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lunedì 17 agosto 2020

IL BOCIA - Si cambia registro

 IL BOCIA

Si cambia registro

Il primo incontro con "il Bocia" avvenne durante il raduno organizzato dall'amico Giovanni al Rifugio Brentari nella piovosa estate del 2014. Il caro amico comune lavorò dietro le quinte per "combinare il matrimonio", tenendo ovviamente i due diretti interessati ignari di quello che li aspettava e fu così che dopo qualche mese ci ritrovammo ad arrampicare sui Colli Euganei, prima a Monte Pirio e poi a Rocca Pendice, tanto per fare muscoli. Il Bocia era volenteroso e fresco di scuola del CAI così cominciai ad aggiungere al suo repertorio di nozioni qualche trucchetto imparato a dura fatica sulla mia pelle. 

Il nomignolo di Bocia glielo affibbiai durante la prima uscita in falesia a Monte Pirio, era inverno ma in una giornata soleggiata. Scelsi lo Spigolo della Grande, la via in assoluto più facile della falesia (ma anche la più carina, secondo me) e mi legai pronto a partire quando il "caiano" cominciò ad apostrofarmi (o meglio, a passarmi la carta vetrata sui gioielli) sul nodo, sul come mettere la corda nei rinvii, sul punto dove stavo salendo quando e se fosse meglio partire più dritti quando ribattei secco: "senti, tasi e 'scolta il vecio che ga i cavei bianchi", così lui di ritorno "ah, cussì mi sarìa el Bocia". Da quel momento mi riferii a lui quasi sempre come a "il Bocia", che in dialetto significa ragazzino, adolescente, inesperto. 

Dopo le prime uscite in falesia, non prive di situazioni pittoresche, venne la primavera del 2015 e con essa la prima vera e propria scalata in montagna. Optai per uno sparuto pinnacolo vicino a Rimini, la Penna del Gesso, che avevo già salito per un itinerario  di scarso interesse (vedi pagina Appennino) nell'autunno con Paolo e Stefano ma scegliendo questa volta la via Diretta allo Spallone, ossia la via più ardua, che obbligava a dei passaggi artificiali. La via cominciava subito con dei passaggi non difficili ma abbastanza atletici tra appigli e staffe, sempre su buoni chiodi, fino alla prima sosta, in cui recuperai il Bocia sorbendomi una buona ora di vento gelido col vento gelido, il minimo vestiario sindacale e la moccola al naso, dato che lo zaino l'aveva lui. Quel giorno, tra l'altro, ci metteva più del solito, mannaggia! Raggelato in quella posizione e coi muscoli intorpiditi, chiesi pietà e lo feci andare avanti sul tiro seguente perché nel frattempo dovevo scongelarmi come lo Scoiattolo dell'Era Glaciale. Dopo una prima esitazione il Bocia proseguì piano piano (ma io ora avevo il vestiario) fino a prendere il ritmo, inaugurando il suo primo tiro da capocordata e raggiunse poco dopo una scomodissima sosta appesa in cui lui era già di troppo. Lo raggiunsi per scaldarmi scoprendo che pochi metri al di sopra della mia postazione la corrente d'aria cessava lasciando spazio ad un sole spietato, malgrado la stagione e proseguii rapidamente verso l'alto con una serie di passaggi atletici fino a sbucare sul grande pianoro della spalla. Il raggiungimento della vetta fu una formalità. Fu una salita di soddisfazione, immersa nel panorama dell'Appennino romagnolo in cui sperimentammo una tecnica artificiale a cordini statici decisamente desueta e poco utile ma che avremmo usato ancora prima di perfezionare il sistema per l'apertura di itinerari decisamente più difficili.

Nei mesi seguenti seguirono alcune altre ripetizioni in cui il Bocia provò anche la progressione da primo di cordata acquisendo gradatamente capacità, come sulla Via Teresa alla Parete Zebrata, e un tentativo fallito di ripetere la via Maestri-Alimonta alla Rocca di San Leo a causa del maltempo (incredibile ma vero, nel riminese è facile incappare in temporali estremamente violenti). Una bella ripetizione fu quella che facemmo alla Pietra Bismantova, scelta come ripiego per il maltempo in montagna nel mese di giugno. Optammo per la via più facile della parete est, ossia la Pincelli-Brianti che sale per canali sopra l'anfiteatro. A differenza della montagna sulla Bismantova splendeva il sole più cocente e spietato e per tutto il giorno non si vide l'ombra di una nuvola. Riserbai a me il tiro chiave della via, un diedro che richiedeva dei movimenti un po' atletici, scalato mentre mi soffiavo sulle dita ustionate dalla roccia non proprio fresca e lasciai andare il Bocia da capocordata sul resto della via. Alle soste i vestiti non avevano più un centimetro quadrato che non stesse per andare a fuoco, perfino gli alluci appena infilati nelle scarpette scottavano. Arrivati all'ultimo camino il Bocia finì per bloccarsi davanti alle "dimensioni" della vulvare fenditura che sbarrava l'eroica ascesa, uno stretto budello che richiedeva dei passi ad incastro e che era troppo stretto. Dopo le prime lamentele prontamente sedate dai miei "incitamenti", uniti dalla prospettiva di passare un po' di tempo ad abbronzarsi, il Bocia provò a entrare con più decisione nel camino, vi si spinse dentro strisciando centimetro dopo centimetro e spinse con tutte le sue forze. Passato un tempo interminabile in cui sognavo il raffreddamento ad azoto liquido dei telescopi il ragazzo saltò fuori dal camino come il tappo da una bottiglia di spumante e volò in alto fino alla sosta dove un escursionista, pietosamente gli offrì un sorso di acqua.

Arrivò in fretta l'estate e il momento in cui mi dedicai al diploma di composizione al Conservatorio che mi tenne impegnato ben tutto il mese di Luglio e quindi per il momento ci fu una pausa dalle avventure in croda prima di riprendere nel mese di Agosto.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/appennino.html

La Penna del Gesso

Il Bocia lungo il primo tiro della Diretta

Verso la scomodissima sosta del secondo tiro

La Pietra Bismantova

Il Bocia si avvia al camino finale

Lungo la via Teresa alla Perete Zebrata

Sempre lungo le placche della via Teresa


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CIMA D'ASTA - Via Lino Egidio

 CIMA D'ASTA

Via Lino Egidio

Il 2014 fu un anno magro e di cui ricordo poco, in parte a causa del maltempo e in parte a causa di problemi di studio ma una delle uscite meritevoli di essere ricordate fu questa. 

Giovanni organizzò quell'estate un meeting di amici tra escursionisti e rocciatori e di questi ultimi riuscimmo a formare due cordate con l'intenzione di percorrere una via sulla bella e granitica parete sud di Cima d'Asta. Avevo già affrontato delle salite fisicamente faticose e pensavo che sarebbe stata l'occasione di rimettermi in sesto dopo tanta attesa ma in verità non sapevo a cosa stavo andando incontro. Ero completamente fuori forma, in un modo che mi sorprese del tutto, peggio che negli anni precedenti e la salita al Rifugio Ottone Brentari fu infatti un supplizio al punto che per togliere la forma quadra al mio posteriore dovetti quasi ricorrere allo scalpello. A ciò ci mettemmo anche il fatto che non volevo assolutamente perdermi la via a Cima d'Asta e che non volevo assolutamente apparire meno degli altri, avevo un'immagine da mantenere (?). 
La salita lungo il sentiero, di per sé non troppo impegnativa, fu sufficiente ad esaurire il mio povero bacino di risorse disponibili, tanto che arrancavo sul sentiero cercando in ogni modo di risparmiare energie e di mantenere un contegno dignitoso, implorando che una bufera, un asteroide o la guerra atomica ponesse fine al supplizio. Per poco non fui ascoltato perché un acquazzone violento ci flagellò per una buona parte della salita, formando torrenti dove prima non c'erano e il freddo pungente si insediò in quota, rendendo obbligatorio il vestirsi pesante.

Arrivai al rifugio abbastanza cotto, con l'impellente desiderio di dormire ma per non fare il separatista mi sorbii tutta la festa della sera per i ritrovati del meeting, tenendomi gli occhi aperti con gli stuzzicadenti. Anche se dormii nel camerone non udii nessun suono fino alla sveglia della mattina.

Il mattino seguente, ancora un po' rintronato dal giorno prima, raccolsi le forze, credendo erroneamente che una notte di cibo e buon sonno m'avesse potuto ristabilire in fretta e mi misi in cammino con Giovanni e con gli altri due arrampicatori per andare a ripetere una via sulla parete di Cima d'Asta. Il primo obbiettivo era la via Roger, una delle vie dure di Cima d'Asta, a perpendicolo sotto la vetta ma le cascate d'acqua che ancora scolavano giù per i camini ci invitarono gentilmente a far ricadere la nostra scelta sulla via Lino Eigidio perché in quel momento era l'unica via che si presentasse meno bagnata (asciutta era pretendere troppo). 
Iniziammo la via sotto un bel sole ma sempre vestiti di tutto punto perché l'astro non era sufficiente a scaldare l'aria, ancora densa di vapori delle piogge cadute nei giorni precedenti e di una brezzolina fredda che saliva dal fondovalle. Gli altri partirono di gran carriera e noi ci accodammo con buon ritmo, sotto delle colate d'acqua gelida lungo lastroni di granito che erano un vero supplizio per mani e piedi. Malgrado il freddo, la via scorse abbastanza tranquilla e veloce con Giovanni in testa fino ai camini terminali quando un tuono rimbombò alle nostre spalle; ci voltammo e ci trovammo improvvisamente in un cielo surreale: la vetta cominciò ad essere inghiottita da nubi nere, segno di un temporale da nord, e dietro sulla valle nubi alcune nubi bianche interruppero il sereno nascondendo altri cumulonembi in arrivo da ovest, il tutto mentre su di noi splendeva il sole. 
Cominciammo a correre verso l'uscita incuranti dei continui rivoli d'acqua mentre i tuoni si facevano sempre più vicini; inutile dire che correre era un modo per mettere le mie energie in riserva, considerando anche il fatto che bisognava tornare poi a valle. Per guadagnare tempo Giovanni prese a recuperarmi a spalla o su degli spuntoni con l'implicito imperativo "vietato volare", specie sul friabile pendio finale cosparso di blocchi traballanti; lo sapevo, era sensato, tenni la concentrazione fino all'ultimo centimetro e tutto filò liscio. 
Alla fine, proprio quando fummo inghiottiti completamente dalle nuvole scure, raggiungemmo la cresta sommitale, fuori dai pericolosi camini della via. Qui tirammo il fiato e incominciammo, o meglio, io incominciai piano piano la discesa lungo il sentiero sulle gande di granito per rientrare al rifugio. Io ero il più stanco della combriccola e rimasi indietro, scendendo con attenzione a gambe rigide perché tendevano ad addormentarsi, abbastanza spossato dalla corsa fatta su per la via e per il poco allenamento che ora cominciava a farsi determinante. Mentre scendevo il dolce declivio che porta al rifugio mi ritrovai sommerso da una grandinata fittissima e circondato da fulmini come in un film di fantascienza. A coronare il simpatico quadretto ci fu il fatto che ero completamente ricoperto dall'acciaio del materiale di arrampicata; provai a infilare la mantella che finì col coprirmi solo in parte e così potei godere l'orgasmo dello zaino inzuppato e della grandine nel collo fino infondo. Raggiunsi il rifugio sano e salvo dopo essermi gustato interamente la grandinata, immerso in un paesaggio invernale che fino ad allora avevo letto solo nei libri. Nella discesa mi cadde anche la corda lungo il sentiero e la mia faccia da zombie convinse Giovanni a fare un salto a prenderla, fortunatamente non era tanto distante. 

La discesa dal Rifugio Brentari fu tranquilla, in un andirivieni di temporali ma col meteo che volse gradualmente al bello e fu in questo momento che feci la conoscenza del "Bocia", futuro partner in nuove e "mirabolanti" imprese.


https://alerossimusic.blogspot.com/p/dolomiti.html

La parete sud di Cima d'Asta dal Rifugio Brentari

In azione sulla parte iniziale, quando il meteo era ancora bello

Lungo i bellissimi camini

Verso il laghetto di Cima d'Asta col tempo che va peggiorando

Temporale in arrivo

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sabato 15 agosto 2020

CAMPANILE DULFER

 CAMPANILE DULFER

Venne l'anno 2013 e alla nostra cordata si aggiunse un certo Giovanni, uno con la grinta giusta per affrontare le super vie delle Dolomiti e delle Alpi in genere. 
Paolo desiderava da un po' salire questo celebre campanile dei Cadini di Misurina, perché per un po' se l'era dimenticato e glielo rimisi in testa io, perché avevo letto in un libro che era uno dei più begli spigoli delle Dolomiti (ovviamente chi l'aveva scritto ben si era guardato da esprimere i criteri di valutazione). Combinammo un fine settimana per salirne la classica via di Hans Dulfer aperta negli anni '10 lungo l'affilato e verticale spigolo.

La domenica mattina iniziò piuttosto fredda, soprattutto dopo aver passato la notte nella topaia del locale invernale del rifugio, perché il resto era "pieno" di un corso di laureandi in medicina (quattro gatti), però c'era un cielo terso e promettente. 
Ci avviammo tutti e tre con calma alla base della torre che sembrava dietro l'angolo, forse perché il movimento portava calore. 
La via si dimostrò impegnativa e delicata fin da subito, molto più di quanto non dichiarino le relazioni circolanti in quanto è quasi completamente schiodata e non aveva l'aria della super classica in cui fare la fila, ossia come l'avevano venduta fino a quel momento. 
Da questo avrei dovuto darmi una svegliata per quanto riguarda certi personaggi che dicevano "ma ai miei tempi noi facevamo, noi brigavamo" e scemenze simili, 'sto paio di palle! "Ai miei tempi" ma col culo di qualcun altro! 
Ci volle ancora un po' per scuotermi ma le mie certezze subirono un primo scossone.

Il secondo tiro, benché tecnicamente facile, ci mostrò subito tutta la delicatezza di un tiro "classico" dolomitico: un lunghissimo traverso di 40  m in cui era vietato volare per tutti i membri della cordata, in quanto non c'erano fessure dove mettere chiodi o altro ma si poteva solo tastare bene la roccia e procedere lentamente. La sosta di recupero poi era una delizia: larga e spaziosa come un comodino, solida come un muro a secco sulla sabbia, che ovviamente bisognava dividere i tre. 
Seguì uno strano passaggio che ci fece perdere tempo ma che dimostrava appieno l'intuito dei primi salitori in quanto i grandi strapiombi che ci sovrastavano venivano aggirati con un tratto in discesa verso sinistra per imboccare un invisibile camino. 
Le lunghezze di corda successive si susseguirono un po' più tranquille, con Giovanni al comando, fino quasi alla cima in cui toccò a me condurre la cordata. Altre due lunghezze su ottima roccia lavorata e in grande esposizione filarono via lisce e senza problemi fino all'ultima placca prima della vetta. 

Sostammo tutti e tre in una grossa nicchia, il solo altro punto in cui rinvenimmo dei chiodi di sosta, compreso il primo tiro e il tratto appena compiuto da me. Dopo un attimo di pausa per riprendere fiato partii per la lunghezza seguente, ovviamente con un solo chiodo in 50 m di V grado e scarse possibilità di rinforzare (via super classica...mavaff...!). Mentre lottavo con uno strapiombo panciuto ci raggiunse un'altra cordata che era salita in velocità lungo il nostro stesso itinerario, senza zaini, senza vestiario (noi sbattevamo i denti dal freddo e questi erano in maglietta e pantaloncini) con solo le corde e tre friend per essere più "leggeri" (chissà cosa avrebbero fatto se si fossero trovati fuorivia, magari in una placca panciuta senza possibilità di proteggersi e di retrocedere. Ma vaff...anche a 'sti modaioli che si credono chissà chi!!!). 
Approfittai allora per chiedere loro un "passaggio" grazie alle loro corde tese, visto che erano svelti e ci stavano scavalcando, allo scopo di velocizzare il nostro arrivo in vetta, dato che nel mentre si andavano addensando delle nubi da nord. Molto gentilmente i due acconsentirono (menomale) e proseguirono seguiti immediatamente dal sottoscritto. Una volta che il loro capocordata arrivò in sosta gli urlai di tenere le corde bloccate un momento per permettermi di passare una nicchia e raggiungere un buon chiodo e così diedi due possenti bracciate per issarmi su quando sentii arrivare delle urla disperate che mi bloccarono pietrificato, non riuscendo a distinguere le parole. Contemporaneamente un tuono rimbombò tra le vette circostanti e il cielo si incupì di colpo (nel giro di una decina di minuti) facendoci sprofondare nella nebbia. 
Cercai di non badare alle lagne che mi giungevano dall'alto e proseguii verso un diedro fornito di ottima clessidra quando all'improvviso mi piovve addosso una valanga d'acqua mista a nevischio che cominciò ad imbiancare rapidamente la zona circostante e, bloccato in quella posizione infelice, non potei fare altro che sorbirmela tutta sperando nella magra protezione del kwai. Tutto ciò avvenne mentre i miei due soci sghignazzavano allegramente al riparo nella nicchia di sosta.
Il temporale durò per un po', circa una mezz'ora, bastevole a gelarmi il sangue nelle vene, a togliere il sorriso dalle facce dei due compagni e a ridurmi come la spugna servita a Cristo agonizzante. 
Mi decisi a tirare in ballo Giovanni per riprendere il comando facendosi aiutare dalla cordata che ci aveva incrociato e che era rimasta intrappolata come noi nel temporale. Acconsentì senza obbiettare e anche l'altro ragazzo non si oppose. Giovanni mi raggiunse, mi sorpasso e dopo poco arrivammo tutti sulla cima della torre, giusto per tirare un po' il fiato e tentare di scaldarsi un po' al sole, fortunosamente risbucato dalle nuvole, mentre l'altra cordata si avviò direttamente alla discesa. 
In quel mentre Giovanni mi guardò, accennò un sorriso molto amaro e mi sussurrò il motivo del perché mi giunsero delle urla disperate dall'alto, ossia il pericolo micidiale avevamo corso ignari solo poco prima, quando avevo strattonato la corda degli altri due per superare la nicchia strapiombante: il capocordata, che mi aveva rassicurato, lo ribadisco, sul fatto che avrebbe tenuto bloccate le corde per permettermi di issarmi nel tratto più scabroso, visto il temporale in arrivo, aveva nella fretta allestito una sosta e recuperato il compagno, il sottoscritto e Giovanni su un solo friend (specie di cuneo meccanico a molla) malamente appoggiato tra due macigni; se fosse venuto via per uno strattone avremmo avuto sicuramente due morti, uno gravemente inforunato, un altro con qualche escoriazione (grazie alla robusta clessidra) ed uno incapacitato ad intendere e volere. Per fortuna eravamo saldamente  ancorati ai chiodi di sosta nella nicchia.

A questo segue una riflessione: come ho avuto modo di sperimentare varie volte in seguito (questa fu solo la prima), tutto il discorso sui gradi, la tecnica cresciuta in falesia, la velocità sul facile, sicurezza delle dita, ecc., sono solo UN MUCCHIO DI BALLE raccontate da gente ignorante che firma i documenti con la X (ad insulto di gente poco istruita ma che fece la guerra e altre grandi prodezze), che si mette a cianciare di cose che non sa, o che ha solo sentito dire. 
Costoro o mentono per motivi di immagine o dovrebbero fare un pellegrinaggio in qualche luogo santo per la fortuna che hanno avuto e che poi se ne vadano a prenderlo dove non batte il sole!!!! Purtroppo di gente che ciarla ce n'è troppa.

La cosa più importante è essere padroni della tecnica, ossia dell'uso corretto del materiale a partire dai concetti più semplici, non farsi scrupoli nel prendersi il tempo che serve (e se è troppo si torna a casa  prima di inguaiarsi) a progredire sicuri e conoscere il più possibile l'ambiente che si va ad affrontare (inteso anche come luogo geografico). Dopo di questo arriva anche l'allenamento muscolare.

Dopo il momento di religioso silenzio per il dramma appena vissuto iniziammo anche noi la discesa e buttammo la prima doppia sul lato opposto del campanile. 
Giovanni affrontò per primo l'abisso e scomparve alla nostra vista. Dopo un lungo periodo di attesa in cui non si sentiva nulla dal basso io e Paolo cominciammo a chiamare e a inveire verso il poveretto là appeso come un salame fin quando, dopo diversi improperi ed un'attesa snervante arrivò il tanto sospirato richiamo di "corda libera" che significava abbandonare quello stretto fazzoletto orizzontale per fare i conti col vuoto. 
Capimmo poco dopo perché Giovanni era rimasto bloccato, anche se non mancavo di prenderlo in giro per il suo trastullo fanciullesco: le corde infatti non finivano nei pressi della calata successiva ma su un vuoto insondabile da cui sarebbe stato necessario pendolare verso la forcella formata dal campanile col corpo principale della montagna (manovra che rese famosa l'ascensione e che mise nei guai più di qualche ripetitore, come scoprimmo in seguito). Giovanni dovette quindi dondolarsi sugli ultimi centimetri delle corde per riuscire a raggiungere un pianerottolo mentre noi coi piedi ben piazzati a terra lo "incitavamo" a darsi una mossa, ovviamente col rischio che le corde si sfilassero del tutto dal suo discensore. 
Non finì lì, infatti, appena riuniti tutti e tre sulla forcella, le corde rimasero incagliate da qualche parte sopra il grande strapiombo che ci sovrastava, lasciandoci come tre vacche che fissano la discesa di un possente asteroide, mentre la sera cominciava a calare su di noi. Provammo a turno tutti e tre a tirare una delle corde ma nulla, il nodo di giunzione era saldamente incastrato lassù da qualche parte. Ci mettemmo tutti e tre su una corda solo ma nulla, erano immobili come bastoni di legno. Ad un tratto Giovanni ebbe un'idea (che aveva sfiorato anche me ma che non avevo il coraggio di proporre): essendo io il più pesante del trio mi sarei legato con un nodo autobloccante alla corda e ci sarei saltato sopra nel tentativo di strappare il nodo di giunzione dalla sua posizione, con un cordino sarei rimasto attaccato alla sosta principale. Giustamente bisogna mandare avanti i giovani!
L'idea non era per nulla piacevole, data la posizione spaziosa come un tavolino da bar, sospesa su orridi canali dipartentesi dalla piccola forcellina della torre ma, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, finalmente le corde cominciarono a scorrere, seppure con molta fatica. 
Qualche centinaio di tentativo dopo era fatta, tutti e tre cominciammo a tornare alla vita dopo questa lunga serie di "emozioni forti". Proseguimmo con le calate che per altre due volte videro le corde incagliarsi. La differenza fu che fummo più previdenti nel buttare le doppie  e fu più facile levarle dai piedi. All'ultima calata in corda doppia Giovanni mancò la sosta finendo su un terrazzino dove fu costretto a slegarsi e ad aspettare la nostra discesa prima di riportarsi in carreggiata, tanto per non farsi mancare nulla. Arrivammo alle ghiaie col buio che avanzava, lieti finalmente di essere su qualcosa di orizzontale, baciando il terreno. Sapemmo in seguito, ripassando per il rifugio, che anche i due che ci avevano preceduto avevano vissuto momenti di terrore lungo la discesa per l'incagliamento sistematico delle corde doppie. Beh, magra consolazione, almeno potevamo dire di non essere del tutto impediti. 
Sulla strada del ritorno, ormai alle due di notte, una pattuglia ci fermò per fare un controllo e ci fece aprire il bagagliaio pensando che fossimo spacciatori di ritorno da una discoteca. 
Fu l'ultima emozione dell'uscita.


Il Campanile Dulfer con lo spigolo.



Momenti di scalata sulla parte alta dello spigolo

Lungo la parte bassa per un magnifico diedro

Il tratto più affilato dello spigolo

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UNA GITA DOMENICALE

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