera l'appoggio...(immaginate)...maedetto!"-"massì vecio, ora so qua, montame pure in groppa (!!!) e va, che te frega...(immaginate)"-"Assa stare, co che o go visto lo fasso...", così Stefano si issò sulla tacca appena visibile e superò agevolmente lo strapiombo e poi mi recuperò su una sosta più sicura. Seguì una rampa di roccia detritica ed approdammo ad una forcella sulla sommità del pilastro. Meritata pausa di sosta e vestizione dato che cominciava a fare freddo.
La parte successiva consisteva in un oscuro e profondo camino che sbucava sulla cresta sommitale: più baldanzoso di prima lo attaccai facendomi però tentare da un chiodo e da un pianerottolo sulla sinistra che mi portò di nuovo in linea col grande diedro in mezzo a roccia strapiombante (scoprirò in seguito trattarsi della via originaria ormai abbandonata). Niente da fare, la roccia cominciava a farsi rotta e non si riusciva a distinguere qualcosa a più di 4-5 m; ridiscesi con circospezione e lasciai ripartire Stefano che era rimasto affascinato dal camino, conscio che il peggio fosse passato e si inerpicò lungo una fessura verticale di roccia resa ormai viscida e gocciolante dalla nebbia. Dopo qualche altra bestemmia arrivò in una nicchia completamente fradicia, mi recuperò ed immediatamente uscii a destra per raggiungere finalmente la cresta sommitale. 
Dopo un ultimo recupero della corda ci stringemmo la mano sulla cima e finalmente ci dedicammo al panino che avevamo trasportato fino a quel momento mentre la nebbia faceva per alzarsi e l'aria diventava più calda.
Molte volte sono arrivato in cima ad una montagna ma poche volte ho avuto una bella soddisfazione come quella volta sulla vetta del Baffelàn, immerso nella nebbia ma alla conclusione di una bella via; una di quelle rare occasioni di sintonia che si rivelano successivamente irripetibili.
Non ho fatto neanche una foto della via...!



Parete est e pilastro del Baffelan

La mole del pilastro nord-est; nei pressi dello spigolo di destra corre la via Soldà-Bertoldi del 1928, foto fatta in un'occasione successiva.

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martedì 21 gennaio 2020

SAINT SAENS - Clarinet Sonata op.167

Saint Saens

Sonata for piano and Clarinet op. 167


La Sonata per clarinetto e pianoforte di Camille Saint Saens fu scritta nel 1921 ed è una delle ultime opere del compositore francese (1835-1921), la seconda di un trittico di sonate per legni composte nello stesso anno della morte.
La sonata è in Mi bemolle maggiore e si presenta in quattro movimenti:

La scrittura della sonata non è virtuosistica come quella delle sonate per violino o per violoncello ma presenta una parte pianistica essenziale in continuo dialogo col clarinetto in un gioco di brevi imitazioni e di alternanza delle proposte.


I MOVIMENTO: Allegretto


Il primo movimento, Allegretto in Mi bemolle maggiore, è una sorta di Romanza in 12/8 di struttura A-B-A' , con un unico tema in mi bemolle esposto totalmente dal clarinetto mentre il pianoforte accompagna semplicemente in terzine e qualche arpeggio la melodia. Lo schema di costruzione, che parte in levare nella prima battuta, può essere grossolanamente articolato in 3 battute di proposta più 3 di risposta (ma lo schema non è rigido).



Dopo 21 battute di esposizione incomincia la sezione B, una sorta di sviluppo delle idee precedenti che tramite due progressione si porta da Do minore [1] a Re bemolle maggiore prima di una lunga cadenza sospesa [2] su una triade napoletana (Do bemolle) di Si bemolle minore (btt 37 e seguenti) in cui pianoforte e clarinetto alternano un disegno in semicrome [3], punto più agitato del movimento.


 [1]
 [2]
 [3]


Alle battute 45 e seguenti due nuove progressioni portano alla conclusione dell'episodio e quindi alla ripresa variata di A, un A', che comincia prima appoggiandosi alla sensibile di Mi bemolle (Re) e poi sul sesto grado.


Il tema viene riesposto con due brevi progressioni prima della conclusione in pianissimo e in Mi bemolle maggiore.

II MOVIMENTO: Allegro animato


Il secondo movimento, Allegro animato in La bemolle maggiore, è nuovamente in forma A-B-A che ricalca uno Scherzo, pur essendo in 2/2. La struttura del tema si articola in 4 battute di proposta più 4 di risposta formate da un breve inciso del clarinetto in La bemolle, seguito da una risposta con una serie di arpeggi.


La sezione A si conclude con un pedale di Re bemolle (IV di La bemolle) e una canonica cadenza Mib-Lab.


La sezione B comincia in pianissimo con due sequenze di quattro battute su due none, la prima dominante secondaria, la seconda principale [1] che preparano le successive otto battute in Re bemolle maggiore, formate da due progressioni [2], in cui si intrecciano i disegni di clarinetto e pianoforte.

 [1]
 [2]


La parte seguente itera il procedimento fino alla conclusione dell'episodio B. Segue la ripresa di A con una piccola imitazione del tema principale al pianoforte e tutto il movimento si chiude con dieci battute di coda in cui torna il piccolo motivetto d'incipit della sezione B.

III MOVIMENTO: Lento


Il terzo movimento, Lento in Mi bemolle minore e in 3/2, consta due distinte sezioni separate da una lunga "pausa", ossia un breve intermezzo del pianoforte formato da una sequenza di accordi arpeggiati. In entrambe le sezioni l'incipit del tema è il medesimo e la scrittura è polifonica a quattro voci (cl.+3 voci al piano); il clarinetto intona il tema nella sua ottava più bassa, raddoppiato dal pianoforte, il tutto forte e lugubre. Dopo cinque battute le linee melodiche si differenziano creando delle piccole imitazioni e due disegni indipendenti ma dialoganti.


La sezione si conclude in Mi bemolle minore. Segue il breve intermezzo di sette battute, che potrebbe essere visto come una coda di quanto esposto in precedenza, con una cadenza tra Re bemolle maggiore e Mi bemolle minore modale che adduce alla nuova sezione. Questo nuovo episodio è in pianissimo, vi è la ripetizione del tema con alcune piccole varianti nel contrappunto del pianoforte e si conclude sempre in Mi bemolle minore.


Segue una coda di arpeggi di otto battute (le sette precedenti più una di attesa) che portano alla dominante, Si bemolle maggiore, punto di attesa del movimento seguente.

IV MOVIMENTO: Molto Allegro


Il quarto movimento, Molto allegro in 4/4, è il vero movimento in forma-sonata di tutto il pezzo e con una struttura abbastanza varia: l'inizio del movimento è in Mi bemolle maggiore con un lungo pedale di tonica tremolato al pianoforte che supporta degli arpeggi virtuosi del clarinetto.




Dopo il tremolato ed una battuta di raccordo al pianoforte, questa introduzione virtuosistica prosegue su pedale di dominante Si bemolle maggiore e, da battuta 20 a 27, tramite due progressioni, l'episodio si conclude portando al vero primo tema del movimento.



A questo punto la struttura di forma-sonata viene modificata, i due temi vengono accostati e viene eliminato il ponte modulante, ossia la sezione di sviluppo e di modulazione che collega i due temi nell'esposizione della forma-sonata. Il primo tema è caratterizzato da tre pedali di due battute ciascuno, il primo parte da una settima di La bemolle e scende di semitono in progessione sino al Fa, dominante di Si bemolle; sia il pianoforte che il clarinetto ripetono le note oscillanti di una terza minore per moto contrario, dando l'impressione di calmare il movimento [1]. Il secondo tema attacca subito, di carattere completamente contrastante, caratterizzato dall'imperiosa proposta delle ottave del pianoforte, in Fa maggiore (btt 37-38), seguita dal virtuosismo della scala cromatica del clarinetto. Dopo una risposta positiva in Si bemolle maggiore che ripete il medesimo disegno, il tema termina in Sol maggiore, dominante del Do minore, tonalità con cui attacca lo sviluppo [2].

 [1]
 [2]


Il clarinetto dialoga con il basso del pianoforte per cinque battute, poi ripropone un disegno in terzine apparso nell'introduzione prima di dare spazio alla sequenza successiva in Mi bemolle minore: il pianoforte accompagna mentre il clarinetto esegue dei frammenti melodici sincopati di un ottavo che creano un ritmo incalzante.



Dopo dieci battute in cui la proposta viene esposta e poi re-iterata lo sviluppo si conclude con una lunga progressione-cadenza del clarinetto che porta a Si bemolle maggiore, dominante di Mi bemolle. A questo punto entrambi i temi vengono riesposti oscillando tra Si bemolle maggiore e Fa maggiore prima di una nuova sezione di sviluppo di ben ventuno battute in cui assistiamo ad una riproposizione del dialogo serrato del pianoforte e del clarinetto (con l'aggiunta di ottave al pianoforte) e di una lunga cadenza tra pianoforte e clarinetto che culmina con la lunga scala squillante di tre ottave del legno, in fortissimo.



Segue un canone in progressione tra i due strumenti che si porta in Do minore e l'episodio si conclude in Sol maggiore, dominante di Do dopo un'ultima cadenza virtuosistica per il clarinetto.

L'intero movimento, e quindi la sonata, si conclude con una ripresa del primo movimento di cui viene eseguita nuovamente l'esposizione con alcune piccole modifiche nell'accompagnamento del pianoforte; espediente che conferisce alla sonata una forma ciclica.



La sonata per clarinetto di Saint Saens è, nell'armonia, ancora di impostazione tonale, con un uso della tonalità tardo-romantico, non mancano infatti accostamenti di accordi lontani tra loro come nei temi del quarto movimento e lunghi pedali su cui gli accordi di undicesima e tredicesima creano un ambiente sonoro fortemente instabile; l'insieme è però ancora molto tradizionale, non toccato dalle novità scaturite in quel periodo.

Bibliografia
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ENGLISH VERSION


The Sonata for clarinet and piano by Camille Saint Saens was written in 1921 and is one of the last works of the French composer (1835-1921), the second of a triptych of woodwind sonatas composed in the same year of his death.
The sonata is in E flat major and is written in four movements:
Allegretto
- Allegro animato
- Lento
- Molto Allegro-Tempo I

The writing of the sonata is not as virtuous as that of the violin or cello sonatas but has an essential piano part in continuous dialogue with the clarinet in a game of short imitations and alternation of the proposals.

The first movement, Allegretto in E flat major, is a sort of Romance in 12/8 with A-B-A 'structure, with a single E flat theme totally exposed by the clarinet while the piano simply accompanies the melody in triplets and some arpeggio. The construction scheme, which starts in the last pulse in the first bar, can be roughly divided into 3 proposal bars plus 3 response bars (but the scheme is not rigid).


After 21 bars of exposure section B begins, a sort of development of the previous ideas that through two progression moves from C minor to D flat major [1] before a long cadence suspended [2] on a Neapolitan triad (C flat) of B flat minor (btt 37 and following) in which piano and clarinet alternate a semichrome drawing [3], the most agitated point of the movement.

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In bars 45 and following two new progressions lead to the conclusion of the episode and therefore to the varied recovery of A, an A ', which begins first by relying on the seventh of E flat (Re) and then on the sixth degree.


The theme is restated with two short progressions before the conclusion in pianissimo and E flat major.


The second movement, Allegro Animato in A flat major, is again in form A-B-A which follows a Scherzo, despite being in 2/2. The structure of the theme is divided into 4 bars of proposal plus 4 of response formed by a short incision of the clarinet in A flat, followed by a response with a series of arpeggios.


Section A ends with a D flat pedal (IV of La flat) and a canonical Mib-Lab cadence.



Section B begins in pianissimo with two sequences of four bars on two none, the first secondary dominant, the second main [1] which prepare the next eight bars in D flat major, formed by two progressions, in which the clarinet and piano drawings are intertwined [2].


 [1]
 [2]

The following part iterates the procedure up to the end of episode B. The shooting of A follows with a small imitation of the main theme on the piano and the whole movement ends with ten bars in which the small incipit tune of the section returns B.


The third movement, Slow in E flat minor and in 3/2, consists of two distinct sections separated by a long "pause", ie a short interlude of the piano formed by a sequence of arpeggiated chords. In both sections the incipit of the theme is the same and the writing is polyphonic with four voices (cl. + 3 voices on the piano); the clarinet intones the theme in its lowest octave, doubled by the piano, all loud and lugubrious.


After five bars the melodic lines are differentiated creating small imitations and two independent but dialoguing designs. The section ends in E flat minor. The short interlude of seven bars follows, which could be seen as a tail of the above, with a cadence between D flat major and E flat minor modal which leads to the new section. This new episode is in pianissimo, there is the repetition of the theme with some small variations in the counterpoint of the piano and always ends in E flat minor.


An eight-bar arpeggios queue follows (the previous seven plus a wait) leading to the dominant, B flat major, the point of waiting for the following movement.


The fourth movement, Molto Allegro in 4/4, is the true movement in sonata form of the whole piece and with a fairly varied structure: the beginning of the movement is in E flat major with a long pedal of trembled tonic on the piano that supports virtuoso arpeggios of the clarinet.



After the tremolo and a bar on the piano, this virtuosic introduction continues on the pedal of dominant B flat major and, from bar 20 to 27, through two progressions, the episode ends leading to the true first theme of the movement.


At this point the sonata form structure is modified, the two themes are brought together and the modulating bridge is eliminated, that is the development and modulation section that connects the two themes in the sonata form exhibition. The first theme is characterized by three pedals of two bars each, the first starts from a seventh of A flat and goes down in semitone in progression up to F, dominant of B flat; both the piano and the clarinet repeat the oscillating notes of a minor third for opposite motion, giving the impression of calming the movement [1]. The second theme attacks immediately, of a completely contrasting character, characterized by the imperious proposal of the octaves of the piano, in F major (btt 37-38), followed by the virtuosity of the clarinet's chromatic scale. After a positive response in B flat major that repeats the same drawing, the theme ends in G major, dominant of C minor, the key with which it attacks the development [2].

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 [2]


The clarinet dialogues with the piano bass for five bars, then re-proposes a drawing in triplets appeared in the introduction before giving space to the next sequence in E flat minor: the piano accompanies while the clarinet performs syncopated melodic fragments of an eighth that create a pressing rhythm.


After ten bars in which the proposal is exposed and then re-iterated, the development ends with a long progression-cadence of the clarinet which leads to B flat major, dominant of E flat. At this point both themes are restated oscillating between B flat major and F major before a new development section of twenty-one bars in which we witness a re-presentation of the close dialogue of the piano and the clarinet (with the addition of octaves on the piano ) and a long cadence between piano and clarinet culminating in the long ringing scale of three octaves of wood, in fortissimo.



There follows a canon in progression between the two instruments which takes you to C minor and the episode ends in G major, dominant of C after a last virtuosic cadence for the clarinet.



The whole movement, and therefore the sonata, ends with a resumption of the first movement of which the exposure is performed again with some small changes in the accompaniment of the piano; device that gives the sonata a cyclical shape.
The clarinet sonata of Saint Saens is, in harmony, still of tonal setting, with a use of the late-romantic tonality, in fact there is no lack of combinations of distant chords as in the themes of the fourth movement and long pedals on which the chords of eleventh and thirteenth create a highly unstable sound environment; however, the whole is still very traditional, unaffected by the innovations that emerged in that period.

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