NOSTALGIA DEI ROSSI TRAMONTI
La via era (ed è tutt'ora) corta!
La via era abbandonata, con chiodi artigianali tratti dagli scaffali e cordini che prima erano i lacci delle scarpe!
La roccia faceva pure un po' schifetto e la base della via aveva un muro di rovi!
La via era però a 5 minuti dalla macchina, strascicando i piedi sotto il carico.
Rimaneva una domanda: perché diavolo mettere le mani su un cesso del genere?
Eh, tornare agli entusiasmi infantili regala un sorso di giovinezza...!
L'idea iniziale di vedere come era messa questa via è stata mia, forse perché Giovanni l'aveva percorsa in solitaria anni prima, forse perché il nome poetico mi aveva ispirato e, sicuramente, perché era comoda. Il Bocia accettò subito la proposta e la sostenne sempre con energia, probabilmente i rossi tramonti lo avevano conquistato nel cuore, sempre ovviamente ignorando quel che davvero lo aspettava.
La via Nostalgia dei Rossi Tramonti (vedi pagine Valsugana e Aperture e Restauri) venne aperta in più riprese da Daniele Lira, in solitaria, nel 1984, lungo il tratto più strapiombante della Parete Fredda, una piccola falesia sita sopra l'abitato di Tezze in Valsugana, ben visibile anche dalla statale.
La prima volta ci trovammo alla base della parete in tre: io, il Bocia e l'accademico Franco Sartori, che inizialmente condivise l'idea di richiodare la sfortunata realizzazione del Lira. Ci avviammo alla base della parete come di consueto, carichi come i muli con fix, staffe, cordame, trapano, ecc. Demmo il nostro tributo ai rovi battendo una traccia per entrare nella grotta alla base del muro e ci fermammo a fissare il soffitto dell'incavo.
Fu una vista desolante: il primo chiodo era alto e bisognava cacciare la mano in un buco melmoso e probabilmente abitato, poi seguivano dei chiodi normali avanzati dalla crocefissione del Nazareno e piantati in una crepa di roccia biancastra ammuffita e poi la riga di chiodi a pressione artigianali e costituiti da una vite, che di vita forse ne serbava un vago ricordo, che stringeva una piastrina tagliuzzata da qualche avanzo mi fonderia; il tutto era rigorosamente coperto da uno spesso strato di ruggine. Dai chiodi a pressione, forse bontà di qualche ripetitore, pendevano dei cordini nuovi che sembravano una beffa come il mettere la porta di ferro dopo il furto dei gioielli.
Malgrado la sensazione di fatica che ci pervase tutti, belli e brutti, Franco partì a petto in fuori attaccando la placca liscia addolcendola subito con un bel chiodo a pressione di sua fabbricazione. Passò quindi ad una clessidra larga come una matita e passata con uno di quei "lacci da scarpe" che ho citato in precedenza: nessun problema, altro chiodo a pressione! Continuò con questo lavoro in posizione sempre più estenuante a causa della distanza degli ancoraggi e del fatto che il soffitto era completamente orizzontale, fino al bordo del tetto.
Da questo punto in poi poteva cominciare a tirare un sospiro di sollievo perché finalmente avrebbe potuto cominciare a salire in verticale poggiandosi sulla roccia. Franco cominciò allora a procedere in avanti lungo la parete, mollando giù di tanto in tanto qualche mattonella instabile (come se il resto fosse stato solido) e arrestandosi in alcuni momenti a causa di buchi nella chiodatura.
L'apritore della via aveva usato alcuni chiodi normali che in seguito furono rimossi, in quanto non proprio economici come la spazzatura che aveva ficcato dentro fino a quel punto, così sulla via erano rimasti dei passi in libera oppure da chiodare pregando che la lastra dietro cui venivano infissi non decidesse di fare sciopero proprio quel giorno.
Franco non ebbe pietà: chiodi a pressione, un po' distanziati ma presenti, e via, fino alla sosta appesa sotto il secondo tetto.
Lo raggiungemmo, io procedetti in coda e recuperai tutto il materiale, tolsi ancora qualche scaglia rotta su cui inevitabilmente andavano a finire i piedi. Dovetti ammettere che malgrado le apparenze la parte in placca e il tratto orizzontale del tetto avevano il loro perché: un gesto atletico e ragionato e ogni metro faticosamente e lentamente conquistato. Non fosse stato che per fare il tetto decisi di fare un esperimento e di utilizzare il mio secchiello (il freno meccanico) con un cordino troppo sottile: dovetti fare il tiro letteralmente con una mano sola, l'opposta al braccio del "single", con grande gioia degli addominali!
Ora che arrivammo alla fine del tratto il giorno già se n'era andato e non restò altro da fare che buttare le doppie per rientrare alla base. La fatica era stata molta, la giornata fu molto calda ma fu una bella soddisfazione e il lavoro stava assumendo il carattere di un'opera pia. Il grosso era fatto, ci dicevamo...si, dicevamo!
Era il 22 Maggio 2017.
Non tanto tempo dopo io e il Bocia tornammo sulla parete in un momento imprecisato, per provare ad andare avanti col lavoro di chiodatura ma il caldo, la ripetizione del tetto, la mia carenza di energie e da ultimo il fatto che rimasi incastrato a qualche centimetro da terra impossibilitato a muovermi per un errore banale, fecero si che rinunciassimo e demandassimo a tempi migliori. Era la disorganizzazione più totale, una lezione buona per i tentativi successivi.
Si accavallarono impegni e progetti più stimolanti e io mi impuntai che la Nostalgia dovesse essere demandata a giornate con brutto tempo o come riserva, perché andarci a infognare sulla Parete Fredda con il clima caldo e ottimo delle belle stagioni e per di più su una via già aperta, avrebbe voluto dire farci ridere dietro anche dalle galline.
Passò più di un anno e arrivammo a tempi più prossimi, il 2018, anzi il giorno 11 Novembre, quando io e il Bocia decidemmo di fare una seconda puntata alla via. Questa volta, molto più furbescamente, decidemmo di saltare il tetto della grotta servendoci di un'asta allungabile per passare la corda direttamente nel fix a bordo tetto e da lì scalare la placca verticale fino alla prima sosta, recuperare i sacchi e poi proseguire.
Dopo qualche tentativo da parte di un Rossi che fantozzianamente cercò di attaccare il moschettone con la corda tramite un'asta sottile come un fuscello, che si piegava ondeggiando fastidiosamente, di un Bocia che risalì in modo elefantesco la povera corda faticosamente fissata, finalmente qualcosa si mosse e ben presto il partner arrivò alla tanto agognata sosta appesa sotto il secondo tetto.
Venne il mio turno di salita e grazie alla bontà del socio che lasciò una serie di staffe appese sotto il soffitto, riuscii a guadagnare i chiodi e a raggiungerlo non senza un notevole sforzo. Fortunatamente il compare era muscoloso abbastanza da occuparsi del recupero del fardello pieno del materiale di scalata in autonomia.
Il Bocia era più fresco di me quindi si fece carico del trapano e dei fix e cominciò l'opera di sostituzione della spazzatura consunta che sporgeva dal tetto: si distese gaio e tripudio in orizzontale per trapanare il foro, poi cominciò a diventare più serio e determinato nell'opera di battitura dell'ancoraggio per assumere infine la posa dell'eroe che lotta contro i demoni durante il proseguimento.
Restai appeso alla sosta sotto al tetto per un tempo indefinibile, ascoltando i suoni della battaglia titanica che si andava consumando sopra la mia testa, unita ad una certa quantità di detriti che volava giù oltre il soffitto, fino a quando giunse il tanto sospirato richiamo: "molla tutto e vieni!".
Chiodo, staffa, staffa e chiodo e su, con grande fatica superai il tetto e cominciai la risalita della placca successiva che il socio aveva disgaggiato adeguatamente. Arrivai alla sosta che ormai cominciava a far buio (era Novembre), umido e abbastanza freschetto.
Guardammo il tiro successivo: la via aveva questa caratteristica, ossia man mano che si saliva l'attrezzatura peggiorava sempre di più e lasciava presagire che oltre il primo tiro ben pochi fossero saliti, forse sul terzo eravamo addirittura i primi ripetitori.
Poche ciance e giù le doppie per tornare a terra, questa volta il davvero grosso del lavoro era stato fatto e alla puntata successiva saremmo venuti ancora più accorti per risparmiare tempo e portare a termine l'opera.
La volta successiva non tardò ad arrivare e il 9 Dicembre, con un tiepido sole, io e il Bocia fummo nuovamente alla base della via.
Iterammo lo stesso procedimento della volta scorsa: asta, fissaggio della corda al chiodo esterno, recupero, con la variante che questa volta il socio sarebbe salito oltre la prima sosta srotolando tutta la corda e così riducendo i tempi. La sua salita andò liscia e io potei sperimentare un metodo di risalita della corda speleologico con la maniglia jumar in alto e un bloccante ventrale, che mi avrebbe assicurato una risalita veloce e poco faticosa.
L'esperimento funzionò così bene che rimasi immediatamente bloccato, appeso come un cretino, dopo i primi 10 centimetri, impossibilitato a muovermi! In quel momento si palesarono solo due opzioni: tagliare la corda, che non era mia (!!) ma che mi sarebbe toccato rifondere per giustizia, oppure tentare di innalzarmi a forza di braccia sulla corda per poter sganciare il ventrale incastrato.
Dopo un'ora di tentativi e di bestemmie quasi poetiche la seconda operazione mi riuscii e potei riappoggiare i piedi per terra.
Il problema risiedeva nella corda troppo molle sotto di me che veniva trascinata dal bloccante ventrale e che non riusciva a scorrere bene; la soluzione mi venne come un'illuminazione lungo la via di Damasco e appesi lo zaino al capo scarico della corda e in pochi minuti di dondolamenti nel vuoto raggiunsi il Bocia che cominciava a perdere fiducia nell'umanità.
Provai io questa volta, ancora coi muscoli caldi per la risalita, ad andare avanti e mi avventurai lungo la terza lunghezza su chiodi precari e facendo una fatica bestiale a brandire il trapano, che invece era giusto per il braccio del mio partner. Arrivai sotto il terzo tetto sostituendo tutti i mucchietti di ruggine che un tempo furono stati chiodi e quindi cedetti il posto molto volentieri al compagno perché altrimenti un bivacco non ce lo avrebbe cavato nemmeno Caifa.
Dopo le manovre di rito il Bocia si ritrovò alla posizione che occupavo precedentemente e superò agevolmente il tetto arrivando allo spigolo della parete quando giunse: "Vecio, la via xe finìa chi! Nol vedo pi ciodi! - Varda ben sulla destra, dovarìa esserghe dei ciodi pi a destra verso il pilastro che sae fino in zima. - No Vecio, ea xe porpi finìa!".
Che inchiappettata! Tutta questa fatica per una quindicina di metri che finivano su un terrazzo erboso nel nulla! Probabilmente Daniele Lira, stufo di perforare a mano e vedendo che l'impresa sarebbe stata ancora lunga, girò semplicemente a sinistra a una terrazza erbosa e quivi si apprestò a scendere. Il tiro appena fatto aveva infatti l'aria di non essere mai stato ripetuto, tanto era ridotta male la chiodatura.
Bene, il fedele socio approntò una sosta di calata all'ultimo chiodo e mi raggiunse nuovamente alla sosta e insieme ci calammo fino a terra. Io partii per primo e lui mi seguì immediatamente dopo. Mancava però l'ultima vendetta della Parete Fredda perché egli strinse il nodo bloccante della calata in corda doppia talmente tanto che, giunto nel vuoto ad una decina di metri da terra, rimase completamente bloccato, appeso come un salame.
Approfittai, da persona adorabile che sono, di andare a prendere il coltello che avevo lasciato in macchina, comodo e rilassato, facendo finta di partire e tornare a casa, mentre intanto piovevano maledizioni.
Alla fine della vicenda sopraggiunse anche una guida alpina, che era venuta a vedere la possibilità di aprire una falesia di dry tooling nella grotta e che si complimentò con noi per aver resuscitato il cadavere dopo un così duro lavoro!
Franco che chioda il grande tetto
Sempre lungo il grande tetto
Lungo la parete verticale
Recupero del sacco durante l'ultimo tentativo
Lungo il terzo tiro di corda
Ultimo tetto, la via finisce alla pianta qualche metro sopra
Io durante l'intrepida risalita.
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