CAMPANILE DULFER
Venne l'anno 2013 e alla nostra cordata si aggiunse un certo Giovanni, uno con la grinta giusta per affrontare le super vie delle Dolomiti e delle Alpi in genere.
Paolo desiderava da un po' salire questo celebre campanile dei Cadini di Misurina, perché per un po' se l'era dimenticato e glielo rimisi in testa io, perché avevo letto in un libro che era uno dei più begli spigoli delle Dolomiti (ovviamente chi l'aveva scritto ben si era guardato da esprimere i criteri di valutazione). Combinammo un fine settimana per salirne la classica via di Hans Dulfer aperta negli anni '10 lungo l'affilato e verticale spigolo.
La domenica mattina iniziò piuttosto fredda, soprattutto dopo aver passato la notte nella topaia del locale invernale del rifugio, perché il resto era "pieno" di un corso di laureandi in medicina (quattro gatti), però c'era un cielo terso e promettente.
Ci avviammo tutti e tre con calma alla base della torre che sembrava dietro l'angolo, forse perché il movimento portava calore.
La via si dimostrò impegnativa e delicata fin da subito, molto più di quanto non dichiarino le relazioni circolanti in quanto è quasi completamente schiodata e non aveva l'aria della super classica in cui fare la fila, ossia come l'avevano venduta fino a quel momento.
Da questo avrei dovuto darmi una svegliata per quanto riguarda certi personaggi che dicevano "ma ai miei tempi noi facevamo, noi brigavamo" e scemenze simili, 'sto paio di palle! "Ai miei tempi" ma col culo di qualcun altro!
Ci volle ancora un po' per scuotermi ma le mie certezze subirono un primo scossone.
Il secondo tiro, benché tecnicamente facile, ci mostrò subito tutta la delicatezza di un tiro "classico" dolomitico: un lunghissimo traverso di 40 m in cui era vietato volare per tutti i membri della cordata, in quanto non c'erano fessure dove mettere chiodi o altro ma si poteva solo tastare bene la roccia e procedere lentamente. La sosta di recupero poi era una delizia: larga e spaziosa come un comodino, solida come un muro a secco sulla sabbia, che ovviamente bisognava dividere i tre.
Seguì uno strano passaggio che ci fece perdere tempo ma che dimostrava appieno l'intuito dei primi salitori in quanto i grandi strapiombi che ci sovrastavano venivano aggirati con un tratto in discesa verso sinistra per imboccare un invisibile camino.
Le lunghezze di corda successive si susseguirono un po' più tranquille, con Giovanni al comando, fino quasi alla cima in cui toccò a me condurre la cordata. Altre due lunghezze su ottima roccia lavorata e in grande esposizione filarono via lisce e senza problemi fino all'ultima placca prima della vetta.
Sostammo tutti e tre in una grossa nicchia, il solo altro punto in cui rinvenimmo dei chiodi di sosta, compreso il primo tiro e il tratto appena compiuto da me. Dopo un attimo di pausa per riprendere fiato partii per la lunghezza seguente, ovviamente con un solo chiodo in 50 m di V grado e scarse possibilità di rinforzare (via super classica...mavaff...!). Mentre lottavo con uno strapiombo panciuto ci raggiunse un'altra cordata che era salita in velocità lungo il nostro stesso itinerario, senza zaini, senza vestiario (noi sbattevamo i denti dal freddo e questi erano in maglietta e pantaloncini) con solo le corde e tre friend per essere più "leggeri" (chissà cosa avrebbero fatto se si fossero trovati fuorivia, magari in una placca panciuta senza possibilità di proteggersi e di retrocedere. Ma vaff...anche a 'sti modaioli che si credono chissà chi!!!).
Approfittai allora per chiedere loro un "passaggio" grazie alle loro corde tese, visto che erano svelti e ci stavano scavalcando, allo scopo di velocizzare il nostro arrivo in vetta, dato che nel mentre si andavano addensando delle nubi da nord. Molto gentilmente i due acconsentirono (menomale) e proseguirono seguiti immediatamente dal sottoscritto. Una volta che il loro capocordata arrivò in sosta gli urlai di tenere le corde bloccate un momento per permettermi di passare una nicchia e raggiungere un buon chiodo e così diedi due possenti bracciate per issarmi su quando sentii arrivare delle urla disperate che mi bloccarono pietrificato, non riuscendo a distinguere le parole. Contemporaneamente un tuono rimbombò tra le vette circostanti e il cielo si incupì di colpo (nel giro di una decina di minuti) facendoci sprofondare nella nebbia.
Cercai di non badare alle lagne che mi giungevano dall'alto e proseguii verso un diedro fornito di ottima clessidra quando all'improvviso mi piovve addosso una valanga d'acqua mista a nevischio che cominciò ad imbiancare rapidamente la zona circostante e, bloccato in quella posizione infelice, non potei fare altro che sorbirmela tutta sperando nella magra protezione del kwai. Tutto ciò avvenne mentre i miei due soci sghignazzavano allegramente al riparo nella nicchia di sosta.
Il temporale durò per un po', circa una mezz'ora, bastevole a gelarmi il sangue nelle vene, a togliere il sorriso dalle facce dei due compagni e a ridurmi come la spugna servita a Cristo agonizzante.
Mi decisi a tirare in ballo Giovanni per riprendere il comando facendosi aiutare dalla cordata che ci aveva incrociato e che era rimasta intrappolata come noi nel temporale. Acconsentì senza obbiettare e anche l'altro ragazzo non si oppose. Giovanni mi raggiunse, mi sorpasso e dopo poco arrivammo tutti sulla cima della torre, giusto per tirare un po' il fiato e tentare di scaldarsi un po' al sole, fortunosamente risbucato dalle nuvole, mentre l'altra cordata si avviò direttamente alla discesa.
In quel mentre Giovanni mi guardò, accennò un sorriso molto amaro e mi sussurrò il motivo del perché mi giunsero delle urla disperate dall'alto, ossia il pericolo micidiale avevamo corso ignari solo poco prima, quando avevo strattonato la corda degli altri due per superare la nicchia strapiombante: il capocordata, che mi aveva rassicurato, lo ribadisco, sul fatto che avrebbe tenuto bloccate le corde per permettermi di issarmi nel tratto più scabroso, visto il temporale in arrivo, aveva nella fretta allestito una sosta e recuperato il compagno, il sottoscritto e Giovanni su un solo friend (specie di cuneo meccanico a molla) malamente appoggiato tra due macigni; se fosse venuto via per uno strattone avremmo avuto sicuramente due morti, uno gravemente inforunato, un altro con qualche escoriazione (grazie alla robusta clessidra) ed uno incapacitato ad intendere e volere. Per fortuna eravamo saldamente ancorati ai chiodi di sosta nella nicchia.
A questo segue una riflessione: come ho avuto modo di sperimentare varie volte in seguito (questa fu solo la prima), tutto il discorso sui gradi, la tecnica cresciuta in falesia, la velocità sul facile, sicurezza delle dita, ecc., sono solo UN MUCCHIO DI BALLE raccontate da gente ignorante che firma i documenti con la X (ad insulto di gente poco istruita ma che fece la guerra e altre grandi prodezze), che si mette a cianciare di cose che non sa, o che ha solo sentito dire.
Costoro o mentono per motivi di immagine o dovrebbero fare un pellegrinaggio in qualche luogo santo per la fortuna che hanno avuto e che poi se ne vadano a prenderlo dove non batte il sole!!!! Purtroppo di gente che ciarla ce n'è troppa.
La cosa più importante è essere padroni della tecnica, ossia dell'uso corretto del materiale a partire dai concetti più semplici, non farsi scrupoli nel prendersi il tempo che serve (e se è troppo si torna a casa prima di inguaiarsi) a progredire sicuri e conoscere il più possibile l'ambiente che si va ad affrontare (inteso anche come luogo geografico). Dopo di questo arriva anche l'allenamento muscolare.
Dopo il momento di religioso silenzio per il dramma appena vissuto iniziammo anche noi la discesa e buttammo la prima doppia sul lato opposto del campanile.
Giovanni affrontò per primo l'abisso e scomparve alla nostra vista. Dopo un lungo periodo di attesa in cui non si sentiva nulla dal basso io e Paolo cominciammo a chiamare e a inveire verso il poveretto là appeso come un salame fin quando, dopo diversi improperi ed un'attesa snervante arrivò il tanto sospirato richiamo di "corda libera" che significava abbandonare quello stretto fazzoletto orizzontale per fare i conti col vuoto.
Capimmo poco dopo perché Giovanni era rimasto bloccato, anche se non mancavo di prenderlo in giro per il suo trastullo fanciullesco: le corde infatti non finivano nei pressi della calata successiva ma su un vuoto insondabile da cui sarebbe stato necessario pendolare verso la forcella formata dal campanile col corpo principale della montagna (manovra che rese famosa l'ascensione e che mise nei guai più di qualche ripetitore, come scoprimmo in seguito). Giovanni dovette quindi dondolarsi sugli ultimi centimetri delle corde per riuscire a raggiungere un pianerottolo mentre noi coi piedi ben piazzati a terra lo "incitavamo" a darsi una mossa, ovviamente col rischio che le corde si sfilassero del tutto dal suo discensore.
Non finì lì, infatti, appena riuniti tutti e tre sulla forcella, le corde rimasero incagliate da qualche parte sopra il grande strapiombo che ci sovrastava, lasciandoci come tre vacche che fissano la discesa di un possente asteroide, mentre la sera cominciava a calare su di noi. Provammo a turno tutti e tre a tirare una delle corde ma nulla, il nodo di giunzione era saldamente incastrato lassù da qualche parte. Ci mettemmo tutti e tre su una corda solo ma nulla, erano immobili come bastoni di legno. Ad un tratto Giovanni ebbe un'idea (che aveva sfiorato anche me ma che non avevo il coraggio di proporre): essendo io il più pesante del trio mi sarei legato con un nodo autobloccante alla corda e ci sarei saltato sopra nel tentativo di strappare il nodo di giunzione dalla sua posizione, con un cordino sarei rimasto attaccato alla sosta principale. Giustamente bisogna mandare avanti i giovani!
L'idea non era per nulla piacevole, data la posizione spaziosa come un tavolino da bar, sospesa su orridi canali dipartentesi dalla piccola forcellina della torre ma, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente le corde cominciarono a scorrere, seppure con molta fatica.
Qualche centinaio di tentativo dopo era fatta, tutti e tre cominciammo a tornare alla vita dopo questa lunga serie di "emozioni forti". Proseguimmo con le calate che per altre due volte videro le corde incagliarsi. La differenza fu che fummo più previdenti nel buttare le doppie e fu più facile levarle dai piedi. All'ultima calata in corda doppia Giovanni mancò la sosta finendo su un terrazzino dove fu costretto a slegarsi e ad aspettare la nostra discesa prima di riportarsi in carreggiata, tanto per non farsi mancare nulla. Arrivammo alle ghiaie col buio che avanzava, lieti finalmente di essere su qualcosa di orizzontale, baciando il terreno. Sapemmo in seguito, ripassando per il rifugio, che anche i due che ci avevano preceduto avevano vissuto momenti di terrore lungo la discesa per l'incagliamento sistematico delle corde doppie. Beh, magra consolazione, almeno potevamo dire di non essere del tutto impediti.
Sulla strada del ritorno, ormai alle due di notte, una pattuglia ci fermò per fare un controllo e ci fece aprire il bagagliaio pensando che fossimo spacciatori di ritorno da una discoteca.
Fu l'ultima emozione dell'uscita.
Il Campanile Dulfer con lo spigolo.
Momenti di scalata sulla parte alta dello spigolo
Lungo la parte bassa per un magnifico diedro
Il tratto più affilato dello spigolo
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