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martedì 31 marzo 2020

SAINT SAENS - 6 Etudes pour la maine gauche seule op. 135

CAMILLE SAINT-SAENS


6 Etudes pour la maine gauche seule op. 135


Scritti nel 1912, questa piccola raccolta di studi è destinata all'esecuzione della sola mano sinistra, un fatto abbastanza comune nell'ambito del pianoforte. Fanno parte di un interessante repertorio scritto a tal proposito di circa 1100 studi, trascrizioni diverse e ben 50 concerti, tra cui il celebre di Maurice Ravel scritto per il pianista Paul Wittgenstein. Il motivo, come scritto in un interessante articolo apparso sul Sole 24 ore nel 2014 di Arnaldo Benini, non è chiaro ma il mondo della musica ha sempre reputato la mano sinistra la mano più idonea all'esecuzione, pur non essendo la dominante. Di per contro la destra possiede un repertorio specifico di circa una decina di pezzi, una frazione infinitesima di quello fin qui considerato. Le neuroscienze spiegano questo fatto con la connessione della mano sinistra all'emisfero destro del cervello sensibile agli stimoli inattesi e quindi tale mano reagisce molto più rapidamente della rivale. 
Al di là di queste considerazioni, Saint Saens ci presenta  in quest'opera una piccola suite di sei pezzi di gusto neoclassico, in cui ritornano alcune forme del passato quali la Fuga e la Bourrée, trasportate in una prassi compositiva più novecentesca ma ancora ancorata al sistema tradizionale di scrittura tonale.
La suite è composta da:
  1. Prelude
  2. Alla fuga
  3. Moto perpetuo
  4. Bourrée
  5. Elégie
  6. Gigue
Il Prelude è un piccolo studio di arpeggi e note tenute in sol maggiore, in 3/4 e Allegretto moderato. La sua caratteristica principale, rimarcata per tutto lo studio, è il piccolo arpeggio di proposta di 1/8 a cui seguono 2/4 in crome staccate, due elementi molto diversi e contrastanti che si ripetono con alcune variazioni per tutto il brano. La struttura dello studio è all'incirca A-B-A'-C in cui A è il tema e la sua ripresa variata (le crome staccate diventano semicrome), cui segue una lunga cadenza in terzine che è B, ad A' vi è una sorta di ripresa in Sol maggiore a cui segue una coda con due lunghe progressioni di semicrome e note tenute prima di C, la coda conclusiva.

Il secondo studio, Alla fuga, è come da titolo, una fuga a due voci in Sol maggiore e 2/4, Allegro non troppo, dove l'autore fa sfoggio delle sue capacità contrappuntistiche. Segue la tipica struttura della fuga scolastica di Esposizione-Divertimento-Ripresa alle sottodominanti-Stretti e conclusione. I divertimenti sono costruiti sul caratteristico elemento del tema, la quartina di semicrome, e sui rovesci del tema.

Il Moto perpetuo, è uno studio per le cinque dita articolate, in 3/8 e Mi maggiore, Allegretto, in forma A-B-A e caratterizzato dalla ripresa di diversi atteggiamenti in tonalità diverse durante la rapida sezione B. E' uno studio per l'articolazione delle dita della mano sinistra in modi diversi, dagli arpeggi su intervalli di terza, agli arpeggi semplici, entrambi ascendenti e discendenti.

Il quarto studio è una Bourée, in 2/2 e Molto Allegro in sol minore, ricalca la forma di questa danza francese, originaria dell'Alvernia. La Buorée, o Bourrée, è una danza veloce, in due movimenti, come nella versione più diffusa, e proviene dal Medioevo. Lo studio di Saint-Saens trae ispirazione dalla danza tradizionale per rimaneggiarne poi la forma, estendendo quella che doveva essere la parte B, detta Musette, sempre veloce ma di carattere più dolce e contrastante con la Bourrée che aveva la funzione di piccolo intermezzo prima della ripetizione. Saint-Saens, dopo 21 battute di esposizione che formano la parte A, introduce una sorta di risposta in Si bemolle maggiore alla parte A, a cui segue una cadenza di ben 12 battute che modula nuovamente a Sol minore in cui avviene la ripresa di A. La Musette segue questa ripresa passando a Sol maggiore in una lunga cadenza su pedale di sol di ben 30 battute prima della ripresa finale di A. Tutta la parte A, leggermente variata, viene ripetuta, inclusa la risposta in Si bemolle maggiore, poi la Musette fa un'ultima apparizione come coda del pezzo, in Sol maggiore.

Il quinto studio è intitolato élégie, Poco adagio in 3/4, ed è il più interessante della raccolta. Come di consueto è articolato in una forma A-B-A ma a loro volta esse contengono alcuni piccoli episodi al loro interno e di carattere contrastante. Il brano inizia in Re bemolle maggiore con una prima proposizione formata da botta e risposta di 3+3 battute: le prime tre battute statiche e su accordi arpeggiati, le seconde 3 più dinamiche e con un motivetto discendente che si muove all'interno della scala di Re bemolle con relative appoggiature armoniche. Dopo un'iterazione della proposizione segue un nuovo tema in Re bemolle, molto cantabile e caraterizzato da un canto e da un accompagnamento, che dura ben 18 battute e si conclude in dominante dopo una piccola coda nuovamente statica su accordi e concede alla parte B l'inizio.
La parte B si porta spostandosi di semitono direttamente a La maggiore, e ci presenta un tema che modula poi progressivamente verso il Fa# minore, grave e cupo ed intervallato da arpeggi, tutto forte e che contrasta decisamente col carattere della parte A. Dopo 8 battute sorprendentemente lo stesso tema viene re-iterato in Fa maggiore e relativi gradi per portarsi progressivamente a Mi bemolle maggiore. Segue una lunga cadenza di 12 battute in cui viene introdotta la novità delle terzine e che viene sviluppata prima con movimento rapido e poi più lento su doppie seste rimodulando nuovamente alla ripresa di A, che viene ripetuto con alcune piccole variazioni e l'inserimento di una piccola cadenza tra i due temi in Re bemolle. Segue una coda e la conclusione.

L'ultimo studio è una Gigue, alla francese, in Sol maggiore, Presto e in 3/8, come da tradizione barocca. E' lo studio riassuntivo dell'opera in cui vengono riproposte tutte le difficoltà esplorate nei precedenti e il compositore coglie l'occasione di sviluppare lungamente il tema in maniere diverse, anche aggiungendo una seconda voce in contrappunto con la prima, onde riprendere tutto quanto è stato mostrato in precedenza. Lo studio è sempre in forma A-B-A ma le sezioni, per i motivi di cui sopra, risultano meno nette e la B prevale di gran lunga sulle altre due, infatti la vera e propria ripresa avviene solo alla fine come un breve richiamo del tema prima della conclusione.


ENGLISH VERSION

Written in 1912, this small collection of studies is intended for playing the left hand only, a fairly common occurrence in the piano world. They are part of an interesting repertoire of 1100 studies written in this regard, different transcriptions and 50 concerts, including the famous one by Maurice Ravel written for the pianist Paul Wittgenstein. The reason, as written in an interesting article published in Arnaldo Benini's Sole 24 ore in 2014, is not clear but the world of music has always considered the left hand the most suitable hand for execution, even if it is not the dominant one. On the other hand, the right has a specific repertoire of about ten pieces, an infinitesimal fraction of that considered so far. Neuroscience explains this fact with the connection of the left hand to the right hemisphere of the brain sensitive to unexpected stimuli and therefore this hand reacts much more quickly than its rival.
Beyond these considerations, Saint Saens presents us in this work a small suite of six pieces of neoclassical taste, in which some forms of the past such as the Fugue and the Bourrée return, transported in a more twentieth-century compositional practice but still anchored to the traditional tonal writing system.
The suite consists of:
  1. Prelude
  2. Alla fuga
  3. Moto perpetuo
  4. Bourrée
  5. Elégie
  6. Gigue
The Prelude is a small study of arpeggios and notes held in G major, in 3/4 and Allegretto moderato. Its main feature, remarked throughout the study, is the small 1/8 proposal arpeggio followed by 2/4 in detached eighth notes, two very different and contrasting elements that are repeated with some variations throughout the piece. The structure of the study is roughly A-B-A'-C in which A is the theme and its varied reprise (the detached eighth notes become sixteenth notes), followed by a long cadenza in triplets which is B, at A 'there is a sort of reprise in G major followed by a coda with two long semiquaver progressions and notes held before C, the concluding coda.

The second study, Alla Fuga, is, as the title suggests, a fugue for two voices in G major and 2/4, Allegro non too much, where the author shows off his counterpoint abilities. The typical school escape structure of Exposure-Entertainment-Shooting to the subdominants-Straits and conclusion follows. The divertimenti are built on the characteristic element of the theme, the sixteenth note quatrain, and on the reverse of the theme.

Moto perpetuo is a study for the five articulated fingers, in 3/8 and E major, Allegretto, in form A-B-A and characterized by the resumption of different attitudes in different tones during the rapid section B. It is a study for the articulation of the fingers of the left hand in different ways, from arpeggios on third intervals, to simple arpeggios, both ascending and descending.

The fourth study is a Bourée, in 2/2 and Molto Allegro in G minor, following the form of this French dance, originally from Auvergne. La Buorée, or Bourrée, is a fast dance, in two movements, as in the most common version, and comes from the Middle Ages. The Saint-Saens studio draws inspiration from traditional dance to then rework its form, extending what was supposed to be part B, called Musette, always fast but with a sweeter and contrasting character with the Bourrée which had the function of a small interlude before the repetition. Saint-Saens, after 21 bars of exposure that form part A, introduces a sort of response in B flat major to part A, followed by a cadence of 12 bars that modulates again to G minor in which the reprise of A takes place Musette follows this reprise by moving to G major in a long cadenza on a G pedal of 30 bars before the final reprise of A. The whole A part, slightly varied, is repeated, including the response in B flat major, then the Musette makes a final appearance as the coda of the piece, in G major.

The fifth study is entitled élégie, Poco adagio in 3/4, and is the most interesting of the collection. As usual it is articulated in an A-B-A form but in turn they contain some small episodes within them and of a contrasting character. The piece begins in D flat major with a first proposition made up of a hit and answer of 3 + 3 bars: the first three static bars and on arpeggiated chords, the second 3 more dynamic and with a descending tune that moves within the scale of D flat with relative harmonic supports. After an iteration of the proposition, a new theme in D flat follows, very cantabile and characterized by a song and an accompaniment, which lasts 18 bars and ends in dominant after a small coda again static on chords and grants part B the 'Start.
Part B moves by semitone directly to A major, and presents us with a theme that then gradually modulates towards F # minor, low and dark and interspersed with arpeggios, all strong and which clearly contrasts with the character of Part A. After 8 surprisingly, the same theme is re-iterated in F major and relative degrees to progressively move to E flat major. This is followed by a long cadence of 12 bars in which the novelty of the triplets is introduced and which is developed first with a rapid movement and then slower on double sixths, reshaping again at the restart of A, which is repeated with some small variations and the insertion of a small cadence between the two themes in D flat. A coda and conclusion follows.

The last study is a Gigue, in the French style, in G major, Presto and in 3/8, as per the Baroque tradition. It is the summary study of the work in which all the difficulties explored in the previous ones are re-proposed and the composer takes the opportunity to develop the theme at length in different ways, also by adding a second voice in counterpoint with the first, in order to take up everything that is been shown previously. The study is always in A-B-A form but the sections, for the reasons mentioned above, are less clear-cut and the B by far prevails over the other two, in fact the real recovery takes place only at the end as a brief reminder of the theme before the conclusion.

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giovedì 5 marzo 2020

TRAGEDIE

TRAGEDIE


Per quanto poco produttivo, il 2011 mi aveva comunque riservato alcune esperienze positive ed era rimasto carico di aspettative per l'anno successivo. Poco dopo l'avventura al Dente riuscii a concludere qualche altra bella ascensione sui Colli e in Valle del Sarca, posto che avevo appena iniziato a frequentare e di gran moda allora (oggi un po' meno). Anche la primavera successiva riserbò qualche sorpresa di cui parlerò in seguito.
Quello che però successe nell'estate del 2012 segnò un punto di svolta nelle vite di tutti i protagonisti sin qui descritti. 
Era la domenica 24 giugno e il giorno successivo dovevo dare l'esame di "Fondamenti di Algebra Lineare" all'università così, malgrado gli inviti di Paolo ad approfittare del bel tempo, decisi di restare a casa a dare un'ultima ripassata. Ero piuttosto preparato per quell'esame. Sapevo che Paolo e Nicola sarebbero andati a ripetere la via che avevo già fatto con Stefano sulla Guglia GEI tanto per divertirsi un po' e la volta successiva, passato l'esame, saremmo andati tutti sulle Dolomiti a fare qualcosa di gustoso, di carne al fuoco ce n'era tanta. 
Il pomeriggio, mentre studiavo, come un fulmine a ciel sereno mi arrivò un messaggio di Paolo in cui mi disse che era capitato un incidente gravissimo a Nicola, di non meglio specificata natura e che per il momento bisognava vedere il da farsi. Lì per lì non mi preoccupai più di tanto, Nicola sapeva il fatto suo e se la sarebbe cavata con delle ammaccature, avremmo solo dovuto aspettare prima di riaverlo combattivo con noi. 
Il giorno dopo attendevo il mio turno all'esame quando mi arrivò la notizia: Nicola non ce l'ha fatta!
Inutile dire il seguito, passai l'esame per il rotto della cuffia perché ero con la testa altrove, tornai a casa e restai tre giorni in shock incapace di rendermi realmente conto di quanto era capitato. Pensavo erroneamente che il trauma sarebbe passato in un modo o nell'altro e che purtroppo queste cose capitavano ma mi resi conto in seguito che non era così: inconsciamente si muovevano altre forze che non potevo controllare e che si sarebbero manifestate in seguito.
Paolo da quel giorno non fu più lo stesso e anche Stefano perse quasi del tutto l'entusiasmo, ci volle almeno un anno prima che tornasse a calcare la pietra e con molta timidezza.
Io, Paolo ed altri andammo in seguito a sistemare una lapide commemorativa ai piedi del luogo in cui avvenne la tragedia, ossia ai piedi della piccola torre detta il Milite, alla base della Guglia GEI. Vidi chiaramente cosa successe quel giorno: un enorme macigno si era staccato dalla parete del camino che taglia la torre e aveva schiacciato le gambe del povero Nicola  intrappolandolo inesorabilmente sotto di esso. Dopo 8 ore di agonia e numerosi tentativi falliti, i soccorritori riuscirono a tirarlo fuori usando l'esplosivo; purtroppo però non c'era più nulla da fare e il poveretto si spense durante il trasporto.

Successivamente a questa tragedia, nel tentativo di dimenticare, andai con un compagno che allora conoscevo da poco, a percorrere la via delle Guide sulla Piccola di Lavaredo. La via attaccava con una lunga traversata su una stretta cornice abbastanza semplice e il compagno insistette per partire da primo. Purtroppo l'idiota fece tutta la lunghezza senza mettere nemmeno una protezione intermedia e io, ancora più idiota, sottovalutai il senso di incertezza lasciatomi da quello che era appena accaduto e, complice lo zaino, feci un bel volo che fortunatamente finì solo con uno spauracchio e qualche escoriazione. Tutto ciò però mi insegnò molte cose, a cominciare dal fatto che non rividi più quello scemo. Passò parecchio tempo prima di rimettere le mani sulla pietra e tutti e due gli anni seguenti rimasero parecchio in sordina...

immagine del Milite nel gruppo del Carega
Il Milite col camino dove avvenne la tragedia.

immagine della lapide alla memoria di Nicola Tassoni


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GITE NOTTURNE - FESSURA FRANCESCHINI

GITE NOTTURNE

Fessura Franceschini al Dente del Rifugio


Alla fine dell'estate 2011 venne un periodo caldo, di alte temperature con elevato tasso di umidità, pareva di essere in Amazzonia, fuori l'aria era rovente e si poteva uscire fino alle 10 del mattino o dopo le 21,00.
Telefonai a Stefano con l'idea di prendere un po' di fresco in montagna e sfuggire alla canicola, tanto sapevo che non avrebbe detto di no ad un po' di movimento. 
La sua prima risposta fu: "Vecio, andemo a Rocca Pendice! - Ma i ghe xe +40°?! -  Massì provemo! Tanto semo all'ombra! -  Nol me pare 'na gran idea...
Insomma dopo un po' di tira e molla riuscii a vincere la sua poderosa inerzia e negoziammo una gita in gironata, onde salvare la "capra" e i cavoli. Scelsi di andare giornata sulle Pale di San Martino come avevo fatto negli anni addietro col corso CAI. Il problema delle gite in giornata, per noi uomini di città, è che se la meta non si trova entro distanze gestibili col veicolo, il rischio di un bel bivacco  aumenta notevolmente, ovviamente chi propone e scrive non si immagina di essere anche la causa del disastro. Decisi quindi per l'appuntamento alle 4,30. 
Alle 4,00 il compare non si alzò, si girò malamente, mi inviò un messaggio e a me, il fanatico che si era pure alzato e preparato per la colazione, non restò che tornare a letto a fare finta di dormire maledicendo la sua stirpe. 
Passarono alcuni giorni e non desistetti, continuando un lento e progressivo lavaaggio del cervello nei confronti del socio fino a convincerlo: decise, in accordo con me, che di caldo ne aveva abbastanza e quindi partimmo alla volta delle Pale. La meta era il Dente del Rifugio, piccola cima rocciosa sopra il Rifugio Treviso in Val Canali, per la fessura Franceschini.

La Fessura Franceschini è una bella via di circa 250 m; aperta nel 1947 da G. Franceschini e D. Palminteri che corre lungo una serie di crepe nel versante del monte, una classica della zona.

Arrivammo in perfetto orario in Val Canali e ci incamminammo verso il Rifugio Treviso a passo da gigante, dato che la vista del posto aveva infervorato il fedele scudiero e lo raggiungemmo in meno di un'ora, giusto il tempo per la birra del mattino, vista l'età avanzante. 
L'entusiasmo era alle stelle, tantoché sbagliammo sentiero finendo imboccando quello che partiva sulla destra del rifugio con tanto di cartello (la colpa è sempre della guida o della segnaletica...!) che in breve ci portò sulla ferrata del Canalone. 
Carichi di roba come i muli (eh la paranoia, ma anche la pregressa esperienza caiana), salimmo le roccette della ferrata assicurati ad un cavo metallico robusto come il filo elettrico di un'asciugacapelli e nuovo come i cavalli di frisia del 15-18, ma perlomeno ben teso. Passammo su una passerella costituita da un unico tronco di legno scricchiolante che attraversava una spaccatura nella roccia, issandoci sul "robusto" cordino a forza di braccia, oppressi come le anime del Purgatorio che trascinano i macigni delle loro colpe. 
Giungemmo all'attacco già bolliti da clima umido e dalla fatica appena fatta quando si faceva già ora di pranzo. Dopo una titubanza iniziale decidemmo di attaccare ugualmente e partii lungo le rocce dello zoccolo mentre Stefano sarebbe salito portando lo zaino con tutta la roba (mai dire mai, l'occasione fa l'uomo ladro!). Arrivati al punto in cui la parete si impennava vidi spuntare dai mughi uno stremato Stefano, per cui gli cedetti il comando onde ringalluzzirlo e per dargli la soddisfazione di una bella fessura dai bordi levigati. Stefano si avviò su con slancio, come un tritasassi e dopo qualche usuale bestemmia passò la fenditura e raggiunse la "comodissima" sosta in una nicchia in cui forse ci stava un piede e venne quindi il mio turno di salire. 
C'è bisogno di dire che lo zaino si incastrò sistematicamente in ogni punto della fessura e dovetti risalirla a forza di braccia lungo il bordo esterno, in strapiombo, bestemmiando di fatica più del solito?
Ovviamente no e una volta arrivato alla sosta incazzato come un toro per lo sforzo, fortunatamente appena rinforzata con fix anellati dalle guide (altrimenti sarebbe toccato assicurarsi al mazzo di chiodi piantato in un buco e baciare il santino di padre Pio), cedetti volentieri il resto del comando della via al socio che si sobbarcò felice le lunghezze successive, non troppo impegnative ma comunque atletiche, mentre il sottoscritto portava il fardello sul groppone, almeno così alleviavo la tensione della salita. 
Ad un certo punto, quando la via superava una lunghezza molto bella e caratteristica con un un doppio diedro, alle nostre spalle si sentì rombare un tuono e subito un muro di acqua cominciò ad avanzare  sornione dalla Cima Canali, in quanto circondato ancora dai raggi del sole. Sulle prime non ci feci caso e rassicurai il compagno che non c'era da preoccuparsi, al massimo avremmo preso uno scroscio d'acqua di qualche minuto. Ovviamente non credevo ad una sola parola ma dovevo assolutamente incoraggiare il socio. Al termine del tiro fui prontamente smentito dall'incupirsi del cielo intorno a noi e dall'avanzamento più deciso del muro di acqua che ora lambiva la bassa Val Canali.
Al punto in cui eravamo potevamo solo sperare, quindi, inaspettatamente, Stefano mise il turbo spronandomi a fare presto perché "no go nessuna voja de torma l'acqua su sto cesso!"; avanti tutta e di corsa dunque! 
Raggiungemmo una seconda nicchia presso uno spigolo quando la situazione divenne strana: il muro di acqua aveva avvolto la Cima dei Lastei ed ormai sferzava il fondo della Val Canali, sostanzialmente dove avevamo parcheggiato, mentre su di noi le nuvole si riaprirono e ricominciò battere il sole. La pioggia era a circa 500 metri in linea d'aria da noi quando, fortunatamente, il temporale girò e noi riuscimmo a raggiungere la vetta del Dente sani e salvi.

Dopo una meritata pausa passata a consumare le scorte di cibo e a rimirare il panorama ci avviammo verso la discesa per la via normale, una sorta di imbuto in cui bisognava buttare le corde doppie. Avevamo rallentato il ritmo della progressione, convinti che il peggio fosse passato e nel frattempo si fece sera. Cominciammo con la prima calata, effettuata sempre con le corde singole dell'anno precedente e portate appositamente per lo scopo perché ricordavo che essa fosse molto lunga, avendola già fatta col corso CAI anni prima. 
Una delle cose brutte della crescita è che si comincia ad affidarsi ai ricordi, che come è noto sono fallaci, e se a ciò si unisce l'avarizia la ricetta del disastro è pronta. Come il lettore avrà già capito, le corde aggrovigliarono in maniera del tutto assurda, ancora peggio che sulle Torri del Vajolet e ciò richiese una mezz'ora per essere risolto, non potendo io, per ovvie ragioni, ricorrere alla soluzione "rapida" del nodo gordiano.
Alla seconda doppia, del tutto ignaro che dai tempi del CAI le calate erano state ri-attrezzate e accorciate in tratti corti da 25 metri, cosa che avrebbe permesso un impaccio notevolmente inferiore in tutta l'ascensione, le corde si mischiarono nuovamente in un'insalata persino peggiore della precedente. Dopo una ventina di minuti in cui non cavavo un ragno dal buco, uno spazientito Stefano scese fino a me, ovviamente con entrambi appesi alle stesse corde (non è mai una buona idea), per contribuire a sciogliere il nodo, fatto che ci portò via altri 40 minuti di lavoro in sospensione prima di raggiungere la base.
Arrivati a terra era ormai sopraggiunto il buio e ci incamminammo, questa volta lungo il sentiero giusto, utilizzando la luce dello schermo dei telefoni (allora gli smartphone con la torcia erano di là da venire) sguazzando tra le radici viscide di umidità e pioggia. Arrivammo al rifugio Treviso a notte fonda dove, fortunatamente e malgrado l'ora, il gestore ci diede impietosito un tagliere di salumi ed una pila frontale per tornare a casa. Il ritorno nel buio fu distensivo e allegro.
Alle 2,30 della notte eravamo finalmente alla dimora dopo una lunga giornata.




Val Canali
La Val Canali di primo mattino.

Dente del Rifugio
Il Dente del Rifugio con visibile, a sinistra nei grigi, la fessura.

Fessura Franceschini
La fessura, tratto chiave e caratteristico della via.

camino della Fessura Franceschini
In arrampicata lungo la fessura.

panorama dal Dente del Rifugio
Si forma il temporale.

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giovedì 27 febbraio 2020

SODDISFAZIONI - DIBONA ALLA GRANDE DI LAVAREDO

SODDISFAZIONI

Via Dibona alla Cima Grande di Lavaredo


Ho pochi ricordi dell'anno 2011, forse perché è stato un periodo intenso sotto altri aspetti ma uno degli eventi che mi è rimasto impresso è stata la salita alla Grande di Lavaredo. Sarà per l'alone di leggenda che circonda la montagna, che nella testa di un giovane acerbo significava una salita con dignità (non che le altre non lo fossero!), sarà perché era la prima salita veramente significativa dell'anno, fatto sta che fu l'evento principale di quell'estate. 

Paolo mi telefonò dicendomi che era assolutamente intenzionato a compiere una salita su questa straordinaria cima con lo scopo secondario di conoscerne la discesa in vista di qualcosa di più impegnativo su di essa e la scelta, onde evitare l'affollata via normale, ricadde sullo spigolo Dibona.

Lo spigolo nord-est della Cima Grande di Lavaredo venne salito la prima volta dalla grande guida ampezzana Angelo Dibona ed E. Stubler nel 1909 seguendo le linee più vulnerabili attraverso la linea di demarcazione tra la parete nord e la parete est.

Quella volta si aggregarono a noi anche un gruppo di quattro alpinisti bergamaschi, di cui uno era un conoscente di Paolo, che si trovavano in zona ed erano desiderosi di salire lassù lungo un itinerario famoso.
La notte prima della partenza eravamo a Misurina intenti a fare due passi lungo la strada delle Tre Cime quando tutti insieme guardammo verso la meta, immersa nella penombra dell'ultima luce.
Al rientro in albergo, questo conoscente del mio partner però si ricordò improvvisamente di avere la moglie incinta a casa (se questo era il preambolo chissà se il nascituro era suo) e rimembrò anche al suo compagno di avere degli impegni che l'attendevano giù a Bergamo. Il bello è che costui non fece altro che parlare di cosa aveva fatto in giro per le Dolomiti durante tutta la cena, il che mi ricordò la celebre battuta di Robert de Niro "chiacchiere e distintivo", mentre Paolo lo guardava col sorriso da un'orecchio all'altro dandogli la ragione del somaro.

La mattina seguente due dei bergamaschi ripartirono e così rimanemmo in quattro divisi in due cordate. Ci portammo all'attacco in una splendida mattinata di anticiclone per scoprire la prima avventura della  mattinata, ossia che le facili rocce dell'inizio della via erano completamente sepolte da uno strato di neve da valanga dura come il cemento armato. 
Scoppiò immediatamente l'imbarazzo generale sul da farsi, perché i due bergamaschi volevano salire nell'incavatura tra neve e roccia (in scarpe da tennis) e attaccare più in alto, io invece convinsi Paolo che era meglio salire più direttamente dalle prime rocce e poi deviare sulla retta via onde evitare scene fantozziane  e di spaccarsi le caviglie come dei fessi. Nell'indecisione più totale ebbi un sussulto di virilità e affrontai di petto una fessura di roccia friabile in strapiombo che risolsi innalzandomi come un pensionato che si alza dalla poltrona per andare a prendere gli antidolorifici; nel fare ciò agguantai senza nemmeno pensare il labbro della fessura con la sinistra e con la destra un appiglio nel mezzo. Questo si staccò di schianto e ressi tutto me stesso, piegato come quando si è seduti sulla porcellana del bagno, con la punta delle dita sinistre. Mi spinsi su nella foga e passai oltre; successivamente traversai a sinistra fino a gradoni detritici dove cominciai il recupero di Paolo. 
Vista la mia arrogante determinazioni, che mal celava lo scagazzo che mi era fatto addosso alla partenza, per punizione il mister mi invitò, cortesemente, a proseguire da primo lungo il resto della via.

Nella parte iniziale proseguii lungo una bella continuità di fessure non difficili ma sempre atletiche e su ottima roccia fino ad una splendida terrazza accanto alla levigata parete nord dove ci fermammo tutti e quattro a rimirare il panorama. 
Dopo la fine del pilastro iniziale ripartimmo entrambe le cordate insieme e mi spostai progressivamente verso sinistra nella parete est alla ricerca della linea più facile, ad un tratto però la via era sbarrata da degli strapiombi e così dovetti aggirarli a destra, ripassando sullo spigolo in parete nord per poi ritornare sulla direttrice di salita. Salendo non mi accorsi che avevo praticamente srotolato tutta la corda e che non avevo allungato gli ancoraggi intermedi, cosa particolarmente intelligente, così mi trovai completamente bloccato un metro sotto il terrazzino di sosta. il primo della seconda cordata mi raggiunse in fretta e insieme urlammo a Paolo di partire anche se non era ancora messo in sicurezza, d'altronde anche se fosse caduto sarebbe rimasto agli arresti perché le corde erano completamente avvinghiate da qualche parte. 
L'altro ragazzo mi trasse a braccia sino a lui, ci ancorammo e in due ci mettemmo a recuperare le funi, tirando fino alla disperazione e guadagnando solo pochi centimetri. D'un tratto sbucò Paolo fuori dagli strapiombi sottostanti con l'intera corda arrotolata attorno alle spalle, sacramentando nella mia direzione. Lo guardai in silenzio con uno sguardo beota per spegnere i suoi bollenti spiriti dopodiché calò il silenzio e recuperammo anche il quarto uomo, poi ripartimmo tutti insieme.
 
Successivamente a queste vicende ci trovammo gaudiosi ad una grossa cengia che tagliava la parete est della montagna credendo di aver raggiunto in tempi ottimali la fine della via: la classica menzogna mendace! Infatti, guardando la vetta dalla parte opposta si poteva intuire che eravamo ancora ben sotto la quota di uscita, a circa metà strada e che bisognava ancora macinare parecchia strada per uscire fuori. 
Seguirono una quantità innumerevole di lunghezze di corda, alcune corte per evitare nuovi incagli delle funi fino alla corsa finale dietro una cordata polacca per individuare l'inizio della discesa mentre il buio avanzava. Per tenere dietro a questi "baldi giovini" percorremmo una cengia strettissima a grandi balzi incuranti del baratro sottostante. Purtroppo non godemmo nemmeno di un momento della soddisfazione di essere arrivati alla fine della via, mannaggia al socio e alla sua ansia, visto che nel tragitto delle calate ci trovammo poi in coda come alla posta.
Cominciai la discesa con uno dei moschettoni che era era incastrato attorno all'anello dell'imbrago. Uno dei polacchi me lo fece notare anche se in quel caso non era particolarmente grave ma comunque bontà sua. Nell'ignoranza seguii Paolo e insieme ci calammo direttamente nel fondo del camino e non alla catena di calata successiva che si veniva a trovare spostata al centro della parete sopra una strettissima balaustra. Allegria: vai con un nuovo e divertente traverso esposto su roccia lucidata al punto da potercisi specchiare e fare la barba prima di una nuova calata da 60 m direttamente al limite delle corde. Mi domando chi sia quel genio, quel fottuto genio (!!!!) che ha pensato di ficcare gli anelli là in mezzo, lui e le sue paturnie di incagliamenti e boiate varie! 
Allungammo il passo sia perché ormai cominciava a sopraggiungere la sera, sia perché piovevano sassi come nelle Dieci Piaghe d'Egitto e così via per altre calate due calate lungo la parete sud. Ad un certo punto gli altri tre compagni presero una sorta di traccia che si avviava verso il versante ovest, tagliando lungo una cengia la parete sud fino ad altre tre calate verticali che avevano la peculiarità di svolgersi su vecchi chiodi e cordoni lasciati da scalatori disperati (in una sosta un chiodo era saltato). Nessuno ebbe la voglia di tornare indietro a prendere la retta via, visto che in basso si intravedeva la terra definitivamente orizzontale e così giù fino al ghiaione che il buio sopraggiungeva. Con un ultimo strappo arrivammo finiti alla macchina. Erano le 21,30.
I bergamaschi non li rividi mai più, né seppi più nulla in seguito.
Alle 2,30 ero a casa.



lato sud delle Tre Cime di Lavaredo
Le Tre Cime dal Rifugio Auronzo al mattino presto.

panorama verso i Cadini e le Marmarole
Panorama verso i Cadini e le Marmarole.

Tre Cime di Lavaredo
Una delle vedute più famose al mondo. Lo spigolo Dibona è al centro e punta dritto alla vetta.

inizio dello Spigolo Dibona
Lungo le prime lunghezze.

Spigolo Dibona alla Grande di Lavaredo
La parte alta dello spigolo che va seguito un po' a sinistra.

Spigolo Dibona alla Grande di Lavaredo
Salendo nel tratto intermedio.

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sabato 22 febbraio 2020

BEETHOVEN - Horn Sonata Op.17

BEETHOVEN

Horn Sonata op. 17


La Sonata per pianoforte e corno op.17 di L. Van Beethoven è stata la prima composizione per pianoforte e corno mai scritta ed eseguita dall'allora grande virtuoso del corno Giovanni Punto (pseudonimo di Jan Vaclav Stich) nell'anno 1800, assieme al compositore al piano. La composizione ricevette immediatamente un grande successo tanto che dovettero rieseguirla come bis.
Questa sonata, solo apparentemente semplice e di gusto classico (ossia scritta con economia di scrittura, simmetrie tra le varie sezioni, preferenza di una disposizione verticale ed armonica delle parti rispetto ad una orizzontale e contrappuntistica), è un pezzo sperimentale e decisamente innovativo se confrontato con la musica circolante all'epoca.
Tanto per cominciare la sonata si articola nei canonici tre movimenti, quindi in una forma derivata dal Concerto per solista e orchestra (quella derivata dalla sinfonia si articola in quattro), e sono:
- Allegro moderato
- Poco adagio, quasi andante
- Rondò, allegro moderato

Le proporzioni dei tre movimenti fanno assomigliare la sonata ad un concerto, infatti il primo lungo e complesso movimento, come durata e quantità di materiale usato, può contenere gli altri due movimenti. La parte preponderante è del pianoforte a cui è assegnata una scrittura virtuosistica e ricca di effetti che imita l'orchestra mentre il corno esegue degli incisivi interventi in tutta la sua estensione (almeno l'estensione di allora). Lo strumento per cui fu scritta la sonata era un corno naturale costituito da un tubo ritorto in cui il cornista gestiva i suoni con la bocca e con la mano, per questo i passaggi rapidi in arpeggio, che oggi sono relativamente semplificati dalla meccanica a pistoni, o l'esecuzione del tono minore, richiedevano grande bravura al cornista.
Il materiale tematico utilizzato è strettamente imparentato tanto che la sonata assume un aspetto ciclico, come nella più celebre e di poco precedente Sonata op. 13 per pianoforte "Pathetique"(1799), anzi, similmente a quest'ultima, la sonata per corno presenta un tempo in forma-sonata tri-tematico, fatto inusuale per l'epoca e per la sonata in generale. Differentemente dalla Patetica però, in cui ogni tema ha un suo carattere ben riconoscibile grazie a degli atteggiamenti caratteristici (il Grave dell'inizio, la scala di appoggiature del secondo tema, la melodia coi mordenti del terzo tema), nella Sonata per corno e pianoforte tutto è molto più uniforme e amalgamato a formare delle grandi aree tematiche piuttosto che dei singoli episodi.

I MOVIMENTO: Allegro Moderato


Il primo movimento Allegro Moderato è in Fa maggiore e in 4/4 e comincia con un inciso del corno solo che salta su un intervallo di quinta Do-Fa assai caratteristico, seguito da un arpeggio discendente che ne copre (del corno naturale) tutta l'estensione. Questo breve inciso è la proposta, 2 battute totali (levare dell'ultimo quarto seguito da una battuta e mezza), seguita dalla risposta negativa del pianoforte di totali 8 battute, sempre in Fa maggiore, che espone la seconda parte del lungo tema, ornati da mordenti e abbellimenti vari ancora di gusto settecentesco. 

Corno + risposta

Abbellimenti e ritorno del corno


Alla battuta 11 viene ripetuto l'inciso del corno raddoppiato questa volta dal pianoforte e la lunga risposta negativa è riproposta dal corno accompagnato da arpeggi del pianoforte. Tutto questo forma il Primo Tema, o la prima area tematica.
Alla battuta 21 inizia un breve Ponte Modulante composto da due proposte del pianoforte seguite da due risposte del corno, entrambe negative, che portano nel giro di 10 battute alla conclusione in dominante, Do maggiore.

Conclusione in dominante

All'ultimo quarto di battuta 30, dopo una breve sospensione, inizia il Secondo Tema che è esposto dal corno sopra degli accordi del pianoforte, il cui ritmo richiama la proposta iniziale. 

Il secondo tema nel minore.

E' difficile collocare questo tema nell'ambito della sonata classica in quanto non corrisponde ad alcuno schema già codificato in precedenza: di norma il secondo tema si svolge interamente sulla dominante, nel caso di una tonalità maggiore, o al relativo maggiore nel caso di una tonalità minore; in questo momento Beethoven parte da Do maggiore e si sposta improvvisamente al suo terzo grado della scala, il Mi minore, modulazione molto rara. La proposta è di 5 battute totali e segue una risposta positiva in cui il motivo è riproposto dal pianoforte con alcuni piccoli interventi del corno su nota ribattuta. Il carattere del tema è opposto a quello dell'area tematica precedente, calmo, di scrittura armonica e verticale. Dopo 12 battute una breve cadenza Do7-Fa (IV di Do maggiore)-Sol, in cui viene rievocata la conclusione della risposta del primo tema, porta velocemente all'area tematica successiva.

Il Terzo Tema riprende il carattere concitato (btt. 46 e seguenti) del primo e presenta un disegno virtuosistico di ottave spezzate al pianoforte che imita un ff orchestrale. Esso è costituito da una prima progressione in cui il corno marca le note principali della melodia mentre il pianoforte fiorisce e completa l'armonia. 

Terzo tema

Alla battuta 50, dopo una conclusione al Do maggiore, i ruoli si invertono e il tutto si conclude con una rapida cascata di accordi alternati del pianoforte che si interrompe improvvisamente (btt 54-55). 

Risposta all'intenzione precedente

Segue un breve botta e risposta di 2 battute tra pianoforte e corno in pp di cadenza sulla tonica (IV+-V7-I). La cascata di accordi viene ripetuta come anche lo scambio in pp e a battuta 62 inizia la lunga coda in Do maggiore che richiama la figurazione puntata del tema. 

Breve interruzione con dinamiche contrastanti

Dopo una proposta ed una risposta appena variata di 4 battute ciascuna la coda termina con una figurazione virtuosistica di entrambi gli strumenti: un disegno rapidissimo del pianoforte contro le fortissime note acute del corno. Ritornello.

Conclusione esposizione


Sull'ultimo quarto di battuta 74, dopo il segno di ritornello, inizia lo Sviluppo. Esso riprende al pianoforte il noto inciso del corno e poi fa seguire il Secondo tema, questa volta in Do minore, tonalità drammatica per eccellenza per Beethoven, che modula rapidamente a La bemolle maggiore, inizio di una lunga progressione in tipico stile beethoveniano. 

Incipit esposizione

La breve discesa dell'inciso iniziale del corno viene da questo ripetuta cinque volte mentre il pianoforte fiorisce con accordi spezzati su un disegno di grande virtuosismo prima della conclusione sul Fa maggiore tramite una sesta eccedente (battuta 93). 

La progressione

La progressione non si esaurisce ma continua con un nuovo disegno in p tra il pianoforte e il corno che alterna uno sviluppo di materiale tratto dal ponte modulante. 

Proseguimento episodio

Alla battuta 101 inizia il lungo pedale di dominante preparazione alla ripresa, sempre su fioriture virtuosistiche del pianoforte, mentre il corno si limita a marcare il Do, la dominante di Fa maggiore.

Parte del pedale di dominante

Alla battuta 111 rientra il primo tema e segna l'inizio della Ripresa. La proposta del corno ha la testa mutata con le terzine e non più col ritmo puntato e la discesa è imitata dal pianoforte. La risposta del solo pianoforte è tronca, priva della discesa coi mordenti mentre a battuta 106 ricomincia immediatamente la riproposizione del tema al corno sopra gli arpeggi del pianoforte. Alla battuta 113 segue nuovamente il ponte modulante con il dialogo tra corno e pianoforte e portato a Do maggiore tramite una breve cadenza del pianoforte (btt. 117-118). Il secondo tema ricomincia da Fa maggiore, tonalità di impianto, come da forma sonata classica e si sposta sul terzo grado, La minore. Dopo la ripetizione del secondo tema e la medesima conclusione dell'esposizione entra nuovamente il terzo tema , anch'esso in Fa maggiore, riproponendo completamente tutta la parte esposta in precedenza. A battuta 155 comincia la coda, definitiva questa volta, che ripete trasportate in Fa maggiore, le medesime battute di dialogo tra corno e pianoforte dell'esposizione a cui segue però una lunga cadenza del corno, virtuosistica, sugli arpeggi di Fa maggiore, inframezzati dagli interventi del pianoforte, culmine di tutto il movimento, poi esso si conclude.

La difficile cadenza finale del movimento

II MOVIMENTO: Poco adagio


Il secondo movimento, Poco Adagio, Quasi Andante è di fatto un intermezzo di sospensione tra i due movimenti concitati che lo attorniano. Esso è in Fa minore, in 2/4, e riprende, tramite il ritmo puntato dell'inizio, l'incipit della sonata, mentre con l'intervallo di terza minore Fa-Lab richiama il terzo tema del movimento precedente, dando così l'impressione che il discorso esposto in precedenza stia continuando.
Alla proposta del corno, in p, accompagnata da semplici accordi del pianoforte, segue una risposta negativa del pianoforte, che cambia armonia e imita il disegno appena presentato. Questo passaggio, acuto e piano, richiedeva particolare bravura al cornista col corno naturale. Ancora oggi, anche con la meccanica a pistoni, il passaggio mette a nudo il solista che deve intonare il passaggio con delicatezza. 

Inizio del movimento

Dopo le prime 4 battute (levare compreso) il corno riprende l'iniziativa variando leggermente la sua proposta insistendo su La bemolle mentre gli accordi del pianoforte modulano a Mi bemolle minore per un totale di altre 4 battute. Inizia a questo punto una sorta di breve sviluppo di altre 4 battute in cui il tema viene riesposto in Mi bemolle minore fino al suo culmine sul Si bemolle minore (effetto modale) prima della modulazione che porta a Do maggiore. 

Piccolo sviluppo

Seguono 4 battute di pedale di Do maggiore ed una breve cadenza del pianoforte di sospensione prima che attacchi subito il movimento seguente.

Fine del movimento con pedale di dominante e cadenza

III MOVIMENTO: Rondò, Allegro Moderato



Il terzo movimento è un Rondò, Allegro moderato in Fa maggiore e in 2/2. Il tema del ritornello, esposto dal pianoforte, è ricavato unendo la testa del primo inciso della sonata, senza il ritmo puntato, alla discesa di mordenti della risposta del pianoforte. 

Tema del Rondò

Dopo 4 battute di proposta, il tema è ripetuto dal corno che con altre quattro battute conclude la breve esposizione. Seguono tre battute di intermezzo in cui il corno propone un breve inciso a cui segue una risposta di fioritura del pianoforte e il tema viene rieseguito dal corno una terza volta prima dell'inizio del primo episodio.
La struttura di questo Rondò è abbastanza articolata e può essere schematizzata come:
A (esposizione) - B (episodio I) - A' (ritornello variato) - C (episodio II) - A'' - D (pedale di dominante e cadenza) - Coda.
L'episodio 1 inizia nell'ultimo quarto di battuta 17 (incluso il levare iniziale) come da ritmo, ed introduce un piccolo tema del corno in risposta al breve dialogo del tema in cui il ribattuto del La, sia al corno che al pianoforte, riecheggia sia il secondo tema del primo movimento che il breve adagio.
 

Conclusione tema e inizio episodio 1.


Dopo 8 battute un pedale di Sol, dominante di Do, porta al culmine, una scala roboante di terzine in cui al basso ricompare il ritmo puntato sull'intervallo di quarta dell'incipit della sonata. 

Pedale sulla dominante secondaria

Alla battuta 51 inizia nuovamente un breve dialogo tra il corno e il pianoforte sempre su pedale di Sol che alla sesta battuta conclude in Do. Dopo un breve canone tra corno e pianoforte e una battuta di cadenza inizia il pedale di dominante di 7 battute che porta al Ritornello.
A' è il tema conduttore del Rondò che qui si presenta nuovamente tre volte come da esposizione: le prime due esso è invariato mentre la terza volta al pianoforte esso è arricchito di ottave spezzate alla tastiera, elemento virtuosistico.
Alla battuta 62 inizia l'episodio 2, lungo, complesso e articolato e soprattutto in Re minore. Il tema, ancora una volta costruito con frammenti del tema del ritornello, occupa le prime 8 battute divise in 4 di proposta e 4 di risposta, affidate al corno mentre il pianoforte accompagna con le terzine e col basso. 

Inizio episodio nel minore

A questo seguono altre 8 battute di risposta in cui il pianoforte riespone il tema appena espresso dal corno prima che il corno introduca una nuova melodia che sviluppa in altrettante 8 battute gli spunti forniti dal tema in minore prima della conclusione affermativa in Re minore V-I. Come in precedenza anche adesso il pianoforte riesegue come risposta affermativa la sequenza avanzata dal corno e l'episodio si conclude. A battuta 92 inizia un breve ponte in cui da Re minore ci si porta gradualmente a Fa maggiore, prima attraverso brevi fioriture del pianoforte, poi attraverso una breve sequenza del corno che si muove con piccole scale all'interno di una settima.

Breve dialogo sulla dominante

A battuta 101 c'è il Ritornello, A'', con nuove fioriture alla parte pianistica, in cui di nuovo il tema è ripetuto per tre volte.
Alla conclusione, battuta 116, comincia la sezione D: un lungo pedale di dominante, Do, che viene continuamente marcato dal corno mentre il pianoforte fiorisce sia con arpeggi di terzine che con accordi di appoggio al Do, fino al culmine di battuta 126 in cui ancora ritorna la lunga scala discendente del piano unita al ff del corno, escamotage che richiama anche l'episodio 1 del Rondò. 

Il lungo pedale di do del corno

Da battuta 130 a 137 il corno e il pianoforte iterano il disegno appena presentato con il primo che ripete l'inizio del tema ed il secondo che continua nelle scale discendenti di terzine fino ad una improvvisa sospensione in cui entrambi suonano una settima di dominante di Si bemolle (IV di Fa maggiore), prima ff e poi subito pp (tipico crescendo beethoveniano che s'interrompe) prima della grande cadenza.

La sospensione e l'attacco della cadenza del corno

Essa è il punto culminante di tutta la sonata in cui entrambi gli strumenti esprimono appieno le loro doti sonore (btt. 138-146): il pianoforte ripropone insistentemente la testa del tema mentre il corno esegue dei rapidi arpeggi ed alla fine 4 battute di bravura del pianista. 

Slancio conclusivo

A questa cadenza seguono 15 battute di coda in Fa maggiore (btt. 146-160) in cui corno e pianoforte dialogano un'ultima volta (ritorna nel corno una citazione del tema in Re minore, questa volta in Fa maggiore) e alla fine, lenti e in p ripropongono per l'ultima volta il Ritornello.
Alla conclusione del tema, a sorpresa attacca l'Allegro molto, una coda di 6 battute di V-I con un fiorito dialogo tra corno e pianoforte che porta agli accordi finali in Fa maggiore, fine della composizione.

Ultima sopresa

Bibliografia


ENGLISH VERSION



The Sonata for piano and horn op.17 by L. Van Beethoven was the first composition for piano and horn ever written and performed by the great virtuoso of the horn Giovanni Punto (pseudonym of Jan Vaclav Stich) in the year 1800, together with the composer at the piano. The composition immediately received great success, so much so that they had to perform it again as an encore.
This sonata, only apparently simple and of classic taste (i.e. written with economy of writing, symmetries between the various sections, preference of a vertical and harmonic arrangement of the parts compared to a horizontal writing and counterpoint), is an experimental and decidedly innovative piece when compared with the circulating music at the time.
To begin with, the sonata is divided into three canonical movements, then in a form derived from the Concerto for soloist and orchestra (that derived from the symphony is divided into four), and they are:
- Allegro moderato
- Poco adagio, quasi andante
- Rondo, Allegro moderato

The proportions of the three movements make the sonata resemble a concert, in fact the first long and complex movement, such as duration and quantity of material used, can contain the other two movements. The preponderant part is of the piano to which a virtuoso and effect-rich writing is assigned which imitates the orchestra while the horn performs incisive interventions in all its extension (at least the extension of that time).
The instrument for which the sonata was written was a natural horn consisting of a twisted tube in which the horn player managed the sounds with his mouth and hand, for this reason the rapid passages in arpeggio, which today are relatively simplified by piston mechanics, or the execution of the minor tone, required great skill from the horn player. The thematic material used is closely related so that the sonata takes on a cyclical aspect, as in the more famous and slightly earlier Sonata op. 13 for piano "Pathetique" (1799), indeed, similarly to the latter, the horn sonata presents a tempo in tri-thematic sonata form, unusual for the time and for the sonata in general. Unlike the Pathetica, however, in which each theme has its own clearly recognizable character thanks to the characteristic attitudes (the Grave of the beginning, the scale of chords of the second theme, the melody with the mordants of the third theme), in the Sonata for horn and piano everything is much more uniform and amalgamated to form large thematic areas rather than individual episodes.

The first Allegro Moderato movement is in F major and in 4/4 and begins with an incision of the solo horn which jumps over a very characteristic fifth C-F interval, followed by a descending arpeggio that covers the entire natural horn extension. This short brief is the proposal, 2 bars in total (upbeat of the last quarter followed by a bar and a half), followed by the negative response of the piano of 8 bars, always in F major, which exposes the second part of the long theme, decorated from mordants and various embellishments still of eighteenth-century taste. At bar 11 the incision of the horn doubled this time by the piano is repeated and the long negative response is repeated by the horn accompanied by piano arpeggios. All this forms the First Theme, or the first thematic area.
At bar 21 begins a short Modulating Bridge made up of two piano proposals followed by two horn responses, both negative, which lead to the conclusion in dominant, C major within 10 bars.
At the last quarter of bar 30, after a short pause, the Second Theme begins which is exposed by the horn above the piano chords, whose rhythm recalls the initial proposal. It is difficult to place this theme in the classical sonata as it does not correspond to any previously coded scheme: normally the second theme takes place entirely on the dominant, in the case of a major key, or to the relative major in the case of a minor key; at this moment Beethoven starts from C major and suddenly moves to his third degree of the scale, E minor, very rare modulation. The proposal is 5 bars in total and follows a positive response in which the motif is re-proposed by the piano with some small interventions of the horn on a beaten note. The character of the theme is opposite to that of the previous thematic area, calm, of harmonic and vertical writing. After 12 bars a short C-Do7-F (IV of C major) -Sol, in which the conclusion of the answer of the first theme is recalled, quickly leads to the next thematic area.
The Third Theme takes up the excited character (btt. 46 and following) of the first and presents a virtuoso design of broken octaves on the piano that imitates an orchestral ff. It consists of a first progression in which the horn marks the main notes of the melody while the piano flourishes and completes the harmony. At bar 50, after a conclusion in C major, the roles are reversed and everything ends with a rapid cascade of alternating piano chords that suddenly stops (btt 54-55). A short 2-second hit and response follows between piano and horn in pp. Cadence on the tonic (IV + -V7-I). The cascade of chords is repeated as well as the exchange in pp and at bar 62 begins the long tail in C major which recalls the dotted figuration of the theme. After a proposal and a slightly varied response of 4 bars each, the tail ends with a virtuosic representation of both instruments: a very rapid drawing of the piano against the very strong acute notes of the horn. Refrain.
On the last quarter of bar 74, after the refrain, Development begins. It picks up on the piano the well-known incision of the horn and then follows the second theme, this time in C minor, the dramatic key par excellence for Beethoven, which quickly modulates to A flat major, the beginning of a long progression in typical Beethoven style. The brief descent of the initial incision of the horn is repeated by it five times while the piano flourishes with broken chords on a drawing of great virtuosity before the conclusion on the F major through a sixth excess (bar 93). The progression does not end but continues with a new design in p between the piano and the horn that alternates a development of material taken from the modulating bridge. At bar 101 begins the long pedal of dominant preparation for re-exposition, again on virtuosic blooms of the piano, while the horn is limited to marking the C, the dominant of F major.
At bar 111 the first theme falls and marks the beginning of the Re-exposition. The horn proposal has its head changed with the triplets and no longer with the pointed rhythm and the descent is imitated by the piano. The answer of the piano only is truncated, without the descent with the mordants while at bar 106 the reproposal of the theme immediately rests on the horn above the arpeggios of the piano. Bar 113 follows again the modulating bridge with the dialogue between horn and piano and brought to C major by a short cadence of the piano (btt. 117-118). The second theme starts again from F major, tonality of plant, as from classical sonata form and moves to the third degree, A minor. After the repetition of the second theme and the same conclusion of the exhibition, the third theme enters again, also in F major, completely proposing all the previously exposed part. At bar 155 the tail begins, definitive this time, which repeats transported in F major, the same bars of dialogue between horn and piano of the exhibition followed by a long virtuoso cadenza of the horn on the F major arpeggios, interspersed with piano interventions, culmination of the whole movement, then it ends.



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