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lunedì 10 maggio 2021

BEETHOVEN - Sonata n. 8 op.13 "Pathetìque"

 BEETHOVEN

Sonata n. 8 op.13 "Pathetìque"


La sonata op. 13 Pathétique è una delle più famose composizioni per pianoforte di L. van Beethoven. Essa è articolata in tre movimenti, diversamente dalle prime sonate di Beethoven di derivazione sinfonica articolate in quattro movimenti (Allegro-Adagio-Scherzo-Finale), più vicina alla forma mozartiana che trae la sonata per pianoforte dal concerto. Il primo movimento è in forma-sonata, il secondo è in forma di romanza e il terzo in forma di Rondò.

La forma-sonata, definita tale nel XIX secolo da A.B. Marx, è una forma strumentale nata nel XVIII secolo costruita attorno a due temi di carattere contrastante ed articolata in alcuni episodi: “esposizione”, ossia la presentazione dei due temi legati da un ponte modulante (essi sono in tonica e dominante se nel modo maggiore, in tonica e rispettivo maggiore se la sonata è in tonalità minore), lo “sviluppo” in cui il compositore riprende alcune idee dei temi e costruisce una sorta di divagazione su di essi e la “ripresa”, in cui i due temi ritornano entrambi sulla tonalità di impianto, talvolta leggermente variati.

La Romanza è una forma che si articola in tre episodi, similmente alla forma-sonata, ossia esposizione, sviluppo e ripresa ma è costruita attorno ad un solo tema e non sempre l’episodio di sviluppo, o che si può chiamare semplicemente ‘B’, è costruito attorno ad idee del tema, talvolta funge da vero e proprio ‘intermezzo’ in cui si propone materiale nuovo rispetto al tema della romanza (accade in alcune Romanze senza parole di F. Mendelssohn).

Il Rondò è una forma ciclica guidata da un unico tema in sé concluso che ritorna più volte nel corso del brano e che delimita diversi episodi di vario carattere. In Mozart il Rondò è spesso trattato come Rondò-sonata, dalla struttura piuttosto complessa e con la presenza di due o tre temi, in Beethoven il Rondò mantiene le sue caratteristiche originali pur avendo la ricorrenza di alcune parti.

Se inserita nel contesto del tardo classicismo, in quella fase transitoria che vede la trasformazione dall’Illuminismo al Romanticismo attraverso la Rivoluzione Francese e le Guerre Napoleoniche, la sonata Pathétique è di sicuro un pezzo sperimentale che abbandona il contegno e l’eleganza della musica che l’ha preceduta, anche nello stesso repertorio beethoveniano e propone una comunicazione decisamente più aggressiva ed esteriore visti i rapidi cambiamenti in atto.

I MOVIMENTO     

Grave - Allegro molto e con brio

Secondo molti storici, critici e musicisti il “Grave” che per tre volte compare nel corso del movimento è un intermezzo che separa gli episodi del movimento in forma-sonata; un esempio di questa procedura lo si trova in M. Clementi, nella sonata op.34 che comincia appunto con un Largo che ritorna poi nella ripresa. Beethoven fa precedere il movimento in forma sonata vero e proprio da una lunga introduzione che costituisce una sorta di “anacrusi” alla fase successiva. I successivi due rientri del Grave nel corso del movimento, soprattutto quello posto prima dell’inizio dello sviluppo, hanno la medesima funzione.

Io penso che il Grave iniziale sia un vero e proprio primo tema che contrasta nettamente col resto del movimento successivo. Così facendo la sonata diventa a tutti gli effetti tri-tematica e cerca di superare la forma a due temi usata e abusata fino ad allora. Lo stesso artificio viene portato avanti da Beethoven anche in altre opere come la Sonata per corno op.17; la sonata op. 31 n. 2 "Tempesta", e così via, affinando sempre di più la tecnica e portando i temi a diventare delle aree tematiche molto ricche di idee. Nel seguito sosterrò questa idea.

GRAVE: I Tema, in do minore, btt. 1-4. Tutto gravita attorno alla tonalità di impianto di do minore ed è caratterizzato dal ritmo puntato di lenta ed inesorabile marcia funebre: si può suddividere questo periodo in 1 battuta di proposta (Do min →Sol magg. Dominante), 1 battuta di risposta positiva (7° di sensibile→tonica) ed una breve zona di evoluzione di 2 battute con cadenza finale Sib maggiore→Mib maggiore.


incipit Beethoven Patetica
Il celebre incipit che già contiene i semi del primo e del terzo movimento. 
Infatti il Do-Re-Mib iniziale sono anche l'idea di partenza del II, del III Tema e del Rondò.


breve cadenza nell'introduzione
Breve cadenza per il passaggio al maggiore.



Segue quindi una Zona di sviluppo (btt. 5-8) che da Mi bemolle maggiore porta alla domimante di do minore, sol maggiore. E’ interessante notare come gli accordi dissonanti usati da Beethoven, come la settima diminuita, siano usati per prolungare la tensione di questo sviluppo che ha come meta finale la settima di dominante di Do minore. 



primo tema Patetica di Beethoven
Il tema ripreso in maggiore a cui segue poi una progressione alla dominante: sol maggiore


Tutto l’episodio è concluso da una lunga cadenza quasi ad improvvisazione che prepara l’Allegro seguente, in forma sonata vera e propria.


cadenza conclusiva all'introduzione della Patetica
Cadenza di sospensione alla dominante

Questo incipit è molto articolato e di per sé ha senso compiuto, quasi una piccola romanza inserita all'inizio del movimento in forma sonata ed ha la funzione di catalizzare l'attenzione su ciò che avverrà in seguito, vero cuore pulsante della composizione e di cui probabilmente il compositore andava orgoglioso, data la cura che dedica all'equilibrio della struttura.


ALLEGRO MOLTO E CON BRIO: contrasta nettamente col grave ma mantiene la stessa tonalità.


Esposizione: II Tema (btt. 11-27, in due mezzi) è caratterizzato da due brevi successioni di accordi rapidi e staccati in       salita, lunghi e sonori in discesa (proposta e risposta negativa) e conclusione in dominante. Questo tema, oltre che dalle appoggiature che alterano la scala di Do minore (mi-fa, sol-lab) è altresì caratterizzato da una sincope (bt. 13 e bt. 19) molto evidente che rende più concitata ed incalzante la proposta e riempie il vuoto che si verrebbe a creare nella ripetizione della cellula iniziale (btt 11-12). Il ritmo utilizzato per creare il tema è la seguente disposizione di accenti “- >” (considerando parte del tema l’ultima nota della cadenza del Grave, bt. 10). La conclusione del tema è sulla domimante raggiunta tramite un IV alterato.


inizio allegro con brio nella Patetica
Il II Tema che sfrutta il semitono apparso anche nei primissimi accordi del Grave.
Qui la semplice idea di una salita di semitono diventa la caratteristica dissonante della melodia.


L’episodio successivo è il Ponte modulante (btt. 27-50) i cui si sviluppano brevemente le idee appena espresse, ossia costruendo una progressione che gioca sugli intervalli di semitono esposti nel tema (fa#-sol, do-si) e conclusione in si bemolle maggiore, dominante di mi bemolle.

ponte modulante
Dettaglio del ponte modulante con la sospensione sulla dominante e lo sviluppo delle idee del I Tema



III Tema (btt- 51-88) in mi bemolle minore. Nella sonata canonica a minore risponde il relativo maggiore (come nella K457 di Mozart) ma in questo caso Beethoven vuole prolungare l’effetto drammatico e di tensione del modo minore, pertanto il secondo tema è in Mi bemolle minore. L’episodio di esposizione del II tema è lungo ed articolato: alle btt. 51-59 viene esposto il tema in Mib min. vero e proprio con proposta e risposta negativa, poi alle btt. 59-75 lo stesso tema viene modulato a Reb maggiore portandosi così verso una “zona” di maggiore. Dalla battuta 75 inizia una progressione che da Mib min. passa per Fa min. e modula alla dominante di Mib, Sib magg. tramite II in 7° e poi tramite il concatenamento VI-II6-V.


terzo tema della Patetica di Beethoven
Ecco il III Tema, in Mib minore per mantenere viva la tensione drammatica del pezzo.
Come si può notare, esso è ricavato, trasportato, dalla melodia del Grave: Do-Re-Mib -> Mib-Fa-Solb


conclusione terzo tema
Alla fine del tema si conquista la dominante e la conclusione a Mib maggiore della coda


Coda (btt. 89-132) in cui finalmente l’esposizione conquista il mi bemolle maggiore dopo due lunghe cadenze basate su una scala discendente di un’ottava e mezza da do a sol lungo la scala di Mib maggiore e porta alla conclusione sulla settima di dominante di do; ritornello. La seconda volta l’armonia è un IV gr. alterato che modula a sol minore.

cadenza finale esposizione
Il Mib è stato conquistato e parte una lunga cadenza basata su progressioni che conclude l'Esposizione.

fine esposizione Patetica di Beethoven
Ritorno del tema in Mib maggiore a conclusione dell'episodio


Sviluppo: ritorno del I Tema, ossia del Grave (btt. 133-136) con lo stesso ritmo ma modulante arditamente da sol minore a mi minore sfruttando l’enarmonia mib→re# e che introduce di nuovo l’allegro come il Grave iniziale aveva costituito un’anacrusi all’esposizione.

ripresa adagio del primo tema
Il ritorno del grave che grazie all'enarmonia mib-re# modula arditamente a Mi minore


Sviluppo basato sulla figurazione del II tema (btt. 137-148) e da tre lunghe progressioni che portano alla ripresa (bt. 195) in do minore. La proposta dello sviluppo cita nuovamente la costruzione del tema tramite le appoggiature la-sol e re#-mi e fiorisce lo squillo di dominante che si era avuto alle btt. 27 e seguenti. Successivamente, alle btt. 149-167 l’appoggio di semitono diventa caratteristico ed insistente, ancora una volta simile ad un’improvvisazione e successivamente Beethoven conduce l’episodio ad una modulazione verso il IV di Do min. e quindi in dominante. Dalla battuta 168 alla 195 la dominante è sospesa mediante una lunga cadenza virtuosistica costruita interamente su appoggiature dell’accordo di Sol maggiore e che prepara l’imminente arrivo della ripresa.

inizio sviluppo Patetica
Il ritorno del II tema in Mi minore che apre lo sviluppo

seconda fase dello sviluppo
Il semitono diventa qui elemento portante delle progressioni 

pedale di dominante
Il lungo pedale di dominante in forma di cadenza virtuosistica in cui il II tema ritorna ossessivamente


Ripresa: il II Tema ricomincia uguale all’esposizione (btt. 195-220) ma viene omesso il ponte modulante in favore di una progressione che modula al IV grado, ossia al fa minore

Il III Tema è in fa minore (btt. 221-230) per prolungare l’effetto drammatico come nell’esposizione e si porta progressivamente al do minore solo da bt. 233 in poi, sfruttando il ruolo del do come dominante di fa.


ritorno del terzo tema
Il ritorno del III Tema in Fa minore



Coda ripresa dall’esposizione (btt. 253-294) e trasportata interamente in do minore oscillando continuamente tra il Fa min. e il Do min. per raggiungere poi la cadenza V→I solo alla fine. 
Anche in conclusione di questo episodio ricompare il II Tema che conclude in maniera drammatica tutta questa fase concitata e frenetica con due pesanti accordi di 7° sul IV gr. alterato creando un'ultima sospensione, quasi a lasciare intendere che lo spettacolo non sia concluso ma abbia ancora qualcosa da dire.

Ultima citazione dell’introduzione, ancora in do minore, ma questa volta acefala. Il significato di questa ultima citazione risiede nel fatto che Beethoven vuole dare all’ascoltatore un chiaro segnale che sta per succedere un’ulteriore novità che si rivelerà essere poi la conclusione del movimento. Questa ulteriore citazione, acefala onde prolungare il silenzio ed il momento di attesa, funge ancora una volta da anacrusi per la successiva rapida coda ed ancora una volta espone all’ascoltatore alle forti e tese dissonanze che hanno caratterizzato tutto il movimento della sonata.

ultimo ritorno del primo tema
L'ultimo ritorno del I Tema


Piccola coda (btt. 299-310) con l’ultima evocazione del I Tema e che precipita verso l’ultima sequenza di accordi in ff e drammatici che conclude il movimento.

II MOVIMENTO    

Adagio cantabile

Si tratta di una Romanza in La bemolle maggiore caratterizzata da una melodia, un basso ed una tessitura di accompagnamento intermedia. E' un vero e proprio intermezzo in quanto rompe la continuità drammatica del I movimento e del Rondò che segue. Con un po' di malizia si può notare che il tema della romanza è vagamente imparentato con il materiale già ampiamente sfruttato in precedenza semplicemente esponendolo al contrario e rovesciato (Do - Re - Mib - > Mib - Reb - Do) e camuffandolo con un salto di quinta subito prima (Sib - Mib). Ciò crea una sensazione di dejà-vu nell'ascoltatore e non sente questo movimento come completamente straneo al contesto.

Esposizione: il tema in lab viene presentato netto e preciso (btt. 1-8) a cui segue una risposta positiva rinforzata a quattro voci (btt. 9-16).


incipit secondo movimento della Patetica
Il ben caratteristico tema della Romanza alla voce più acuta



Sviluppo basato sull’idea delle quattro note di chiusura del tema che modula al mi bemolle maggiore per riesporre il tema (btt. 17-28).


sviluppo interno
Parte del piccolo sviluppo interno all'esposizione


gioco di imitazioni sul tema
La serie di imitazioni sulla dominante che riporta al tema prima della conclusione


Sviluppo: la tonalità passa al la bemolle minore e il tema portante dell’episodio è suggerito dal basso del tema principale (btt. 37-50); la terzina, comparsa fugacemente tra la proposta e la risposta nell’episodio precedente, diventa l’elemento caratterizzante del momento.


ripresa del tema
Il tema viene riproposto in La bemolle minore iniziando lo sviluppo

Ripresa: Il tema ritorna variato con l’accompagnamento di terzine e vengono ripresentate proposta e risposta positiva (btt. 51-66).

ritorno del tema variato
Ripresa in La bemolle maggiore

III MOVIMENTO

Allegro

Si tratta di un Rondò il cui tema autoconclusivo è tratto combinando elementi del I e del III tema del I Movimento. Il tema portante è la riproposizione del I e del III tema del primo movimento con Sol - Do il salto di quinta (come Sib - Mib) e Do - Re - Mib il caratteristico inciso, monolitico e rappresentativo dell'intera sonata, seguito dalle terze minori Fa - Re, Mib - Do che lo legano anche al secondo movimento (Do - Mib, Sib - Reb) chiudendo così in poche note tutto il ciclo appena percorso e dando all'ascoltatore la sensazione dell'inevitabilità di ciò che sta accadendo.

Tema (btt. 1-17): si tratta del tema del ritornello del Rondò, Allegro ed in do minore, caratterizzato da una proposta (btt. 1-8), da una risposta negativa (btt. 8-12) e da una coda (btt. 12-17).

inizio rondò della Patetica di Beethoven
L'incipit del tema iniziale, poi segue la risposta con la ripetizione appena fiorita della proposta

Episodio 1 (btt. 13-60): lungo episodio in cui l’autore modula immediatamente a Mi bemolle maggiore richiamando le fioriture della vicina coda del tema e poi gioca con due lunghe cadenze fiorite con terzine sempre in Mi bemolle maggiore. Segue un breve inciso "corale" in cui la medesima linea melodica viene variata e segue poi la cadenza conclusiva. L’episodio finisce con una brusca modulazione a do minore (btt. 55-60).

progressione
La progressione che modula a Mib maggiore tramite il Fa

fioriture del tema
L'episodio in Mib maggiore, si noti come Beethoven insista a fiorire all'interno di intervalli di terza.
Espediente che non si distacca del tutto da quanto esposto finora.

nuove fioriture di sospensione
L'abile fioritura con cui Beethoven manipola la proposta in maggiore appena fatta 

inciso corale
Il breve inciso corale

Ritornello (btt. 61-77): tutto il Tema viene ripetuto.

Episodio 2 (btt. 78-119): contrastando dall’episodio precedente che inizia con fioriture di arpeggi di quinte, il motivetto passa in La bemolle maggiore formando dei canoni per moto contrario (btt. 78-105) a due o tre voci che portano ad una lunga cadenza su sol maggiore, dominante di do minore (btt. 106-119).



canone
Il canone per moto contrario che caratterizza l'episodio in La bemolle maggiore

pedale di dominante
La cadenza ricavata sul pedale di dominante

Ritornello (btt. 120-130): questa volta viene presentato variato con la risposta tronca e in canone al basso.

canone nella ripresa
Canone durante la ripresa del Tema

Episodio 3 (btt. 131-169): la prima parte è costituita dalla ripetizione del primo episodio trasportato alla dominante, sol maggiore (btt. 131-142). A questa segue una lunga cadenza che riprende il gioco in canone sulle terzine dell’Episodio 1 e si mantiene sempre su sol maggiore. L’episodio si può interpretare sia come ripresa di un ipotetico secondo tema se lo si valuta come un Rondò-sonata sia come un lungo pedale di dominante che genera attesa per la coda briosa e virtuosistica di drammatico impeto di do minore.

ripresa dell'episodio in sol
Ripresa dell'Episodio 1 in Sol maggiore

Ritornello (btt. 170-177): è l’ultima apparizione del tema, acefalo e senza la risposta, che prepara la coda brillante.

Finale (btt. 177-Fine): lunga coda sul do minore, fiorita con le terzine di croma che insiste ossessivamente sulla cadenza V-I e relativi gradi per prolungare l’attesa dell’ormai imminente conclusione: a bt. 198 vi è un V-I in la bemolle maggiore, cadenza di inganno e che richiama infine per l’ultima volta il tema del Rondò. In questo punto Beethoven ha inserito una breve pausa, una piccola ripetizione del tema in La bemolle maggiore, in pp, e delle pause che creano l'attesa finale con cui si appresta ad uscire di scena
Segue una breve cadenza V-I di do minore nelle ultime due battute, lungo una rapida scala di terzine e che conclude improvvisamente tutta l’opera.
L'ultimo inciso è stato usato anche nel primo album del Banco del Mutuo Soccorso in conclusione del loro ciclo di canzoni.

coda e cadenza della Patetica
L'arrivo della coda virtuosistica che conclude la sonata

finale della Patetica di Beethoven
L'impeto finale dopo una piccola pausa


Bibliografia

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giovedì 22 aprile 2021

TORRE GABRISA - Una seconda svolta

 TORRE GABRISA 

Una seconda svolta


Un giorno, in tempi decisamente più recenti del 2019, all'improvviso e senza premeditazione, mi è apparsa sulla home di Facebook un post con una richiesta di formare una cordata da parte di un personaggio che avevo tra i contatti ma che avevo perso di vista nel corso del tempo. Vabbè, il mondo è piccolo, perché no? Tanto il Bocia in certi postacci non ci sarebbe venuto perciò tanto valeva cavarsi una soddisfazione, la passione per l'odore di selvaggio non mi è mai mancata.
Io e costui ci diamo appuntamento per la Domenica e ci troviamo in Valdastico, con un caldo torrido già di prima mattina, presso un noto bar posto in curva, punto obbligato per chi transita in questa amena valle (che avevo deciso appositamente per non sbagliare, prevenendo l'altrui disgrazia). E' così che, per la prima volta, faccio conoscenza di Moreno. 
Mi accoglie col sorriso e rapidamente mi carica in macchina alla volta della Val Sorapache. Siamo diretti alla Torre Gabrisa, la più alta delle torri della valle, immersa nella solitudine più totale. 

Tanto per cominciare due parole su questo personaggio e sulla torre: Moreno è l'autore di alcune vie piuttosto audaci intorno a Recoaro e già mi aveva contattato anni prima per aprire la Via delle Streghe sulla Cima Campodavanti, ma a quel tempo avevo delle idee troppo ingenue e non avevo colto lo spirito. La Torre Gabrisa fu invece scalata per la prima volta da Binotto e Dalle Carbonare nel 1951, lungo un itinerario poco ripetuto ma che pare promettente mentre la via su cui ci siamo cimentati è stata aperta da Tranquillo Balasso, Sergio Antoniazzo e M. Benetti nel 2006 attraverso placche e diedri di ottima roccia con una successione di tiri magnifici.

Ci incamminiamo velocemente lungo la Val Sorapache, io arranco perché sono pigro, Moreno accelera il passo andando in esplorazione e fermandosi di tanto in tanto in cerca della mia approvazione con " 'ndemo Sandro, dai che se sta ben qui! Semo a nord, a l'ombra". Io mi limito a fargli un cenno in quanto il sudore gli impedisce di vedere la mia smorfia di disgusto, bestemmiando contro la pendenza del sentiero. Ad un tratto Moreno si blocca, si mette in posa ieratica scrutando l'orizzonte, si rivolge a me e mi dice: "gavemo sbajà!". In cuor mio non riesco né a ridere né a piangere perché l'umidità mi sta facendo rivivere le battaglie nel Vietnam, perciò inconsapevole di cosa sto facendo e seguo il compare, con calma e moderazione, facendo economia di liquidi. 
Moreno, ben deciso a non perdere nemmeno un metro di quota perché Mussolini non torna indietro, traversa quindi su una cengia alberata che diventa sempre più stretta e a picco sulla valle sottostante, finché non si interrompe bruscamente ad un gruppo di alberelli: "nemo zo de qua che tajemo, tanto xe un attimo!". 
Bisogna diffidare degli attimi di Moreno, spesso significano che "in un attimo" risolviamo tutti i nostri problemi alla radice...! 
Io prudentemente preparo una corda e mi calo in doppia lungo il pendio scosceso, arrivando giù tranquillamente mentre il socio esplora la zona. 
"...lo go catà, vien de qua che fem prima!", mi avvio dietro di lui ricominciando ad arrancare lungo un canalone parecchio pendente di blocchi e ghiaie, sempre faticoso, uscendo finalmente fuori dal bosco e dalla sua micidiale umidità per guadagnare il solleone. Risaliamo tutto il canalone fino ad un gigantesco blocco che ne sbarra la sommità e ci obbliga ad uscire a destra lungo una parete di erba e roccette sul III. Moreno parte in quarta ma io, già subodorando il dopo, mi faccio legare e scarrozzare su come un pensionato: appena mossi i primi passi sulla paretina una zolla di erba mi parte sotto al piede e resto appeso, sesto senso!
Guardo l'ora, incredibilmente la nostra variante ci ha fatto recuperare un bel po' di tempo. Non è nemmeno l'ora di pranzo, ma quasi, e ci troviamo alla base della torre, su una selletta silenziosa e solitaria che sa di magico, un piccolo Eden di erba, con un pinetto mugo, piatto e sospeso in mezzo alle nuvole, al tempo, alla vita stessa, nel silenzio.

Ritorno bruscamente alla realtà: Moreno si mette in posizione velocemente per attaccare, io preparo uno zainetto più piccolo e non ho obiezioni a lasciargli la via, sono abbastanza bollito e per una volta approfitto del passaggio. La prima placca, ben mitragliata di chiodi, non è scontata, un VII secco, con un passo strapiombante che da secondo non è esattamente il massimo della comodità, visto il tiro obliquo. Trovo un buchetto per le dita della mano destra con cui riesco ad innalzare i piedi e mi lancio sulla presa seguente senza partire a pendolo a sinistra, poi scalo il diedro seguente, sempre con mirabolanti acrobazie per non finire in mezzo agli strapiombi e mi riunisco al compagno alla sosta. Altra sorpresa: la relazione riporta un tiro inesistente, quindi siamo in anticipo sulla tabella di marcia.
Segue un altro bel diedro che non ha problemi e poi un tiro verticalissimo lungo una lama-diedro a picco sulla base della torre, dove una presa si rompe e mi fa fare un giretto di giostra nel vuoto, nessun problema, mi spingo su e passo il tetto che chiude il diedro, un bel VI+ di quelli che tendono le fibre muscolari. Riuniti alla sosta Moreno riparte e si accanisce contro una lama abbastanza marcia che lo fa sudare per un po', io fortunatamente resto in disparte e non sono bersagliato dalle pietre che arrivano giù; lo raggiungo con qualche bestemmia e percorriamo la breve cresta aggrappandoci ad essa per tenerla assieme fino all'esile vetta della Torre Gabrisa.
La soddisfazione è tanta, la stanchezza pure, la sete ancora di più, però l'acqua va razionata per il ritorno.
Allestiamo la prima delle due lunghe corde doppie che ci portano al canale di discesa e parte ovviamente Moreno, con sicurezza e comodità, ravvisandomi "Ocio ai sassi Sandro, quanto te scendi, parché l'è smarzo!" - "Non c'è problema!".
Appena l'amico parte mi perdo a guardare il panorama, sganasciandomi le mascelle a forza di sbadigliare quando sento un tonfo netto, unico, distinto, che rimbomba intorno come una fucilata e mi giro di scatto: Moreno non si è mosso, è ancora lì sull'orlo del baratro, immobile. Prende a fissarmi con un'espressione neutra, a metà tra chi sta per ridere isterico a causa di un crollo nervoso e chi sta per piangere l'addio. Nel calarsi ha urtato con il piede un sasso che ha centrato le corde molto più in basso, danneggiandone sicuramente una in modo serio, l'altra forse. 
Restiamo immobili senza fiatare, senza nemmeno respirare, a guardarci per alcuni secondi che mi sono parsi delle ore, poi rompo il silenzio: "senti, tira su le corde e valuta l'entità del danno!" - "seto che forse no l'è cussì mae come pare?!" - "tira su e basta e lascia giudicare me!!!".
Le prospettive per toglierci d'impaccio mi paiono agghiaccianti: se entrambe le corde fossero tranciate dovremmo farci strada per la cresta della torre, su terreno ignoto, con quello che ne resta annodato insieme e cercare di arrivare verso la forcella che guarda il Fratòn, oltre la vicina Punta del Vecio e da lì ridiscendere a valle in qualche modo. Ma la Punta del Vecio ha un camino da scendere con almeno una doppia lunga, oppure passando di chiodo in chiodo...non voglio nemmeno pensarci, sono cose che si fanno con la forza della disperazione!
Se una delle corde fosse integra invece potremmo ripercorrere la via al contrario, non sarebbe difficile, solo un po' laborioso ma fattibile; "senti Sandro, una xe solo scalzà ma dentro l'è bona, l'altra corda è apposto, par fortuna il sasso la ga 'pena tocà!" - "bene!!!! Tentiamo allora!!".
Moreno si cala oltre il ciglio e sparisce alla mia vista. Passano attimi di silenzio più totale in cui la stanchezza e il sonno sembrano svaniti, lontani nel tempo, ogni fibra del mio corpo è tesa come la corda di un violino in ascolto di ogni sussulto. Penso a quanto sia fragile la vita e a come siano vane le nostre velleità quando quello che crediamo sotto controllo improvvisamente ci ricorda che il mondo, anzi tutto l'Universo, fa quello che vuole e basta!
Poi, dopo un'altra snervante attesa giunge il richiamo: "Sandro, liberaaa! Se fa!". Mi preparo e mi calo lungo la verticale parete ovest della torre, metro dopo metro, lentamente e con tutti i sensi all'erta; arrivo al danno, è grave ma non al punto da essere pericoloso, vedo lo scorticamento passare lentamente nel discensore, trattengo il fiato e proseguo la calata fino ad approdare al terrazzo di sosta. 
Riprendiamo con la seconda delle due calate in doppia, questa volta meno impressionante della prima perché prima di ripassare per il danno possiamo appoggiare i piedi su qualcosa di solido potendo tirare un grande respiro di sollievo.

Passo a riprendere lo zaino che avevo lasciato alla base della guglia, mi riposo qualche secondo, poi seguo Moreno giù per il canalone parallelo a quello di salita, meglio non insistere con le doppie oggi, e scendiamo per vari franamenti e una selva fittissima di rami e spine che ci riporta giù al fondo della Val Sorapache. Entrambi abbiamo i piedi in fiamme e ci sentiamo come prendere fuoco, perciò ci fermiamo al torrente che qui scorre con un buon volume d'acqua a chiacchierare con due ragazzi saliti a prendere un po' di frescura. Mi sento ringiovanire. 

Alla fine dell'estate io e Moreno siamo in Valsugana alla Gusela di Cismòn a percorrere la storica Paolo de Tuoni, facendo stavolta tesoro di qualche accorgimento. E' l'inizio di un nuovo sodalizio.


torre Gabrisa e Fraton
La torre Gabrisa è il dente affilato al centro, assieme alla bifida Punte del Vecio
A destra è ben distinguibile il Fratòn.

partenza directa Gabrisa
La prima difficile placca

diedro della Directa Gabrisa
Il bellissimo tiro nel diedro verticale

quarto tiro della Directa Gabrisa
Fessura friabile


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giovedì 8 aprile 2021

LA VIA MATTEO MARCOLIN

 LA VIA MATTEO MARCOLIN

Parete del Forte Covolo di Butistone


Durante i vagabondaggi lungo la Valsugana, posto vicino a casa che ormai cominciavamo a frequentare assiduamente, il Bocia ebbe l'idea di aprire una nuova via sulla parete principale della Valsugana, la Parete del Forte o Covolo di Butistone. Esisteva uno spazio libero tra la via Corso Augusto, itinerario sportivo sul pilastro che delimita il più grande e visibile diedro della parete e la Nico e Nico, una via artificiale aperta negli anni '90 del secolo scorso che era caduta nel dimenticatoio.

Durante delle ricognizioni alla base della palestra alla base della parete aprimmo un monotiro di artificiale moderno abbastanza impegnativo proprio al centro della fascia rocciosa. Era intenzione del socio proseguire dritto superando i grandi strapiombi e fiancheggiare la via Nico e Nico o incrociarla per raggiungere più in alto le Traversate, un altro itinerario più a destra.
Io non ero dello stesso avviso: non mi garbava di ripetere per l'ennesima volta uno stile che sulla parete già abbondava buttando alle ortiche una quantità industriale di fix, perché la roccia mal si prestava alla preparazione di un itinerario artificiale moderno, ossia con l'uso di ganci, rivetti, chiodi di tutte le dimensioni e spalmabili. Vidi sulla sinistra dei grandi strapiombi una fessura sinuosa che raggiungeva le Traversate e più in alto un diedro poco accennato che restava libero da ogni tentativo. Le due fessure si sarebbero potute collegare tramite un altro diedro biancastro un po' sulla sinistra ottenendo una linea ancora tutta indipendente sulla parete. 
Ovviamente la natura tiene in gran conto le opinioni dei comuni mortali e questo caso non fece eccezione.

In un giorno d'estate 2018 io e il fedele Bocia cominciammo la scalata approfittando del momento in cui la parete era in ombra, dato che al primo raggio di sole si sarebbe potuto tranquillamente fare una grigliata senza accendere il fuoco. Armato di tutto punto cominciai a salire cercando la maniera più naturale possibile, onde guadagnare metri più velocemente: prima un gancetto su una tacca, poi un chiodo, poi un chiodo a pressione perché la parete è liscia come uno specchio, poi ancora friends dentro una fessura. Ad un certo punto martellai la placca rocciosa che stava alla mia sinistra e cominciò a suonare come un tamburo; un po' a sinistra, nascosta dall'erba, si poteva scorgere una sottile crepa. Chiodo a pressione sulla lama alla mia destra, ben più solida e via. Arrivai alla prima cengia coi primi raggi di sole che mi sciolsero istantaneamente come una candela, approntai la sosta e tornai già dal compagno. Dopo le manovre rituali (secondo la nostra consolidata pratica religiosa) il Bocia ripeté il tiro appena aperto disgaggiando brutalmente tutta una serie di lamelle rotte e appoggiate e bersagliandomi come un tiro al piccione, dopodiché levammo le tende lasciando il progetto a decantare in attesa di tempi più freschi.
Il cantiere si era appena aperto.

Tornammo in inverno, finalmente le temperature erano divenute più tollerabili e potevamo disporre dell'intera giornata. Risalii il primo tiro agevolmente, recuperai il compagno e partii verso la fessura sinuosa che aveva attratto la mia attenzione già l'anno prima. Partito con sfrontatezza armato di friend per cercare di fare il macho e distanziare gli ancoraggi ai futuri ripetitori notai presto che la montagna mi mandava a quel paese: la fessura si presentava col bordo completamente a scaglie rotte che mi toccava staccare ad una ad una per trovare della polpa buona. Via i friend e giù di trapano, brusco ritorno a più miti consigli.
La fessura a questo punto formava un tetto e con dei passaggi su ganci un po' elefanteschi riuscii a traversare a sinistra senza finire cullato tra le braccia del Bocia qualche metro sotto, poi azzardai un passo in libera per riuscire a innalzarmi ma il peso della roba che avevo addosso mi impacciava in tutti i movimenti (altra lezione: corda di servizio), così provai con un dadino in un buco, largo quanto due dita (mmm..!). Ancora trapano e fix e cominciai il traverso a destra che caratterizza la prima parte della via, dimenticandomi completamente dei friend e lavorando di trapano in posizione improba, allungandomi sempre sul lato destro; fortunatamente il "braccio" non mi mancava. Dopo una sequenza di trapanature arrivai su un minuscolo gradino con una pianta e abbozzai la sosta, dopodiché solita manovra, il Bocia sale, ripulisce, appronta la sosta di cala e via giù, ormai le tenebre avanzavano. Cominciava ad intravvedersi una forma ma la parete era ancora lunga!

Non demordemmo: dopo qualche giorno fummo nuovamente in parete. Era un caldo giorno di Marzo del 2019 e il sito era più frequentato del solito, con alcune cordate in movimento sulle vie sportive. Nuovamente su per i tiri appena aperti, questa volta partì il compagno che concatenò in una le lunghezze appena aperte e mi recuperò in sosta, poi ripartii verso la successiva placca. Dal basso avevo visto delle fessure da chiodi ma erano solo macchie di umidità sulla roccia e mancavano pure le tacche per i ganci quindi giù di trapano senza pietà. Lentamente mi innalzai lungo la placca vergine, ovviamente carico come un mulo sfruttato e abusato dal suo padrone, traversai un po' verso sinistra e, dopo un chiodo a pressione rimasto piantato a metà a causa dell'esplosione della roccia in cui lo avevo ficcato, approdai ad una rampa di roccia facile con un chiodone artigianale, punto in cui passava la via delle Traversate. 
Dal punto in cui ero, a causa della verdura che infestava la zona, non potevo mandare giù un po' di carico al compagno, così cominciai a innalzarmi sfruttando il chiodo presente. Sentii un sussulto e guardai l'ancoraggio: l'infingardo stava pensando di andare a spasso e stava lentamente sfilandosi dal suo posto. Armeggiai col trapano con la mano sinistra e puntellai i piedi alla buona, trattenendo il fiato: giù un fix e via, finalmente su un bel terrazzone, comodo e largo. Recuperai il partner e cominciai ad osservare la parete: il diedro intermedio dove pensavo di passare veniva a trovarsi tutto a sinistra ed era composto interamente da croste di guano (= merda!) e mattonelle buone solo come fermaporta. Non era il caso di insistere lungo la "linea logica". La parete sopra di noi si presentava invece solida e compatta come cemento armato, ma solo al disopra del consueto strato di croste che bisognava disgaggiare.
Non ebbi nessun dubbio a cedere il comando al socio, come si manda avanti la fanteria contro le mitragliatrici nemiche per fargli finire le munizioni, e poi si presentava l'occasione di aprire un bel tiro artificiale. Io mi sedetti comodo sulla terrazza e guardai, come un pensionato, l'avanzamento del cantiere verticale. Il ragazzo partì con circospezione lungo la prima fascia di croste, stranamente silenzioso, poi cominciò il disgaggio delle croste, con la consueta pioggia su di me, cercando di volta in volta un palmo di roccia che non fosse rotta. Guadagnò centimetro dopo centimetro, lentamente, innalzandosi grazie ai ganci in alcuni buchetti, ogni volta riuscendo a trovare un pezzo di pietra solido che non suonasse vuoto. 
Dopo circa quindici metri raggiunse una fascia biancastra prima della parete nera, il punto più impressionante che dovevamo attraversare: il Bocia batté a sinistra, a destra, fece un buchetto piccolo e vi ficcò un gancio per guadagnare un altro mezzo metro ma nulla, tutto era friabile, tutto scollato dal corpo principale della montagna. Fu a quel punto che la forza degli uomini venne meno: "Vecio, xe tutto smarso, non son bon da piantare qualcossa che tegna in 'sto schifo! - Prova ad alzarte un altro fià! - Fago un altro busetto ma, Vecio, me sa che la via xe finìa!".
Ecco, una doccia fredda proprio nel massimo della carica morale! Mi ribellai, come mi accadde ancora in queste situazioni e a costo di adottare soluzioni più estreme come trapanare un fix ogni 10 cm pur di ottenere qualcosa di solido o nel violare la via di fianco pur di passare: "Bocia, prova ancora, varda se te riessi a smartelare quel toco de piera un po' piatto lì in alto! Alzate un altro fià". Egli provò ad alzarsi al suo limite e martellò all'incirca al termine della fascia bianca, un tratto più piano e un po' spostato dall'asse dei chiodi: dopo qualche colpo il martello trovò un punto che non emetteva il suono della grancassa e lì potè entrare un bel chiodo a pressione. 
Era fatta: il punto chiave della scalata era stato vinto ed ora il Bocia si apriva la strada verso l'alto lungo la parete nera senza preoccupazioni, a ritmo costante come un T-34. L'unica cosa che lo fermò fu l'arrivo della sera. Seguì la consueta discesa e rientro a casa. La via era fatta per metà ma ora si presentava il problema di come salire la metà superiore senza bivaccare sulle staffe.

Passò il tempo e giunse il momento propizio alla fine di Agosto del 2019. O meglio, dopo aver subito il lavaggio del cervello da parte del partner fino a fare penetrare nel mio inconscio il desiderio dell'impresa, venne il momento di andare lassù malgrado le temperature decisamente proibitive. Questa volta optammo per un'approccio diverso: calarci dalla sommità della parete, posizionare le corde fisse e chiodare fino ad esaurimento batterie per poi tornare ad opera compiuta. Un primo tentativo andò a vuoto perché finimmo totalmente da un'altra parte, il secondo andò bene: mi calai con circospezione lungo la muraglia orientandomi coi chiodi di Nico e Nico per trovare il giusto punto dove eravamo arrivati e pervenni ad un terrazzino al centro del bastione. Il compagno mi raggiunse dopo poco e cominciai a scrutare il punto in cui proseguire la calata quando capii dove eravamo: esattamente sopra il diedro che avevo individuato dal basso. Peccato però che quest'ultimo fosse la brutta copia di quello più basso: una faccia era accettabile ma l'altra era una catasta di mattonelle scollate dalla parete e rette da un albero ivi cresciuto. 
Ora, su una montagna normale, non mi sarei fatto scrupolo a levare di mezzo quel cesso a suon di martellate ma su questa parete c'era il rischio concreto che i pezzi prendessero il rimbalzo sbagliato e finissero sulla ferrovia o superassero il paramassi (difficile ma mai dire mai). Fine della linea logica e forse della via.  Per il momento scesi lungo il diedro, approntai una sosta alla fine della corda e rientrai su, giungemmo in cima alla parete a notte fonda e con una fame da squali. 
Ritornammo la mattina seguente cercando di partire il prima possibile per usufruire delle ore di ombra come negli episodi precedenti, peccato che in cima alla parete, per la conformazione della valle, la luce arrivasse decisamente prima e che quindi fin da subito iniziò la cottura. Raggiungemmo la fine della corda fissa e lasciai calare il compare fino all'ultimo metro ad una cengia più in basso mentre io mi sistemavo alle operazioni di assicurazione; mi sentivo già in fonderia ed ero ben contento di non prendere anche un colpo di caldo.
Al termine della corda il Bocia ebbe lo stesso problema riscontrato metri più in basso: ovunque battesse il martello la roccia suonava come vuota e non c'era verso di ancorarsi a qualcosa di solido. Optammo di deviare dall'idea originale usufruendo di qualche metro della vicina Nico e Nico per poi aggirare l'ostacolo del marciume in mezzo ad una placca grigia molto compatta. Egli allora tornò su da me e cominciò a ridiscendere più a destra verso i visibili chiodi della via accanto chiodando la placca, operazione che condusse con certosina pazienza sotto un sole spietato mentre io stavo per prendere fuoco; poi tornò su completamente esausto mentre io ero ormai stato cremato e insieme risalimmo ancora una volta in cima alla parete, sfiniti e disidratati. Mancava poco a finire il tutto.

Dopo qualche giorno, essendo in vacanza, il Bocia tornò da solo sulla via usufruendo della corda che avevamo lasciato in precedenza e terminò gli ultimi metri lasciati, ma soprattutto disgaggio la parte con le lame rotte facendo avanti e indietro su per la corda e buttando tutto in una fenditura sopra il terrazzino. Questo gesto eroico mi levò un peso dall'anima perché il solo pensare di andare su ancora e rifare la trafila col caldo mi faceva venire voglia di darmi alla briscola.

Finalmente, il 28 Settembre del 2019 terminammo anche gli ultimi metri che mancavano per connettere la parte inferiore con quella superiore; la via era terminata.
Decisi di dedicare la via a Matteo Marcolin, un giovane entusiasta morto per un banale incidente sul Monte Grappa l'inverno dell'anno precedente, mi pareva giusto dedicargli un pensiero lungo le lisce pareti del Canale del Brenta.


inizio della Matteo Marcolin
Il mentre apro il primo tiro

fessura sinuosa sulla Matteo Marcolin
Lungo la fessura sinuosa tra i tetti

terzo tiro della Matteo Marcolin
Placca del terzo tiro

grande placca della Matteo Marcolin
Il grande muro chiave della via

placca superiore della Matteo Marcolin
La grande placca superiore

diedro della Matteo Marcolin
Il problematico diedro finale


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mercoledì 7 aprile 2021

NOSTALGIA DEI ROSSI TRAMONTI

 NOSTALGIA DEI ROSSI TRAMONTI


La via era (ed è tutt'ora) corta!
La via era abbandonata, con chiodi artigianali tratti dagli scaffali e cordini che prima erano i lacci delle scarpe!
La roccia faceva pure un po' schifetto e la base della via aveva un muro di rovi!
La via era però a 5 minuti dalla macchina, strascicando i piedi sotto il carico.
Rimaneva una domanda: perché diavolo mettere le mani su un cesso del genere?
Eh, tornare agli entusiasmi infantili regala un sorso di giovinezza...!

L'idea iniziale di vedere come era messa questa via è stata mia, forse perché Giovanni l'aveva percorsa in solitaria anni prima, forse perché il nome poetico mi aveva ispirato e, sicuramente, perché era comoda. Il Bocia accettò subito la proposta e la sostenne sempre con energia, probabilmente i rossi tramonti lo avevano conquistato nel cuore, sempre ovviamente ignorando quel che davvero lo aspettava.

La via Nostalgia dei Rossi Tramonti (vedi pagine Valsugana e Aperture e Restauri) venne aperta in più riprese da Daniele Lira, in solitaria, nel 1984, lungo il tratto più strapiombante della Parete Fredda, una piccola falesia sita sopra l'abitato di Tezze in Valsugana, ben visibile anche dalla statale.

La prima volta ci trovammo alla base della parete in tre: io, il Bocia e l'accademico Franco Sartori, che inizialmente condivise l'idea di richiodare la sfortunata realizzazione del Lira. Ci avviammo alla base della parete come di consueto, carichi come i muli con fix, staffe, cordame, trapano, ecc. Demmo il nostro tributo ai rovi battendo una traccia per entrare nella grotta alla base del muro e ci fermammo a fissare il soffitto dell'incavo. 
Fu una vista desolante: il primo chiodo era alto e bisognava cacciare la mano in un buco melmoso e probabilmente abitato, poi seguivano dei chiodi normali avanzati dalla crocefissione del Nazareno e piantati in una crepa di roccia biancastra ammuffita e poi la riga di chiodi a pressione artigianali e costituiti da una vite, che di vita forse ne serbava un vago ricordo, che stringeva una piastrina tagliuzzata da qualche avanzo mi fonderia; il tutto era rigorosamente coperto da uno spesso strato di ruggine. Dai chiodi a pressione, forse bontà di qualche ripetitore, pendevano dei cordini nuovi che sembravano una beffa come il mettere la porta di ferro dopo il furto dei gioielli.
Malgrado la sensazione di fatica che ci pervase tutti, belli e brutti, Franco partì a petto in fuori attaccando la placca liscia addolcendola subito con un bel chiodo a pressione di sua fabbricazione. Passò quindi ad una clessidra larga come una matita e passata con uno di quei "lacci da scarpe" che ho citato in precedenza: nessun problema, altro chiodo a pressione! Continuò con questo lavoro in posizione sempre più estenuante a causa della distanza degli ancoraggi e del fatto che il soffitto era completamente orizzontale, fino al bordo del tetto. 
Da questo punto in poi poteva cominciare a tirare un sospiro di sollievo perché finalmente avrebbe potuto cominciare a salire in verticale poggiandosi sulla roccia. Franco cominciò allora a procedere in avanti lungo la parete, mollando giù di tanto in tanto qualche mattonella instabile (come se il resto fosse stato solido) e arrestandosi in alcuni momenti a causa di buchi nella chiodatura. 
L'apritore della via aveva usato alcuni chiodi normali che in seguito furono rimossi, in quanto non proprio economici come la spazzatura che aveva ficcato dentro fino a quel punto, così sulla via erano rimasti dei passi in libera oppure da chiodare pregando che la lastra dietro cui venivano infissi non decidesse di fare sciopero proprio quel giorno. 
Franco non ebbe pietà: chiodi a pressione, un po' distanziati ma presenti, e via, fino alla sosta appesa sotto il secondo tetto. 
Lo raggiungemmo, io procedetti in coda e recuperai tutto il materiale, tolsi ancora qualche scaglia rotta su cui inevitabilmente andavano a finire i piedi. Dovetti ammettere che malgrado le apparenze la parte in placca e il tratto orizzontale del tetto avevano il loro perché: un gesto atletico e ragionato e ogni metro faticosamente e lentamente conquistato. Non fosse stato che per fare il tetto decisi di fare un esperimento e di utilizzare il mio secchiello (il freno meccanico) con un cordino troppo sottile: dovetti fare il tiro letteralmente con una mano sola, l'opposta al braccio del "single", con grande gioia degli addominali!
Ora che arrivammo alla fine del tratto il giorno già se n'era andato e non restò altro da fare che buttare le doppie per rientrare alla base. La fatica era stata molta, la giornata fu molto calda ma fu una bella soddisfazione e il lavoro stava assumendo il carattere di un'opera pia. Il grosso era fatto, ci dicevamo...si, dicevamo!
Era il 22 Maggio 2017.

Non tanto tempo dopo io e il Bocia tornammo sulla parete in un momento imprecisato, per provare ad andare avanti col lavoro di chiodatura ma il caldo, la ripetizione del tetto, la mia carenza di energie e da ultimo il fatto che rimasi incastrato a qualche centimetro da terra impossibilitato a muovermi per un errore banale, fecero si che rinunciassimo e demandassimo a tempi migliori. Era la disorganizzazione più totale, una lezione buona per i tentativi successivi.

Si accavallarono impegni e progetti più stimolanti e io mi impuntai che la Nostalgia dovesse essere demandata a giornate con brutto tempo o come riserva, perché andarci a infognare sulla Parete Fredda con il clima caldo e ottimo delle belle stagioni e per di più su una via già aperta, avrebbe voluto dire farci ridere dietro anche dalle galline.
Passò più di un anno e arrivammo a tempi più prossimi, il 2018, anzi il giorno 11 Novembre, quando io e il Bocia decidemmo di fare una seconda puntata alla via. Questa volta, molto più furbescamente, decidemmo di saltare il tetto della grotta servendoci di un'asta allungabile per passare la corda direttamente nel fix a bordo tetto e da lì scalare la placca verticale fino alla prima sosta, recuperare i sacchi e poi proseguire. 
Dopo qualche tentativo da parte di un Rossi che fantozzianamente cercò di attaccare il moschettone con la corda tramite un'asta sottile come un fuscello, che si piegava ondeggiando fastidiosamente, di un Bocia che risalì in modo elefantesco la povera corda faticosamente fissata, finalmente qualcosa si mosse e ben presto il partner arrivò alla tanto agognata sosta appesa sotto il secondo tetto.
Venne il mio turno di salita e grazie alla bontà del socio che lasciò una serie di staffe appese sotto il soffitto, riuscii a guadagnare i chiodi e a raggiungerlo non senza un notevole sforzo. Fortunatamente il compare era muscoloso abbastanza da occuparsi del recupero del fardello pieno del materiale di scalata in autonomia. 
Il Bocia era più fresco di me quindi si fece carico del trapano e dei fix e cominciò l'opera di sostituzione della spazzatura consunta che sporgeva dal tetto: si distese gaio e tripudio in orizzontale per trapanare il foro, poi cominciò a diventare più serio e determinato nell'opera di battitura dell'ancoraggio per assumere infine la posa dell'eroe che lotta contro i demoni durante il proseguimento.
Restai appeso alla sosta sotto al tetto per un tempo indefinibile, ascoltando i suoni della battaglia titanica che si andava consumando sopra la mia testa, unita ad una certa quantità di detriti che volava giù oltre il soffitto, fino a quando giunse il tanto sospirato richiamo: "molla tutto e vieni!".
Chiodo, staffa, staffa e chiodo e su, con grande fatica superai il tetto e cominciai la risalita della placca successiva che il socio aveva disgaggiato adeguatamente. Arrivai alla sosta che ormai cominciava a far buio (era Novembre), umido e abbastanza freschetto. 
Guardammo il tiro successivo: la via aveva questa caratteristica, ossia man mano che si saliva l'attrezzatura peggiorava sempre di più e lasciava presagire che oltre il primo tiro ben pochi fossero saliti, forse sul terzo eravamo addirittura i primi ripetitori.
Poche ciance e giù le doppie per tornare a terra, questa volta il davvero grosso del lavoro era stato fatto e alla puntata successiva saremmo venuti ancora più accorti per risparmiare tempo e portare a termine l'opera.

La volta successiva non tardò ad arrivare e il 9 Dicembre, con un tiepido sole, io e il Bocia fummo nuovamente alla base della via.
Iterammo lo stesso procedimento della volta scorsa: asta, fissaggio della corda al chiodo esterno, recupero, con la variante che questa volta il socio sarebbe salito oltre la prima sosta srotolando tutta la corda e così riducendo i tempi. La sua salita andò liscia e io potei sperimentare un metodo di risalita della corda speleologico con la maniglia jumar in alto e un bloccante ventrale, che mi avrebbe assicurato una risalita veloce e poco faticosa. 
L'esperimento funzionò così bene che rimasi immediatamente bloccato, appeso come un cretino, dopo i primi 10 centimetri, impossibilitato a muovermi! In quel momento si palesarono solo due opzioni: tagliare la corda, che non era mia (!!) ma che mi sarebbe toccato rifondere per giustizia, oppure tentare di innalzarmi a forza di braccia sulla corda per poter sganciare il ventrale incastrato. 
Dopo un'ora di tentativi e di bestemmie quasi poetiche la seconda operazione mi riuscii e potei riappoggiare i piedi per terra.
Il problema risiedeva nella corda troppo molle sotto di me che veniva trascinata dal bloccante ventrale e che non riusciva a scorrere bene; la soluzione mi venne come un'illuminazione lungo la via di Damasco e appesi lo zaino al capo scarico della corda e in pochi minuti di dondolamenti nel vuoto raggiunsi il Bocia che cominciava a perdere fiducia nell'umanità.
Provai io questa volta, ancora coi muscoli caldi per la risalita, ad andare avanti e mi avventurai lungo la terza lunghezza su chiodi precari e facendo una fatica bestiale a brandire il trapano, che invece era giusto per il braccio del mio partner. Arrivai sotto il terzo tetto sostituendo tutti i mucchietti di ruggine che un tempo furono stati chiodi e quindi cedetti il posto molto volentieri al compagno perché altrimenti un bivacco non ce lo avrebbe cavato nemmeno Caifa.
Dopo le manovre di rito il Bocia si ritrovò alla posizione che occupavo precedentemente e superò agevolmente il tetto arrivando allo spigolo della parete quando giunse: "Vecio, la via xe finìa chi! Nol vedo pi ciodi! - Varda ben sulla destra, dovarìa esserghe dei ciodi pi a destra verso il pilastro che sae fino in zima. - No Vecio, ea xe porpi finìa!".

Che inchiappettata! Tutta questa fatica per una quindicina di metri che finivano su un terrazzo erboso nel nulla! Probabilmente Daniele Lira, stufo di perforare a mano e vedendo che l'impresa sarebbe stata ancora lunga, girò semplicemente a sinistra a una terrazza erbosa e quivi si apprestò a scendere. Il tiro appena fatto aveva infatti l'aria di non essere mai stato ripetuto, tanto era ridotta male la chiodatura. 
Bene, il fedele socio approntò una sosta di calata all'ultimo chiodo e mi raggiunse nuovamente alla sosta e insieme ci calammo fino a terra. Io partii per primo e lui mi seguì immediatamente dopo. Mancava però l'ultima vendetta della Parete Fredda perché egli strinse il nodo bloccante della calata in corda doppia talmente tanto che, giunto nel vuoto ad una decina di metri da terra, rimase completamente bloccato, appeso come un salame.
Approfittai, da persona adorabile che sono, di andare a prendere il coltello che avevo lasciato in macchina, comodo e rilassato, facendo finta di partire e tornare a casa, mentre intanto piovevano maledizioni.
Alla fine della vicenda sopraggiunse anche una guida alpina, che era venuta a vedere la possibilità di aprire una falesia di dry tooling nella grotta e che si complimentò con noi per aver resuscitato il cadavere dopo un così duro lavoro!


grande tetto
Franco che chioda il grande tetto



bordo del grande tetto
Sempre lungo il grande tetto

Nostalgia dei Rossi Tramonti
Lungo la parete verticale

strapiombi
Recupero del sacco durante l'ultimo tentativo

terzo tiro Nostalgia dei Rossi Tramonti
Lungo il terzo tiro di corda

ultimo tetto
Ultimo tetto, la via finisce alla pianta qualche metro sopra

risalita
Io durante l'intrepida risalita.


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