CARMINA BURANA
Il gioiello di Ceraino
Memore della passata esperienza maturata sulle rocce della Valsugana e deciso a sfruttare i due soci fino all'osso vado alla ricerca di un qualche osso duro da rosicchiare. Da tempo sentivo nominare su Facebook la gola di Ceraino come il non-plus-ultra, il must dell'arrampicata in Val d'Adige e così, cercando un po' in giro, mi imbatto in questa via, Carmina Burana, una delle prime e storiche della zona. Trovo una relazione che ne parla in toni lusinghieri, che è anche l'unica che riesco a pescare, e così la invio ai soci.
Le risposte che mi arrivano sono un po' riluttanti, uno prova a deviare il discorso, un altro fa finta di nulla, salta fuori una proposta secondaria ma alla fine, focalizzando tutto il discorso sul profondo camino che bisogna scalare proprio a metà via e sapendo bene come Moreno adori quei meandri muschiosi in cui bisogna strisciare come lombrichi e sudare in ogni centimetro di pelle, riesco a venderla bene e ad ottenere il consenso unanime.
E' il 25 Aprile 2021 e le restrizioni della pandemia sono un po' allentate; siamo i soliti tre io, Bruno e Moreno, il clima non è caldissimo ma neanche tanto fresco e la gola di Ceraino si presta bene alla scalata perché un po' ventilata e nelle ore più calde sulla parete cala l'ombra refrigerante. Fino all'arrivo al parcheggio sulla sponda dell'Adige, il quale scorre cristallino, placido e di colore smeraldo proprio accanto, tutto va come da manuale. Il bello comincia all'attacco.
Le pareti della gola cadono esattamente a picco sull'Adige e solo un piccolo sentierino, peraltro discontinuo, incavato tra le fronde a pelo dell'acqua, consente il passaggio lungo la base della parete. Arrivati ad una piazzola discretamente larga ci perdiamo per un po' col naso all'insù alla ricerca della corretta partenza della via, assomigliamo a tre gonzi in attesa di un asteroide che ponga pietosamente fine ai nostri tormenti ma che, come Godot non arriva mai (per fortuna!!).
Io sono l'unico dei tre che ha la fotografia col tracciato e fatico a mantenere la disciplina, sembro un sergente maggiore in pensione, e intanto il sole impietoso comincia a sfaldare i nostri cervelli già di prima mattina. Per fortuna, tra le fronde dei salici, invece di appendere la cetra e piangere per Sion, riesco ad individuare la linea corretta di camini che solcano il centro della parete, come graffi di gatto e che danno la direttrice della via.
Sulla sinistra ci sono delle rocce piuttosto facili ma erbose mentre sopra di noi si staglia una placca lievemente inclinata e liscia come uno specchio e con un caos di fix vecchi e nuovi che spuntano in tutte le direzioni.
Bruno non indugia, si lega e vuole arrampicare, così parte in quarta a petto in fuori e (occorre dirlo??!) imbocca la linea di fix che va verso sinistra e che corrisponde a "Una faccia, una razza" prendendo come riferimento vago il primo dei camini.
Rinuncio a trattenerlo facendogli notare come si stia imbarcando verso una fatica decisamente inutile, fiato sprecato, è ammaliato dalla placca come Odisseo dal canto delle sirene e così lo guardo salire, con lo sguardo rassegnato di chi deve seguire il primo impavido compagno oltre il parapetto della trincea sapendo che i nemici avranno aggiustato il tiro.
Il socio sale dapprima con buon ritmo, poi sempre più lento, poi si blocca circa due metri sotto un cavetto di acciaio che segna il limite della prima placca, ansima, sbuffa, estrae il "furbo" (detto anche il "vigliacco" da altri utenti che non ammettono di usarlo e no, non darò una spiegazione di che cosa sia, segreti del mestiere) e con un allungamento di "gomma" riesce ad accalappiare il cavetto e a passare. Ovviamente non finisce qui perché poi prosegue lungo un pilastro che fa da spigolo al camino con altri passaggi abbastanza rocamboleschi (Una faccia, una razza è molto forzata e compressa tra due vie esistenti nella sua parte iniziale) e finalmente raggiunge la sosta giusta, la quale poteva essere raggiunta con pochi metri di roccette facili (eh, ma sennò è troppo facile).
Consulto la relazione, dice che la placca iniziale è stata salita dopo l'apertura della via ma che alla fine è facile, un 5c senza troppe pretese. Io e Moreno partiamo e dopo un paio di metri già volano le prime invocazioni alla Santissima Trinità a causa dei movimenti contorti per concatenare i vari buchetti poi, sotto al cavetto di cui prima, forzo il passaggio con un dito della sinistra in un forellino e un paio di sculettate per riuscire a mantenere l'equilibrio sulle punte dei piedi, non male per un 5c. In verità non ricordo dei 5c in cui ci fossero dei monoditi ma forse non ho tutto questo grande repertorio. Raggiungiamo Bruno alla sosta dentro il largo camino e passa il comando a Moreno per la lunghezza successiva.
La lunghezza di corda non è complicata, un camino largo e bene appigliato che il compagno mangia in un boccone. Purtroppo il camino si chiude a campana ed egli è costretto ad uscire a destra in un camino parallelo scavalcando uno spigolo liscio e verticale che lo costringe ad un paio di tentativi per riuscire a domarlo. Dalla fantasiosa scelta di epiteti che udiamo di sotto, capiamo che deve essere un passaggio rognoso e infatti così è quando anche noi lo passiamo.
Da questo punto in avanti iniziano i grandi strapiombi e la via comincia a farsi molto seria. Riparte Bruno, io faccio il turista e mi faccio scarrozzare su, mentre Moreno osserva con apprensione e senza dire una parola. Si innalza dentro una specie di canna d'organo rotonda e con la roccia giallastra vincendo un gradone liscio con un colpo di reni e una bestemmia; poi si infila in un camino tubolare, molto caratteristico e nero. Noi, dal nostro trespolo, lo vediamo sbucare più in alto, dopo la condotta e, dall'aumento della quantità e soprattutto della qualità delle bestemmie, capiamo che la rupe si fa sempre più difficile. Ad un certo punto Bruno si pianta, nel bel mezzo di uno strapiombo; noi lo osserviamo con un sentimento misto di angoscia e cupa accettazione della realtà; Moreno, a differenza del sottoscritto, ha un guizzo di ottimismo in più e si lascia andare alle incitazioni più disparate dello sfortunato cavaliere alle prese con lo strapiombo.
Dopo una lunga, quasi interminabile pausa (ma scoprirò essere stata lunga solo alcuni minuti, la psiche gioca degli strani scherzi) fatta di "dai Brunaccia! Forza Bruno, dai tirati su! Spingi!" a cui seguivano grugniti e blasfemie intraducibili, ecco che arriva il suono tanto atteso "eccolo, eccolo, eccoloooooo!" e in un attimo il socio è oltre l'ostacolo.
Saliamo anche noi il tratto appena percorso e constatiamo che il passaggio che lo aveva bloccato effettivamente richiedeva in po' di inventiva per allungarsi molto in un buco assai arrotondato e con protezioni aleatorie.
Il tratto successivo viene superato velocemente da Moreno ed è il passaggio che da solo forse vale la salita dell'intera via: una fessura che serpeggia in mezzo ai tetti in grande esposizione sul vuoto sottostante. Non ci sono grossi problemi nell'affrontarlo e in breve siamo ancora tutti e tre riuniti su uno scomodo punto di sosta appeso nel vuoto. E' ciò che viene dopo che ci dà invece del filo da torcere.
Al punto in cui siamo arrivati ci troviamo tutti a sinistra e sotto grandi strapiombi, rispetto alle rocce abbattute dell'uscita, pertanto l'itinerario da seguire compie una traversata a destra su una placca liscia proprio sopra il bordo dei tetti: in cima alla placca occhieggiano due chiodi uniti da un cordino, più in basso a destra se ne vedono altri due abbastanza vicini. Capisco al volo che stiamo per avere un grosso problema!
Riparte Bruno; io gli suggerisco che potrebbe essere una buona idea mettere un moschettone sui due chiodi accoppiati da abbandonare per effettuare un pendolo a destra; ho un vecchio moschettone da ferrata che ha circa quindici anni che è adatto allo scopo e non sarebbe una grande perdita per me. Egli non mi ascolta e in breve arriva ai chiodi, li passa con un rinvio e poi, con l'aiuto della corda, piazza un piccolo friend assai precario in una crepa scende ai chiodi sottostanti; segue una placca spiovente e a buchetti che supera di slancio arrivando alla nicchia di sosta. Per adesso nulla di importante, solo che a noi tocca fare la traversata in discesa e senza l'aiuto della corda, l'incubo di ogni secondo, infatti il rischio di caduta a pendolo è alto.
Parto io, arrivo ai chiodi, tolgo la mia corda e inizio la discesa; il posto è impressionante: sono sul ciglio di enormi soffitti, aggrappato a delle tacche minuscole su una placca sostanzialmente liscia. Grazie al mio sistema di assicurazione personale, frutto di un po' di inventiva e di attacchi di "coniglite" acuta, riesco piano piano a calarmi fino ai chiodi rimanendo appeso al bordo del tetto. Prendo fiato e parte anche Moreno. Subito mi accorgo che stiamo per avere una successione di problemi che potrebbero potenzialmente portare ad una catastrofe: le corde sono tutte attorcigliate, Bruno fatica a recuperarle e Moreno non ha cordini di scorta nel caso volasse dalla traversata; se ciò accadesse si ritroverebbe a penzolare alcuni metri sotto di me completamente nel vuoto, senza la possibilità di risalire e senza contare che il labbro del soffitto (esperienza vissuta sulla Rossi Tramonti) potrebbe anche danneggiare la sua corda complicando ulteriormente la situazione. Il non aver voluto fare il pendolo rischia di produrre una tragedia.
Ecco, è a questo punto che il "terzo incomodo", cioè il sottoscritto, partorisce al volo una soluzione che salva la capra e i cavoli, come sulla via Zonta in Vasugana (VEDI). Verifico velocemente i chiodi a cui sono appeso, sono così piantati da essersi cementati nella roccia; li collego e mi ci assicuro saldamente con un cordino, poi mi slego (mossa molto azzardata ma sono ben ancorato e tengo la corda saldamente) e ordino a Moreno di aspettare prima di effettuare la discesa. Con ampie bracciate sciolgo il groppo che si era fatto sulle corde e mi rilego, così finalmente Bruno ci recupera lesto, poi allungo la mia assicurazione sul piccolo friend che era rimasto incastrato, ho come la sensazione che questa sarà la mossa vincente. Moreno riparte e comincia a scendere con estrema lentezza, arriva all'altezza del friend in una posizione arcuata ed estremamente precaria; io lo guardo trattenendo il fiato, è poco sopra la mia posizione.
L'amico fa per abbassarsi ma non riesce a staccare una mano per afferrare l'appiglio successivo e resta paralizzato nella posizione in cui si trova, sotto di lui l'Adige non è più il placido specchio d'acqua che riflette i raggi del sole illuminandoci come a mezzogiorno, ma le fauci di un Moloch che non aspetta altro che carne fresca da ingurgitare. Lo vedo colto da un fremito che lo fa tremare come una foglia sbattuta da un uragano e grida: "adesso casco, adesso casco!!!!" (cado, n.d.a.) e prova a trovare un qualcosa sotto la mano destra a tentoni a cui reggersi come mossa disperata prima del volo, finendo per trovare il mio cordone!
E' questione di un attimo: le convulsioni cessano di colpo, il corpo si riequilibra, le mani trovano una presa salda e i piedi scendono delicatamente; Moreno scende il difficile passaggio e si ristabilisce alla mia altezza riuscendo a sfilare il friend con facilità (ha retto giusto il necessario) e mettendosi comodo. Io riparto velocemente verso l'alto lungo la placca a buchi tosto seguito dal compagno e finalmente tutti e tre ci riuniamo nella nicchia di sosta, sotto l'ultimo scalino.
Dopo il difficile momento vissuto più in basso è nuovamente Moreno che riparte, con cattiveria, vorrebbe piegare a sinistra lungo uno strapiombo dove occhieggiano dei fix ma io lo spedisco lungo le rocce facili e poco dopo siamo in cima alla falesia, con un senso di sfinimento ma anche di grossa soddisfazione per la via appena portata a casa.
La discesa si svolge senza intoppi ma non senza fatica in quanto è lungo una ferrata breve ma molto ripida, con evidenti segni di usura dovuti agli innumerevoli passaggi e poco dopo siamo di nuovo al parcheggio presso la sponda dell'Adige, bolliti, stanchi e affamati.
Il primo camino, prima che inizino gli strapiombi
Il secondo difficile camino
La fessura che serpeggia tra i tetti
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