GITE NOTTURNE
Fessura Franceschini al Dente del Rifugio
Alla fine dell'estate 2011 venne un periodo caldo, di alte temperature con elevato tasso di umidità, pareva di essere in Amazzonia, fuori l'aria era rovente e si poteva uscire fino alle 10 del mattino o dopo le 21,00.
Telefonai a Stefano con l'idea di prendere un po' di fresco in montagna e sfuggire alla canicola, tanto sapevo che non avrebbe detto di no ad un po' di movimento.
La sua prima risposta fu: "Vecio, andemo a Rocca Pendice! - Ma i ghe xe +40°?! - Massì provemo! Tanto semo all'ombra! - Nol me pare 'na gran idea...
Insomma dopo un po' di tira e molla riuscii a vincere la sua poderosa inerzia e negoziammo una gita in gironata, onde salvare la "capra" e i cavoli. Scelsi di andare giornata sulle Pale di San Martino come avevo fatto negli anni addietro col corso CAI. Il problema delle gite in giornata, per noi uomini di città, è che se la meta non si trova entro distanze gestibili col veicolo, il rischio di un bel bivacco aumenta notevolmente, ovviamente chi propone e scrive non si immagina di essere anche la causa del disastro. Decisi quindi per l'appuntamento alle 4,30.
Alle 4,00 il compare non si alzò, si girò malamente, mi inviò un messaggio e a me, il fanatico che si era pure alzato e preparato per la colazione, non restò che tornare a letto a fare finta di dormire maledicendo la sua stirpe.
Passarono alcuni giorni e non desistetti, continuando un lento e progressivo lavaaggio del cervello nei confronti del socio fino a convincerlo: decise, in accordo con me, che di caldo ne aveva abbastanza e quindi partimmo alla volta delle Pale. La meta era il Dente del Rifugio, piccola cima rocciosa sopra il Rifugio Treviso in Val Canali, per la fessura Franceschini.
La Fessura Franceschini è una bella via di circa 250 m; aperta nel 1947 da G. Franceschini e D. Palminteri che corre lungo una serie di crepe nel versante del monte, una classica della zona.
Arrivammo in perfetto orario in Val Canali e ci incamminammo verso il Rifugio Treviso a passo da gigante, dato che la vista del posto aveva infervorato il fedele scudiero e lo raggiungemmo in meno di un'ora, giusto il tempo per la birra del mattino, vista l'età avanzante.
L'entusiasmo era alle stelle, tantoché sbagliammo sentiero finendo imboccando quello che partiva sulla destra del rifugio con tanto di cartello (la colpa è sempre della guida o della segnaletica...!) che in breve ci portò sulla ferrata del Canalone.
Carichi di roba come i muli (eh la paranoia, ma anche la pregressa esperienza caiana), salimmo le roccette della ferrata assicurati ad un cavo metallico robusto come il filo elettrico di un'asciugacapelli e nuovo come i cavalli di frisia del 15-18, ma perlomeno ben teso. Passammo su una passerella costituita da un unico tronco di legno scricchiolante che attraversava una spaccatura nella roccia, issandoci sul "robusto" cordino a forza di braccia, oppressi come le anime del Purgatorio che trascinano i macigni delle loro colpe.
Giungemmo all'attacco già bolliti da clima umido e dalla fatica appena fatta quando si faceva già ora di pranzo. Dopo una titubanza iniziale decidemmo di attaccare ugualmente e partii lungo le rocce dello zoccolo mentre Stefano sarebbe salito portando lo zaino con tutta la roba (mai dire mai, l'occasione fa l'uomo ladro!). Arrivati al punto in cui la parete si impennava vidi spuntare dai mughi uno stremato Stefano, per cui gli cedetti il comando onde ringalluzzirlo e per dargli la soddisfazione di una bella fessura dai bordi levigati. Stefano si avviò su con slancio, come un tritasassi e dopo qualche usuale bestemmia passò la fenditura e raggiunse la "comodissima" sosta in una nicchia in cui forse ci stava un piede e venne quindi il mio turno di salire.
C'è bisogno di dire che lo zaino si incastrò sistematicamente in ogni punto della fessura e dovetti risalirla a forza di braccia lungo il bordo esterno, in strapiombo, bestemmiando di fatica più del solito?
Ovviamente no e una volta arrivato alla sosta incazzato come un toro per lo sforzo, fortunatamente appena rinforzata con fix anellati dalle guide (altrimenti sarebbe toccato assicurarsi al mazzo di chiodi piantato in un buco e baciare il santino di padre Pio), cedetti volentieri il resto del comando della via al socio che si sobbarcò felice le lunghezze successive, non troppo impegnative ma comunque atletiche, mentre il sottoscritto portava il fardello sul groppone, almeno così alleviavo la tensione della salita.
Ovviamente no e una volta arrivato alla sosta incazzato come un toro per lo sforzo, fortunatamente appena rinforzata con fix anellati dalle guide (altrimenti sarebbe toccato assicurarsi al mazzo di chiodi piantato in un buco e baciare il santino di padre Pio), cedetti volentieri il resto del comando della via al socio che si sobbarcò felice le lunghezze successive, non troppo impegnative ma comunque atletiche, mentre il sottoscritto portava il fardello sul groppone, almeno così alleviavo la tensione della salita.
Ad un certo punto, quando la via superava una lunghezza molto bella e caratteristica con un un doppio diedro, alle nostre spalle si sentì rombare un tuono e subito un muro di acqua cominciò ad avanzare sornione dalla Cima Canali, in quanto circondato ancora dai raggi del sole. Sulle prime non ci feci caso e rassicurai il compagno che non c'era da preoccuparsi, al massimo avremmo preso uno scroscio d'acqua di qualche minuto. Ovviamente non credevo ad una sola parola ma dovevo assolutamente incoraggiare il socio. Al termine del tiro fui prontamente smentito dall'incupirsi del cielo intorno a noi e dall'avanzamento più deciso del muro di acqua che ora lambiva la bassa Val Canali.
Al punto in cui eravamo potevamo solo sperare, quindi, inaspettatamente, Stefano mise il turbo spronandomi a fare presto perché "no go nessuna voja de torma l'acqua su sto cesso!"; avanti tutta e di corsa dunque!
Raggiungemmo una seconda nicchia presso uno spigolo quando la situazione divenne strana: il muro di acqua aveva avvolto la Cima dei Lastei ed ormai sferzava il fondo della Val Canali, sostanzialmente dove avevamo parcheggiato, mentre su di noi le nuvole si riaprirono e ricominciò battere il sole. La pioggia era a circa 500 metri in linea d'aria da noi quando, fortunatamente, il temporale girò e noi riuscimmo a raggiungere la vetta del Dente sani e salvi.
Dopo una meritata pausa passata a consumare le scorte di cibo e a rimirare il panorama ci avviammo verso la discesa per la via normale, una sorta di imbuto in cui bisognava buttare le corde doppie. Avevamo rallentato il ritmo della progressione, convinti che il peggio fosse passato e nel frattempo si fece sera. Cominciammo con la prima calata, effettuata sempre con le corde singole dell'anno precedente e portate appositamente per lo scopo perché ricordavo che essa fosse molto lunga, avendola già fatta col corso CAI anni prima.
Una delle cose brutte della crescita è che si comincia ad affidarsi ai ricordi, che come è noto sono fallaci, e se a ciò si unisce l'avarizia la ricetta del disastro è pronta. Come il lettore avrà già capito, le corde aggrovigliarono in maniera del tutto assurda, ancora peggio che sulle Torri del Vajolet e ciò richiese una mezz'ora per essere risolto, non potendo io, per ovvie ragioni, ricorrere alla soluzione "rapida" del nodo gordiano.
Alla seconda doppia, del tutto ignaro che dai tempi del CAI le calate erano state ri-attrezzate e accorciate in tratti corti da 25 metri, cosa che avrebbe permesso un impaccio notevolmente inferiore in tutta l'ascensione, le corde si mischiarono nuovamente in un'insalata persino peggiore della precedente. Dopo una ventina di minuti in cui non cavavo un ragno dal buco, uno spazientito Stefano scese fino a me, ovviamente con entrambi appesi alle stesse corde (non è mai una buona idea), per contribuire a sciogliere il nodo, fatto che ci portò via altri 40 minuti di lavoro in sospensione prima di raggiungere la base.
Arrivati a terra era ormai sopraggiunto il buio e ci incamminammo, questa volta lungo il sentiero giusto, utilizzando la luce dello schermo dei telefoni (allora gli smartphone con la torcia erano di là da venire) sguazzando tra le radici viscide di umidità e pioggia. Arrivammo al rifugio Treviso a notte fonda dove, fortunatamente e malgrado l'ora, il gestore ci diede impietosito un tagliere di salumi ed una pila frontale per tornare a casa. Il ritorno nel buio fu distensivo e allegro.
Alle 2,30 della notte eravamo finalmente alla dimora dopo una lunga giornata.
Alla seconda doppia, del tutto ignaro che dai tempi del CAI le calate erano state ri-attrezzate e accorciate in tratti corti da 25 metri, cosa che avrebbe permesso un impaccio notevolmente inferiore in tutta l'ascensione, le corde si mischiarono nuovamente in un'insalata persino peggiore della precedente. Dopo una ventina di minuti in cui non cavavo un ragno dal buco, uno spazientito Stefano scese fino a me, ovviamente con entrambi appesi alle stesse corde (non è mai una buona idea), per contribuire a sciogliere il nodo, fatto che ci portò via altri 40 minuti di lavoro in sospensione prima di raggiungere la base.
Arrivati a terra era ormai sopraggiunto il buio e ci incamminammo, questa volta lungo il sentiero giusto, utilizzando la luce dello schermo dei telefoni (allora gli smartphone con la torcia erano di là da venire) sguazzando tra le radici viscide di umidità e pioggia. Arrivammo al rifugio Treviso a notte fonda dove, fortunatamente e malgrado l'ora, il gestore ci diede impietosito un tagliere di salumi ed una pila frontale per tornare a casa. Il ritorno nel buio fu distensivo e allegro.
Alle 2,30 della notte eravamo finalmente alla dimora dopo una lunga giornata.
La Val Canali di primo mattino.
Il Dente del Rifugio con visibile, a sinistra nei grigi, la fessura.
La fessura, tratto chiave e caratteristico della via.
In arrampicata lungo la fessura.
Si forma il temporale.
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