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mercoledì 17 maggio 2023

PICCOLI RACCONTI SOTTO AL CASTELLO - Episodio 1

 PICCOLI RACCONTI 

SOTTO AL CASTELLO

Ascensioni a Rocca Pendice

Ep. 1


In questo momento (Maggio 2023) in cui è ritornato "maggembre" e si intravede la fine della lunga siccità che ha attanagliato l'Italia fin dai tempi dalla pandemia, ripenso con affetto al monte di casa, il caro, vecchio Rocca, su cui ho vissuto veramente tanti momenti. Così mi è venuta voglia di ricordarli, anche perché, questa piccola fortezza situata al centro dei Colli Euganei in provincia di Padova, proprio al centro della Pianura Padana, è stata la salvezza di interi fine settimana per molta gente.
Rocca Pendice è un po' casa, un posto da cui magari si può stare lontani a lungo ma a cui prima o poi si torna sempre, anche con un po' di nostalgia e dove a volte vi si trovano delle novità, qualcuna simpatica e qualcun'altra meno.
Del mio primo approccio ho già parlato qui, quelli che seguono sono altri episodi non necessariamente in ordine cronologico, che si sono svolti negli anni successivi. Il Rocca Pendice è stata non sola la prima "montagna" ma anche un luogo per sperimentare e perfezionare l'uso del materiale, le manovre e i movimenti che poi sono venuti buoni in situazioni ben più stressanti.

LO SPIGOLONE

E' a mio avviso la più bella via del Pendice (la descrizione la si trova qua), percorsa sovente anche dai corsi CAI e riservata agli allievi più bravi, anche se per un periodo ha subito una forte decadenza.
La tentai subito la prima volta che misi piede a Rocca con Stefano, per provare l'ebbrezza di una via a più tiri, non ricordo esattamente il contesto, ma ricordo perfettamente che ero più una macchietta (o meglio uno scemo) che un rocciatore: pantaloncini corti riciclati da un ex costume da bagno, scarpette d'arrampicata larghe come ciabatte per cui assomigliavo più a Charlot, una manciata di rinvii e uno spezzone di corda regalatomi da mio padre, che a sua volta era stato infinocchiato dal venditore che gli aveva rifilato un inutile spezzone da neanche 20 m, e anche un friend (il BD rosso per l'esattezza, lo stesso che mi cavò fuori d'impaccio nel camino Carugati).
Conciato in questo modo grottesco mi avviai su per la ripida placca con cui inizia la via, sotto gli occhi dubbiosi di uno Stefano che già aveva subodorato cosa stesse per avvenire ma che comunque provava ad infondermi fiducia nel destino.
Risalii in modo elefantesco il primo balzo fino all'enorme anellone che sbuca dalla fessura che si doveva afferrare e poi mi avviai lungo un breve traverso a destra del tutto strapiombante, passaggio che mette tutt'ora alla prova le cordate che prendono lo Spigolone sottogamba. Infilai la mano dentro un buco con un rovo (a volte compare, altre volte lo estirpano), mi inarcai a destra ad afferrare una tacca per trovarmi a gambe divaricate spalmato sulla placca spanciante e abbandonato completamente alle braccia: oltre al dolore provocato dalle spine sentii anche una profonda ondata di calore pervadermi, con i tricipiti che erano in procinto di esplodere. Provai a buttare il bacino più a destra ma continuavo a sentirmi precario, provai ad allungare la mano ancora più a destra ma niente.
Mi portai di nuovo a sinistra sull'anellone, guardando in tono supplichevole Stefano ma senza avere il coraggio di cedergli il passo, dopo tutto ero io l'esperto, mentre lui mi guardava immobile con l'espressione di chi stia osservando i babbuini allo zoo.
Nel frattempo sopraggiunse un'altra cordata, due uomini di mezza età che ci guardarono come si guardano i sopravvissuti alla disfatta dell'Armir sul Don e ci offrirono il loro aiuto per superare la placca. Grazie ai loro rinvii e salendo come se fossi Tarzan potei raggiungere una stretta cengetta dove vi era una sosta posticcia con un cavetto metallico e decisi di fermarmi, anche perché il nostro spezzone di corda era fortemente limitante. Gli altri due intanto proseguirono a grande velocità e sparendo dopo un po' alla nostra vista. Recuperai Stefano che salì molto lentamente e ci appollaiammo sulla cengetta pensando al da farsi, in verità un po' scossi visto il battesimo del fuoco appena ricevuto. 
All'improvviso echeggiò un urlo selvaggio, di quelle urla che gelano il sangue nelle vene e che lasciano intendere perfettamente che sia successo qualcosa di grave: uno dei membri della cordata di prima era caduto dalla parte superiore della via ed era volato per l'intera lunghezza della corda disponibile arrivando a poca distanza da noi. Fortunatamente era caduto oltre il bordo dello spigolo finendo a penzolare nel vuoto (avrà fatto 50 m di volo!!!) e senza toccare la roccia, cavandosela solo con un gran spavento.
Fu chiaro a quel punto che non era cosa saggia insistere con la via e buttammo una corda doppia disarrampicando poi le ultime roccette perché lo spezzone non era sufficiente.

Io e Stefano tornammo l'anno successivo, dopo la salita della Carugati, con una corda degna di questo nome e più equipaggiamento e anche molta più motivazione. Era primavera, faceva caldo e mi ritrovai nuovamente alle prese con la famigerata placca. Ricordandomi più o meno cosa avevo fatto la volta precedente affrontai nuovamente lo strapiombo spostandomi a destra ma ancora una volta venni respinto. Riprovai ancora, questa volta senza usufruire della fessura con l'anello ma del solo buco e sfruttando un appoggio più giù: mi resi conto che avevo fatto una fatica del diavolo per nulla quando alla fine era sufficiente restare un po' più bassi. Raggiunsi la cengetta della volta precedente dopo una gran fatica e recuperai Stefano a cui cedetti ben volentieri il comando e che risolse il passaggio successivo con il suo proverbiale "colpo di anca" per poi sparire al di sopra di un doccione. Giunsi in sosta, la vera prima sosta e trovai l'amico bellamente al telefono intento a subire improperi da parte della propria ragazza, la quale trovava la nostra uscita del tutto inconcepibile. 
A me gli improperi della mia erano già arrivati la sera antecedente, con un promemoria di prima mattina!! Eh, a quel tempo eravamo giovani ma per fortuna dagli errori si impara.
Stefano riprese la via verso l'alto affrontando il bellissimo diedro del secondo tiro, bestemmiando giusto un poco nel superamento del tettino, poi lo raggiunsi con abbastanza disinvoltura. 
Mi toccò il tiro lungo il camino seguente, che richiedeva una scalata più da panzer nelle steppe russe che un'arrampicata ma lo superai e mi ritrovai su un terrazzino sotto il passo chiave della via: un corto diedro strapiombante che richiede aderenza su placche lisce, protetto solo da un chiodo resinato mal posizionato. Provai ad innalzarmi infilando le mani nella fessura di fondo ma, quasi alla sommità il piede mi scivolò sulla placca e restai incastrato solo coi pugni. Ritentai ancora la fessura provando a fare più forza col piede ma scivolai ancora, così mi sfilai uno dei soli tre friend che avevo (due in più rispetto al tentativo precedente) per notare, con orrore, come questo fosse troppo piccolo e che restasse a malapena appoggiato nella fessura, giusto nell'unico posto dove potevo piazzare le mani. 
Scesi al nuovamente al chiodo un po' scazzato e cercando un modo per superare l'ostacolo e provai a buttare l'occhio a sinistra, oltre lo spigolo e notando un altro diedro coperto dal fogliame e dai rami. Provai a raggiungerlo, muovendomi come una fata su una cengetta coperta di muschio ma venni inesorabilmente trattenuto dall'attrito pazzesco della corda contro lo spigolo.
E' necessario specificare che, anche allungando il chiodo con un cordino, la corda faceva il medesimo attrito? Ma certo che no, le disgrazie viaggiano sempre a coppie.
Non ci fu che una soluzione: recuperai Stefano sul chiodo e lo spedii ad esplorare il diedro nascosto, malgrado mi maledicesse in una lingua arcana e oscura (oggi la variante che evita il passo difficile è ben ripulita, ma allora non lo era). Io nel frattempo mi appollaiai comodo su un alberello, seguendo le sue mosse con attenzione e spiegandogli dove sarebbe dovuto andare quando mi accorsi di aver disturbato la quiete di un formicaio e vidi con orrore le legittime proprietarie dichiararmi guerra.
Quasi a vendicarsi dell'ulteriore fatica a cui lo sottoponevo, Stefano se la prese molto comoda, un passetto alla volta con molta calma; anche il recupero della corda alla sosta fu fatto con tutta tranquillità, mentre io combattevo la mia lotta personale contro l'Armata Rossa.
Quando finalmente mi diede l'ok a salire, lo raggiunsi come un razzo e con un "leggiero" prurito addosso. Scalai l'ultimo facile tiro e insieme sbucammo sulla cresta sommitale del Rocca, proprio sopra la falesia, con la soddisfazione di aver portato a casa una bella via.

2020

Riaperte momentaneamente le gabbie dalle clausure della pandemia di Covid, incontro Stefano mentre è di passaggio a casa, in riposo da una delle sue peregrinazioni. Insieme ricordiamo i vecchi tempi e notiamo come siano dieci anni esatti che arrampichiamo insieme, un po' a fasi alterne. Bisogna dunque festeggiare, e quale posto se non dove è tutto cominciato, ossia Rocca Pendice?
La scelta più ovvia sarebbe stata la Carugati ma Stefano ha un legame particolare con lo Spigolone e così la scelta cade su questo. L'amico non è in forma mentre io sono al massimo, dopo essermi sciroppato mostruosità come Dark Angels, la Zonta-Gnoato e altro perciò andrò io da primo su tutti i tiri.
Fa caldo, è pomeriggio inoltrato ma tutto sommato è ventilato e si riesce a scalare in scioltezza. La prima placca, che dieci anni prima ci aveva fatto penare ridimensionando grandemente il nostro ardimento, me la lascio alle spalle senza nemmeno accorgermene; l'amico mi segue senza fiatare ma ritrovando il piacere della roccia. Poco dopo anche il secondo tiro è passato e subito sono impegnato col terzo, quello col famigerato diedro. Arrivato sotto il punto incriminato risalgo la fessura e piazzo un friend per proteggere il passaggio, questa volta più grosso del tentativo precedente ma, quando lo carico per fare il passaggio, vedo inorridito l'aggeggio sfilarsi dalla fessura e per poco non finisco a disintegrarmi le gambe sul terrazzino. Niente da fare, ci vuole una camma ancora più grossa.
Nessun problema, aggiro nuovamente l'ostacolo a sinistra e recupero la corda in sosta. Quando alzo lo sguardo e faccio per chiamare l'amico vedo un muro opaco e grigiastro, dietro cui i colli svaniscono: sta arrivando un violento temporale estivo ed è appena dall'altra parte della valle. Urlo al compagno di darsi una mossa e di tirare tutto ciò che gli capita a tiro ma il poveretto è fuori allenamento e fa quello che può. Il temporale nel frattempo si avvicina e lambisce le case di Castelnuovo. 
Stefano finalmente raggiunge la sosta e vi si aggancia, io riparto senza nemmeno attendere che mi assicuri, tanto sono roccette facili e per di più le conosco e, nel giro di un paio di minuti sono già alla fine del tiro, mentre il vento alza turbini di polvere accecante. Recupero il compare ad ampie bracciate, quasi a tirarlo su di peso e, riunitici, ci sleghiamo. Con pochi balzi superiamo anche le ultime rocce che ci separano dal sentiero di discesa; intanto cominciano a cadere i primi goccioloni. Guardo il compagno leggermente spaesato e gli grido di seguirmi imperterrito, non abbiamo nulla per coprirci dalla pioggia (e forse dalla grandine) perciò bisogna correre; perciò via, lungo il sentiero della falesia mentre il muro d'acqua divora anche la vetta del Rocca. Corriamo senza voltarci indietro e sbuchiamo sulla strada di Castelnuovo dove avevo fatto sapientemente parcheggiare Stefano per accorciare la discesa.
Arriviamo alla macchina, apriamo il bagagliaio e immediatamente si scatena il finimondo; appena in tempo!! Sembra quasi di essere sotto un idrante da quanta acqua viene giù dal cielo in un colpo solo.
Torniamo a casa con l'anniversario del nostro sodalizio in tasca, contenti e soddisfatti.

2022

C'è brutto tempo in montagna e io e Bruno ripieghiamo su Rocca Pendice, dato che lui non ci ha mai arrampicato, una domenica con un affollamento pazzesco. Quel giorno decidiamo di concatenare più vie e partiamo dai Diedri delle Nebbie per passare poi allo Spigolone e ai Diedri Bettella. Questa volta porto il friend 3 BD, sapendo che ci toccherà il famigerato diedro. E' quello giusto e con una pressione su una piccola tacca che la volta prima non avevo visto finalmente anche il tratto chiave è passato, pulito!

Rocca Pendice Spigolone
Lo spigolone

lo Spigolone
Nel diedro del secondo tiro

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domenica 14 maggio 2023

FINO ALL'ULTIMO RESPIRO - via Zonta sul Col Molton

 FINO ALL'ULTIMO RESPIRO

La via Zonta-Gnoato-Bertan al Col Molton

Appena passata la scampagnata sul Monte Caliano, che malgrado tutto ci aveva regalato una bella giornata di vero alpinismo, viene il mio turno di lavare il cervello agli altri due. 
Cerco qualcosa che sia all'altezza delle aspettative e che soprattutto sia difficile fino all'esasperazione dato che sennò mi dicono dalla cabina di regia che non c'è il divertimento. Cerco quindi di coniugare la comodità alla bestialità e so che la Valsugana fa al caso in questione. 
Il diavolo che è in me mi fa tornare alla mente una via che avevo adocchiato anni addietro e  che si trova giusto alle spalle di Cismòn, su quell'altura brutta a vedersi che si chiama Col Moltòn (richiama qualcosa di fangoso, chissà perché eh, anche se avrò occasione di ricredermi) e che era da poco stata riattrezzata per poterne permettere la frequentazione (magre speranze).
Sapendo come far radicare un'idea nella testa dei miei sventurati compagni di viaggio manipolando le loro menti, scrivo a Moreno mandandogli uno schema della via un poco vago e disegnato con le linee tutte storte come un bimbo e nel mentre lo rassicuro mefistofelicamente sul fatto che la via sia chiodata ravvicinata, comoda e che sia l'occasione per fare valere l'allenamento accumulato fino a quel momento. 
L'entusiasmo si accende immediatamente, ho toccato le corde giuste e "l'amico fritz" coinvolge subito anche Bruno, il quale però fiuta che c'è qualcosa che non va. Non posso lasciarmi sfuggire l'occasione e così lo rassicuro prontamente sul fatto che conosco bene la zona e che per un po' di difficoltà possiamo invece apprezzare la comodità del rapido accesso e dell'ancora più comodo rientro in corda doppia. Questi fatti fugano immediatamente tutti i dubbi e la domenica siamo a Cismòn, con i due compari che già pregustano la salita pensando che si tratti di una vietta sportiva con giusto qualche passaggio che gli farà grattare il capo più del solito. Io, purtroppo, conosco la Valsugana e sento, anzi so che ci saranno delle sorprese di lì a poco ma non dico nulla, un po' perché ho voglia di misurarmi con la salita, un po' per non spegnere l'entusiasmo dei compagni che sono così carichi.

Dopo la solita colazione al bar, ci portiamo in breve all'attacco della via, un po' nascosto in un minuscolo boschetto: la partenza consiste in un camino verticale, un po' sporco di terra e foglie e che richiede i piedi di piombo. Moreno parte direttamente con la marcia innestata per poi rallentare bruscamente come un treno di fronte al capolinea appena arriva sotto uno strapiombo; qualche sbuffo, una bestemmia e tra larghe spaccate e un paio di bracciate, riesce ad intrufolarsi dentro il camino sgusciando poi sul lato opposto dello sperone che lo forma. Seguiamo io e Bruno, col sottoscritto che si incastra nello stretto camino a causa dello zaino e che è costretto ad uscirne strisciando come un verme.
Ci riuniamo alla prima sosta e malgrado la titubanza iniziale il proseguo dell'itinerario pare promettente; riparte Bruno per la prima lunghezza sulle placche nere (valgono da sole un giro in Valsugana), c'è ancora dell'esitazione a causa di un passaggio obbligato proprio alla partenza ma poi prende il ritmo e risale tutta la placca, poi seguiamo io e Moreno. Io tiro anche fuori le "scalette" per risparmiare energie preziose per la parte alta che, a prima vista, sembra mostrare una certa severità, sovrastandoci arcigna e possente, sento infatti una vocina che mi dice che da lì a poco ne vedremo delle belle.
Anche le due lunghezze successive scorrono via veloci e ben presto arriviamo sulla grande cengia mediana, ormai alti sopra le case di Cismòn: il posto è incantevole, sotto di noi le case del paese che sembrano dei modellini, il sole ci tocca di striscio perché la parete è rivolta a nordovest e siamo tranquillamente appollaiati sull'erba in una gigantesca nicchia mentre in lontananza scorrono placide la tangenziale e il Brenta, i cui rumori arrivano appena quassù.

Guardo verso gli enormi strapiombi che ci sovrastano e intuisco il passaggio successivo attraverso un diedro sbarrato da un tetto, poi osservo gli altri e mi rendo conto di cosa sta per accadere: sono l'unico ad avere le staffe (le famigerate scalette) e ovviamente non ho nessuna intenzione di dividerle; il primo di cordata sarà enormemente agevolato dai chiodi ravvicinati, potendo sfruttare la trazione esercitata dal secondo che lo mantiene in posizione, a guisa di carrucola e quindi può cavarsela a buon mercato. 
Ma il secondo di cordata? 
Non può usufruire della tensione della corda, anzi la sporgenza contribuisce a farlo penzolare nel vuoto, col rischio che si distacchi dalla roccia e non sia più in grado di toccarla. Uno stallo del genere, se non si è più che preparati a gestirlo, può finire male.
Guardo ancora verso il tetto, è piccolo e non sporge poi tanto, i chiodi poi sono molto vicini, dato che parte Moreno rinuncio a un po' di comodità e porgo a Bruno uno dei miei cordoni, così che possa mantenersi attaccato ai chiodi mentre sale.
Il tiro di corda si rivela assolutamente estenuante e Moreno lo vince con molta fatica, dapprima issandosi su chiodi che sembrano avanzati da una rapina in ferramenta, poi sbuffando e contorcendosi per scavalcare un naso sulla destra e immettendosi nel diedro con un passo elefantesco, sparendo in seguito alla nostra vista.
Dopo un po' arriva il fatidico richiamo e lascio partire Bruno che inizialmente si trova un po' impacciato a gestire il coordinamento cordone, moschettoni e salita; io lo seguo serratamente e lo correggo sulla manovra cosicché riesca a prendere il ritmo e a superare l'ostacolo del tetto. L'azione riesce e poco dopo si trova oltre l'ostacolo. 
Arrivo anche io, invero senza troppo sforzo fino a quando scavalco il nasetto e mi immetto nel diedro dove c'è un passaggio obbligato abbastanza burbero; lo faccio, mi parte giustamente l'appoggio da sotto il piede e resto appeso con le mani riuscendo poi a issarmi con la forza disperazione, impiegando notevoli risorse per vincere il diedro obliquo e strapiombante, raggiungendo poi la sosta senza fiato. 
Ci accomodiamo sulla stretta cornice di sosta guardando verso l'alto: il diedro strapiombante continua presentando un rigonfiamento molto marcato quasi al suo termine, si vedono dei chiodi un po' distanziati che seguono la linea dello stesso.
Mentre gli altri due sono indaffarati io studio il passaggio; ho come il sentore che questo sarà peggio di tutto quello che abbiamo trovato in precedenza. Guardo gli altri: Bruno è momentaneamente cotto dallo strapiombo precedente, Moreno conserva ancora delle energie o ci fa credere di averne ancora. 
Potrei andare io che sono quello messo meglio ma vengo preceduto ancora una volta  da Moreno che si butta a capofitto verso l'ignoto per il bene collettivo; inutile dire che non rivolgo nessuna obiezione, dato cotanto ardore.

Comincia a salire lentamente lungo il diedro, molto più lentamente di prima; questa volta non è più un'arrampicata ritmica e di ragionamento, ma forza bruta concentrata nella rotonda fessura che a mano a mano sporge sempre di più nel vuoto. Dà quasi un senso di protezione, di ambiente raccolto, che avvolge e isola dal mondo esterno nascondendone le insidie, almeno fino a quando qualcuno non guarda giù e si rende conto che si ritrova centinaia di metri di aria sotto i piedi.
Moreno guadagna il diedro centimetro dopo centimetro con grande sforzo, non ha nemmeno l'energia per bestemmiare; arriva sotto la pancia dove la fessura si allarga e ci si trova penzolanti verso l'esterno: il prossimo chiodo è lontano, le pareti del diedro lisce e la fessura molto arrotondata, troppo per fare ben forza con le mani. Prova a puntare i piedi e si lancia verso il chiodo ma non riesce, il piede scivola; prova ancora ma non si slancia abbastanza e si abbandona di peso all'ancoraggio sottostante. 
Io e Bruno lo guardiamo con una certa apprensione, il nostro guerriero che viene respinto così dalla rupe è un pessimo segno. Resta appeso in quella posizione per qualche istante, come arreso ad una forza più grande di lui, poi, in un ritorno di fiamma di italica virilità, adocchia un appoggio minuscolo sul labbro del diedro, ci appoggia il tallone e con una contorsione di braccia spalma il piede destro sotto lo strapiombo alzandosi poco a poco, fino ad arrivare a portata del chiodo. Rapidamente Moreno sfila un rinvio (moschettoni), si lancia sul chiodo e questi entra al volo, mentre mantiene saldamente la presa. E' fatta! Il durissimo passo nel cuore degli strapiombi è vinto. Arriva alla scomodissima sosta successiva e ci chiama guardandoci con aria sfinita, come di chi avesse trasceso la sua condizione umana di prigionia nella carne dando l'ultimo respiro nello sforzo per uscirne.
Adesso però viene il bello.

Dopo che "l'amico fritz" si è sistemato io e Bruno ci mettiamo in marcia. Gentilmente gli riporgo il cordone ma stavolta lo rifiuta e parte a razzo lungo il diedro compiendo ampie bracciate e senza curarsi dello sforzo fino a ritrovarsi a metà completamente appeso nel vuoto. Io lo seguo con un po' più di malizia, facendo ampio uso delle staffe perché so che di lì a un momento lo spettacolo si farà avvincente, però non posso neanche essere da meno e quindi velocizzo la marcia stando alle calcagna del compare.
D'un tratto Bruno tenta di superare di slancio la pancia che aveva sfibrato Moreno solo poco prima e, data la distanza degli ancoraggi, si ritrova catapultato in fuori non riuscendo minimamente a tenere la fessura di fondo. Prova alcune volte ma l'aggetto è eccessivo e non riesce a stare aggrappato, poi si arrende, si stacca dalla roccia e resta lì appeso con la rassegnazione di chi ha dato tutto. Io sono immediatamente sotto e assisto al concretizzarsi di quello che temevo, una situazione di stallo, in cui si è impossibilitati tanto a scendere quanto a salire.
Fortunatamente la nostra cordata è composta di tre persone ed è in casi come questo che il terzo gioca un ruolo fondamentale, conservando lo spirito, le forze e il raziocinio necessari a trarsi d'impaccio e infatti il mio ruolo risulta decisivo.
Mi si presentano due opzioni per risolvere la questione: una è quella di scavalcare Bruno e porgergli una delle mie staffe su cui possa issarsi con tranquillità ma vengo scoraggiato dal fatto che lo spazio è assai angusto e me lo ritroverei di peso addosso finendo per ingarbugliare la situazione già di per sé non facile. L'altra idea è quella che risulta vincente: egli ha appesi all'imbrago un paio di friend (camme meccaniche a incastro) e uno di questi è della misura giusta, così gli grido di infilarlo nella fessura e usarlo per tenersi quel che basta ad acchiappare il famigerato chiodo e dare modo a Moreno di recuperare la corda.
Bruno mi guarda con gli occhi di chi ha avuto un'epifania, sfila il friend, lo incastra nella fessura facendo attenzione che non gli scappi di mano e da uno strattone possente riuscendo nuovamente ad avvicinarsi alla roccia poi, con una mossa che non mi so spiegare, balza ad afferrare finalmente il chiodo risolutivo superando il passaggio e arrivando in sosta con la fierezza del fante sull'Isonzo. Io sopraggiungo con tutta tranquillità poco dopo. 
Sempre Bruno riparte immediatamente per togliersi dalla sosta stretta e scomodissima in cui siamo; seguono ancora dei camini stretti, strapiombanti prima di uscire su un minuscolo terrazzino sul ciglio della parete, fuori dalle difficoltà.
E' ormai sera e siamo allucinati dalla fatica e dalle difficoltà affrontate.
Ci apprestiamo a gettare le corde doppie lungo la via che giustamente riserbano ancora delle emozioni come l'enorme pendolo che fa Bruno quando leva un ancoraggio che serviva a direzionare le corde, volteggiando libero sopra i tetti di Cismòn.
Arriviamo alla macchina che è ormai notte, guardandoci negli occhi e pensando che mai, fino ad allora, avevamo affrontato una via tanto mostruosa.



Col Molton
Il Col Moltòn alle spalle del paese di Cismòn del Grappa

placche sulla Zonta

placche del Col Molton
Sequenza lungo le placche nere

tetto sulla Zonta
Il tetto dopo la grande cengia

diedro della via Zonta
Il famigerato diedro



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