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venerdì 25 settembre 2020

SOPRAVVISSUTI - CANALONE IMPROVVISO AL GE' DEL CAMP

 SOPRAVVISSUTI

CANALONE IMPROVVISO AL GE' DEL CAMP

Venne il 2016, anno del mio diploma di pianoforte, un esame pesante e lungo, che mi richiese molto studio costante e una certa attenzione nelle mie uscite montane perché se mi fossi fatto del male avrei buttato all'aria parecchio lavoro inutilmente.

Volendo comunque evadere dalla mia prigione come uno scimmione in gabbia coinvolsi il Bocia più nell'escursionismo e nell'esplorazione di alcune zone un po' fuori mano delle montagne più vicine a casa. Fu così che, memore della lettura del libro di Miotto "Pareti del cielo" mi venne l'idea di un tour fotografico nel gruppo del Col Nudo, lungo il sentiero delle Due Forcelle, un giro ad anello sopra la Casera Ditta, in Valle del Vajont. Doveva essere teoricamente una gita per fare fiato e macinare dislivello e che come ricompensa ci avrebbe regalato degli scorci grandiosi a cui pochi occhi avevano dedicato attenzione, senza troppi pensieri. Il problema è che dalla teoria alla pratica passa un intero universo, che la natura se ne frega di noi tristi omuncoli e che purtroppo il pericolo si annida proprio in ciò di cui abbiamo più confidenza. 

Partimmo come da routine e ci incamminammo alla volta della Casera Ditta che raggiungemmo tra una chiacchiera e l'altra in 50 minuti di cammino a larghe falcate. Dopo una piccola pausa ristoro cominciammo a risalire una debole traccia dietro al rifugio che puntava direttamente alla Cima di Camp, una dorsale boscosa in faccia al Col Nudo, quando invece l'idea era di puntare prima alla Forcella Col del Pin e poi di scendere per quel sentiero. Malgrado l'errore la scelta finì per rivelarsi azzeccata in quanto, dopo un'assai ripida salita a bestemmiare sul fogliame viscido, ci trovammo davanti ad un canalone completamente invaso da neve di valanga pressata. Si presentò quindi il dilemma: proseguire o retrocedere? Il Bocia decise per entrambi: avanti! 
In effetti, con gli scarponi rigidi era possibile incidere delle tacche nella crosta della neve e poterne ricavare un appoggio confortevole, così cominciammo lentamente a scalare il canalone, all'inizio un po' prudenti e poi sempre con più ritmo. 
La risalita del canale, in quelle condizioni, non fu particolarmente allegra, non tanto per il pericolo di scivolare, dato che la neve si lasciava modellare facilmente, quanto perché le slavine avevano sradicato tutti gli alberi e cancellato con essi le segnalazioni del sentiero. Ad un certo punto mi accorsi praticamente per caso di una lieve cengetta che si staccava sulla destra portando fuori dal canale nevoso dritta in una macchia di alberi e la imboccai istintivamente trovandovi, per mia fortuna, una segnalazione vecchia su un albero. Percorremmo tutta la cengia, molto stretta e punteggiata di landri (piccole grotte) e risalimmo un ennesimo pendio di erba ripida per sbucare sul crinale della Cima del Camp, in mezzo a campi nevosi ancora consistenti, fuori dalla prima metà del percorso. 

Lo scenario che ci si presentò davanti ricordava l'esplosione di una Tunguska: alberi abbattuti ovunque, nella più totale desolazione; a ciò si aggiungeva il manto nevoso che nascondeva le tracce di passaggio sia degli umani che degli animali e quindi dovemmo cercarci la nostra strada in quel macello, cercando di raggiungere la Forcella del Camp. Dopo un tempo interminabile passato a cercare un passaggio tra gli alberi caduti e i vari scoscendimenti raggiungemmo infine la forcella alle 15,00. Era l'inizio di Aprile e considerando che il percorso normalmente avrebbe richiesto ancora 3 ore di cammino col sentiero perfetto la questione cominciava a farsi preoccupante, soprattutto perché, dopo quanto ci era toccato subire fino a quel momento, non eravamo affatto sicuri che il sentiero sarebbe stato in condizioni ottimali. Inoltre tornare sui nostri passi presupponeva di rifare in discesa il canale nevoso che a questo punto non sarebbe stato più molto confortevole. 

All'improvviso, mentre questi pensieri mi frullavano in testa, vidi una casa ad una distanza ragionevole da noi, in basso, al fondo di una valletta che muore contro la Cima del Camp e detta Val Lagarìa, una laterale del Vajont come la Val Mesaz dove sorge Casera Ditta. Decisi, sotto l'effetto di una sorta di eccitazione nervosa, che la cosa più intelligente da fare era cercare di raggiungere la casetta col percorso più rettilineo possibile per poter rientrare alla macchina ancora con la luce del sole (scelta che alla fine si rivelò ragionevole, anche dopo aver ripercorso il sentiero in senso opposto e con le segnalazioni completamente rifatte). Il Bocia non obbiettò, aveva il volto irrigidito dalla preoccupazione e mi seguì mentre cercavo un percorso camminabile lungo lo spiovente coperto di neve, in mezzo allo sfacelo appena passato. Man mano che procedevo questo accentuava la sua pendenza, divenendo sempre più intollerabile. Ad un certo punto il pendio cominciò a formare un angolo considerevole, troppo accentuato da percorrere senza picca e ramponi, sulla destra scendeva il calanco di una frana e a sinistra un canalone a guisa di imbuto. Scelsi di infilarmi in quest'ultimo e traversai un pendio ripidissimo in mezzo agli alberi, subito seguito dal Bocia che, mentre traversava, osservava inorridito la neve cedere sotto il suo peso e rotolare a valle. Osservai la sua discesa trattenendo il fiato per la tensione mentru lui scendeva un passo alla volta, scavando a calci delle impornte sufficientemente piatte da poter restare in equilibrio mentre dei piccoli blocchi di neve si stacccavano precipitando verso il canale sottostante ed emettendo un sibilo tenue ma sinistro. Fortunatamente tutto andò bene  e mi fermai un momento a riposare ad un albero bello robusto, che formava una piccola piazzola; il Bocia mi superò e proseguì in discesa all'interno del canalone quando subito trovò una spiacevole sorpresa: un collo di bottiglia inclinato a 70°. Carico di fiducia per la traversata appena compiuta non si perse d'animo e, reggendosi ai bastoncini da trekking che affondò con forza, incise la neve con le punte degli scarponi ricavandone delle tacche abbastanza solide da permettere a entrambi di scendere, seppur con grande apprensione (scivolare avrebbe significato arrivare a valle). L'operazione si svolse sotto i miei occhi mentre ero immobile a percepire ogni minimo sussulto, anche se ero consapevole che nulla avrei potuto fare se fosse scivolato e tale "favore" era reciproco.

Dopo una manciata di minuti che parvero eterni entrambi fummo oltre la strozzatura del canale, dove questo spianava leggermente e ciò ci permise una discesa rapida fino a quando terminò la neve; poi iniziarono il fango e il fogliame, scivoloso esattamente come la neve ma senza la possibilità di poterli incidere. 
Scendemmo con molta cautela e dopo un breve tratto in mezzo alla selva il canale presentò all'improvviso un salto verticale, grosso problema dato che non avevamo con noi una corda. Fu un secondo momento di sconforto che richiese alcuni minuti per essere superato e, differentemente dal solito, anche la mia faccia doveva aver assunto un'espressione preoccupata, stando a come mi guardava il socio. Esplorando il bosco alla nostra destra ci incoraggiammo ancora e trovammo che l'interruzione era limitata al solo canale; quando fummo sotto l'interruzione tirammo un primo grosso sospiro di sollievo. 
Passò momentaneamente in testa il Bocia perché avevo bisogno di un momento di tranquillità. Ad un tratto, scendendo un ripido scivolo di foglie mentre io lo lasciavo passare, gli si staccò una zolla da sotto il piede, cadde seduto e iniziò la sua corsa verso il basso guadagnando velocità come (se non peggio) se fosse sulla neve, precipitando verso un abisso insondabile che aspettava solo di ingurgitare carne umana. 
Lo vidi allontanarsi a tutta velocità da me e, alzando lo sguardo, vidi il dirupo davanti a lui: fu un attimo, presi coscienza che era finita e che di lì a pochi istanti mi sarei trovato solo, incapace di chiamare i soccorsi e di aiutarlo, ignaro della sua sorte. Continuai a seguire impietrito la sua scivolata che ora piegava bruscamente a sinistra e si avviava fatalmente verso la fine del pendio, sempre più vicina, ormai solo a due metri di distanza. 
La divina Provvidenza volle che, durante la caduta, il Bocia toccasse violentemente con la chiappa destra un sasso il quale deviò bruscamente la sua traiettoria ed egli finì incagliato contro l'ultimo albero prima del burrone, fermandosi proprio agli ultimi venti centimetri prima dell'ultimo balzo. 
Lì per lì, vedendolo immobile, pensai che si fosse rotto qualcosa e già pensavo che nulla mi avrebbe evitato la tragica scelta che avrei dovuto prendere in quanto eravamo in una zona isolata e senza segnale, quindi in sostanza non sarebbe cambiato nulla eccetto il risparmiarmi l'orrore di vedere sparire l'amico in qualche meandro. Appena dopo però vidi che egli si rialzò piano piano e che necessitava solo di lasciar passare lo spavento, non avendo il fiato per emettere alcun suono. Avevamo sfiorato la tragedia, mi sentii ringiovanire e riuniti alla sua posizione eravamo sollevati che la cosa fosse finita solo con uno spauracchio. Dopo una ben meritata pausa passata a sdrammatizzare riprendemmo il cammino attraverso quell'inferno verde. 

Proseguimmo lungo il canale, ora meno evidente perché in alcuni punti era coperto dalla fitta vegetazione ma procedemmo con tranquillità convinti che dopo l'esperienza passata saremmo stati in grado di far fronte ad altri eventuali imprevisti. Sbagliato!! Poco dopo raggiungemmo un secondo salto, alto circa 15 m con erba verticale e sassi tenuti fermi dal fango, impossibile da scendere senza una corda. Fu il terzo momento di sconforto, il più disarmante fino a quel momento: mi sentii davvero morire dentro e per la prima volta pensai che saremmo dovuti rimanere su quella montagna, incapaci di salire e di scendere, a cercare di passare una notte gelida e penosa fino allo spuntare dell'alba senza avere la certezza di poter fare davvero qualcosa. Avevamo faticato tanto, corso pericoli considerevoli, eravamo arrivati ormai così vicini alla meta e invece tutto si fermò in quel punto, sopra una parete di pochi metri a separarci dal mondo. 
Mentre meditavo sul da farsi, ormai incline alla rassegnazione, vedi che un po' a destra le cime degli alberi che si toccavano, il che segnava un divallamento più regolare del pendio; mi diressi in quella direzione e scoprii che un pino era cresciuto a ridosso della paretina che formava il salto e che i suoi rami si erano inerpicati lungo il pendio come i tentacoli di una gigantesca piovra. Intuii che aggrappandosi ai rami e alle rocce si potesse scendere e con attenzione, lasciandomi scivolare piano piano e centimetro dopo centimetro, riuscii a toccare la base del salto. Guidai il compare attraverso lo stesso passaggio con molta attenzione ma sentii distintamente una nuova, potente e irresistibile energia farsi strada nel mio petto. Era fatta! Sentii che l'ostacolo più grande era ormai alle spalle e mi parve di tornare a vivere, una sensazione potente e pervasiva di tutto il corpo che in quel momento si trovò rinvigorito e al massimo della sua prestazione, nulla avrebbe più potuto fermarci da quel momento in avanti. 

Continuammo ascendere nel canale, adesso più spavaldamente rispetto a prima e poco dopo trovammo un altro salto, un affioramento roccioso che lo sbarrava a metà circa. Andai avanti, questa volta senza stare a guardare troppo a destra o a sinistra e arrampicai le roccette viscide in discesa quando un appiglio mi rimase in mano. Sentii il corpo tremare mentre cercavo di mantenere il baricentro sufficientemente vicino alla roccia per non capovolgermi; iniziai a scivolare coi piedi e a grattare con le unghie ma qualche centimetro sotto il piede sinistro cozzò contro un appoggio piatto e resistente permettendomi di abortire la scivolata e quindi, in un impeto di rabbia, saltai decisamente giù dalle roccette. 
Passai oltre oltre continuando a seguire l'impluvio fino a quando questo cominciò a rinserrarsi tra due muri rocciosi e a compiere delle curve molto brusche, come se fosse un toboga, così scavallai a destra il suo crinale fangoso in preda all'esasperazione e mi misi a correre giù per il pendio, affondando nel fango e incurante di dove fosse rimasto il compagno (di cui però udivo i passi dietro di me) e raggiunsi così il fondo di un torrente. Annaspai ancora nel fango seguendo il corso d'acqua e, presso una cascatella, sbucai su una strada sterrata proprio in prossimità della casa che avevo visto dalla cima. Urlai al compagno che eravamo salvi e che era fatta, eravamo arrivati a fondovalle tutti interi: contrariamente alle impressioni e alle quote topografiche delle cartine, avevamo percorso circa 800 m di canalone e bosco con difficoltà spaventose ed eravamo arrivati vivi e sani.

Stavano per sopraggiungere le tenebre e ci avviammo in fretta lungo la strada che porta a Pineda lungo la sponda del Logo del Vajont, solo che non si intuiva quanta strada avremmo dovuto fare, così chiedemmo ad un signore anziano che indugiava fuori casa; egli ci rispose che saremmo arrivati dopo la curva, oltrepassata la galleria. Certo, come no, sempre chiedere agli indigeni le indicazioni che perché conoscono il posto! Raggiungemmo la macchina si dopo la galleria, ma quasi 3 km più avanti, ormai col buio pesto. 
Il posto in cui eravamo stati era vergine, senza alcuna traccia umana, solo gli animali vi erano stati prima di noi e seguendo le loro tracce avevamo percorso un itinerario nuovo e molto difficile. Lo battezzai Canale dell'Improvviso per la decisione improvvisata di scendere da quel lato, al Ge' del Camp, il torrentello senza nome che scendeva accanto al nostro canale nel rispetto dei nomi locali.

Nel Novembre 2020 sono tornato a Cima Camp e ho percorso il pezzo di itinerario che non avevamo fatto quella volta, ossia partendo da Casera Ditta e salendo a Forcella Col del Pin e poi a Forcella del Camp. A posteriori posso dire che quella volta prendemmo la decisione giusta, il sentiero era infatti franato in alcuni punti e senza segnalazioni l'avremmo sicuramente perso in più punti perdendo tempo prezioso, specie in prossimità di una cresta dove non è affatto intuitivo capire dove bisogna attraversare.

Il Canalone Improvviso è stata la mia prima vera via nuova ed è un peccato che dopo di noi non vi salirà più nessuno, in buone condizioni di innevamento sarebbe un itinerario decisamente notevole e con le corde i salti non costituirebbero un problema. 

Lungo il nevaio di salita

La cengia coi landri

Il canalone nel tratto nevoso poco a monte della strozzatura a 70°

Quasi al termine della neve

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ASCENSIONI AUTUNNALI

 ASCENSIONI AUTUNNALI


Dopo il Diedro dall'Oglio il resto del 2015 trascorse senza avvenimenti degni di nota, tutto da manuale, compresa un'uscita alla Torre Wundt sotto un sole talmente spietato che dovemmo percorrere i camini della parete sud letteralmente saltando da un'ombra ad un'altra, ed eravamo a più di duemila metri!

Il meglio dell'annata però lo avemmo in autunno: riuscimmo a portare a termine "linea di confine" sul Soglio dei Corvi, una parete appena scoperta dall'infaticabile esploratore delle Piccole Dolomiti Tranquillo Balasso e su cui aveva tracciato una serie di itinerari nuovi (aveva cominciato solo l'anno prima). Fu una classica giornata dove tutto andò alla perfezione, lungo un bello spigolo di roccia con passaggi atletici e divertenti, approfittando del tepore di un'alta pressione che faceva tardare l'arrivo della stagione fredda. 
Successivamente fu la volta di un tentativo abortito a causa della partenza ad ora troppo tarda sulla "Tostata del Bostel", un'altra via nuova di Tranquillo Balasso con difficoltà abbastanza sostenute lungo il giallo e strapiombante pilastro del Soglio Bostel, la parete sottostante il paese di Rotzo. Arrivammo in quell'occasione oltre i grandi tetti ma dovemmo ripiegare perché avremmo corso il rischio di trovarci ad arrampicare e fare manovre con la pila frontale in mezzo alla parete. Nonostante ciò riuscimmo comunque a percorrere delle belle e impegnative lunghezze. Nel mese di Dicembre ci trovammo poi a percorrere una via sul Monte Cengio, l'ennesima nuova creazione di Balasso, lungo il pilastro della Terza Pala e chiamata "Loli" che ci regalò una magnifica e atletica scalata lungo diedri e fessure e dove per la prima volta anche il Bocia si trovò alle prese con passaggi di VI (tralascio il fiume di imprecazioni che mi sono beccato per averlo trascinato a soffrire con fraudolenza!). Arrivato Dicembre e con esso il freddo e la neve, oltre ad impegni vari, se ne andò anche l'anno 2015 che tanto era stato colmo di soddisfazioni.


Torre Wundt

Lungo il primo tiro

Nel camino superiore

Vetta della Torre Wundt

Il sottoscritto alla base di Linea di Confine sul Soglio dei Corvi

Il primo tiro visto dall'alto

Valdastico autunnale

Monte Cengio a Dicembre, infondo la Terza Pala con il pilastro della via Loli

Lungo i diedri della via

Il sottoscritto al primo tiro

Tratto chiave della via

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sabato 19 settembre 2020

CIMA DEL LAGO - DIEDRO DALL'OGLIO

CIMA DEL LAGO 

DIEDRO DALL'OGLIO 

Passato il mese di Luglio del 2015, piuttosto caldo e faticoso, venne finalmente un periodo di meritata vacanza e approfittai per organizzare una salita con l'amico svezzato da poco alla montagna e che da poco era divenuto Dottore (nel senso di medico). Come avvenne anni prima andai alla ricerca di una via facile ma lunga per rimettere in sesto le braccia e il fiato dopo il periodo di inattività: aprii la Bibbia del Buscaini sulle Dolomiti Orientali e la scelta cadde su questa via degli anni '50 aperta da Dall'Oglio e Consiglio lungo un regolare diedro nel gruppo di Fanis.

Piazzammo la tenda in una radura abbastanza nascosta lungo il fiume che costeggia la strada che sale alla Capanna Alpina e il Dottore tirò fuori un bel materassino da tenda "matrimoniale" su cui dovemmo dividerci i cm quadrati disponibili, senza agitarsi. Passò la notte con un sonno altalenante ma che tutto sommato rimase calda e la mattina, assonnati e con una pigrizia sopraggiunta come le zecche che non si staccano, ci avviammo alla volta della parete, partendo assai di buon'ora dato che ormai lo stare distesi a contare i minuti era divenuto straziante. Scambiammo giusto due parole con una coppia decisamente più matura di noi che ci superò allegramente nella faticosa salita verso l'attacco, mentre le nostre pance vuote e penzolanti di nullafacentismo ci ostacolavano il cammino. Arrivammo comunque alla base della parete, mentre la coppia di prima si stava alzando lungo lo zoccolo sacramentando abbondantemente malgrado l'apparenza bonaria. Partii anche io e capii subito il perché di tante bestemmie: lo zoccolo era un ghiaione, una catasta di rocce sfasciate e accatastate le quali, oltre a non fornire assolutamente una valida presa, rischiavano di lobotomizzare il compare di sotto (nel mio caso si sarebbero rotti i sassi). Al primo tiro mancai la sosta di pochi metri e dovetti attrezzarne una alla buona coi friend dentro dei buchi non molto rassicuranti (ma vince la quantità). Ai tiri successivi la nuotata continuò, sempre su terreno precario e con notevoli impacci causati dalle corde che, ovviamente, non perdevano occasione di impigliarsi su ogni minima asperità non necessariamente fissa. Arrivammo alla cengia a metà della via esausti e con le mani tremanti vista l'arrampicata del tutto inaspettata che avevamo dovuto affrontare. Indietro non si tornava e quindi avanti!!!

Traversata la cengia verso destra mi portai sotto una nicchia rotonda chiusa da uno strapiombo; nel frattempo il sole si fece cocente malgrado la quota di 2000 m. Dopo qualche tentennamento decisi di infilarmi nell'incavo per rimanere bloccato ancora una volta incerto sul da farsi: bisognerà affrontare lo strapiombo? Devo uscire a destra? Perché non c'è nulla? Le difficoltà non erano eccessive comunque avessi deciso di procedere ma per non sapere né leggere e né scrivere piantai un buon chiodo e uscii dalla nicchia a destra trovando subito un chiodo di via nascosto in un buco. A quest'ultimo seguì un diedro strapiombante faticoso che mi portò ad un misero terrazzino di sosta con un'ancor più misera sosta; la roccia però migliorò decisamente quasi ciò che avevamo passato prima fosse una sorta di selezione. La lunghezza successiva fece dimenticare tutte le tribolazioni: una placca compatta e monolitica che più in alto si chiudeva a diedro e che regalava un'ottima arrampicata su belle e solide maniglie. 

Alla sosta successiva fummo raggiunti da un gruppo di cinque "stagionati" provenienti dalla Toscana e la cui età media era difficile da definire. Probabilmente la somma di tutte le loro età avrebbe coperto il tempo che separava noi da Leonardo. Essi procedevano con una cordata da 3 ed una da due, ci raggiunsero e per cercare di far presto ci sorpassarono cercando di accorpare i tiri con conseguenti ingarbugli delle corde e con il problema ulteriore di suddividere ulteriormente le già non spaziose piazzole di sosta sui magri e usurati chiodi (con conseguenti auguri di "buona salute" rivolti alla loro direzione). Malgrado il caldo torrido e la grande confusione generata dal sopraggiungere delle altre due cordate la scalata procedette a suon di "mi fa male la prostata...ti sto tenendo con le mani...fermati che ho lo protesi all'anca, Maremma maiala...(e non solo quella)" lungo la fenditura principale del diedro, col loro capocordata in testa e io subito dietro. Il diedro qui si fece di proporzioni enormi, fino all'ultimo tiro, magnifico. Alla fine, vista l'evidente stanchezza di noi due e della situazione di groviglio  che si era venuta a creare approfittai della generosità della cordata da due, formata da lui e lei, per avere un passaggio da secondo, rilassarmi un attimo e sveltire l'uscita in cresta. 

Arrivammo in cima alle 17,00, stanchi fino nell'anima ma contenti e soddisfatti ma non era ancora finita. Ci avviammo lungo la discesa, per tracce e con le corde ormai legate per il trasporto fino ad una calata in corda doppia, l'unica di tutta la discesa, in cui il gruppetto di vecchi si ostinò a voler ritirare le proprie corde per sveltire la discesa, secondo loro. Ci costrinsero quindi a sciogliere le corde appena raggomitolate, legarle insieme, calarci, bestemmiare per il groppo che ne conseguì e in tutto a perdemmo quasi un'ora per superare l'ostacolo. Arrivammo giù al Rifugio Scoiattoli stanchi, giusto per un panino, prima di riprendere il sentiero di discesa con la sorpresa che il rifugista ci chiese che fine avessero fatto i tizi dalla prostata ingrossata che non si erano ancora fatti vivi e cominciava ad essere in pensiero. Lo tranquillizzammo dicendo che probabilmente erano già alla macchina e continuammo la discesa. Ritornammo stanchi morti alla radura dove ripiazzammo la tenda e ci riaccomodammo sul materassino matrimoniale che si bucò, e su cui facemmo involontariamente l'altalena per tutto il resto della notte.


Relazione


La Cima del Lago dal parcheggio

La stessa vista dopo il Rifugio Scoiattoli

La base della parete

Lungo la parte centrale del diedro

Lungo l'ultima fessura



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