ROBERTA DALLE FESTE
Come resuscitare un cadavere
Il mio approccio alla Valsugana risale a molto tempo fa. Quando ero bambino mio padre mi portava spesso sulle Pale di San Martino e per arrivarci era pressoché obbligatorio passare proprio per Cismòn (lo è tutt'ora). Un giorno vidi che sopra il paese c'erano due pinnacoli con le rispettive croci, molto caratteristici e ciò mi rimase ben impresso nella mente tanto che chiesi spesso al mio vecchio dove avevamo visto quelle due cime accoppiate e se vi si potesse salire sopra. Erano così piccole (anzi, sembravano così piccole) da apparire quasi come dei giocattoli per bambini. Inutile dire che le due cuspidi (che poi scoprii essere tre con il Col Moltòn) erano la Gusèla di Val Goccia, tutt'altro che un giocattolo e la Rocchetta.
Passarono molti anni senza avere una ragione per tornare in quel posto, ma in cuore non lo scordai mai, finché un giorno, fermandomi proprio al Pescatore per prendere un caffè durante una gita con la mia ex di allora, non mi capitò di comprare un libretto verde fresco di stampa, contenente tutte le vie della valle. Poco tempo dopo tornai con Paolo per affrontare la Gusèla lungo la via Paolo de Tuoni, che a detta del libretto doveva essere tra le più facili della valle. Quando arrivammo all'attacco svuotai lo zaino e mi resi conto di aver lasciato a casa l'imbrago, tutto per aver cercato di dormire 5 minuti in più e aver fatto tutto in "una questione di secondi". Provai a risolvere la situazione facendomi un nodo in vita con le corde ma riuscii a salire si e no due metri prima di battere in ritirata. Per tutto il sentiero di rientro mi sorbii le canzoncine del partner. Tanto per dare un senso alla giornata andammo in esplorazione anche al Covolo di Butistone per vedere in che situazione fossero le vie, cercandone una in particolare, una certa Roberta dalle Feste che la guida verde diceva "destreggiarsi tra pance piacevoli e placche verticali, una delle più frequentate della parete". Percorrendo la base della parete trovammo il nome della via scritto su una placca di malta spalmata sulla roccia e guardammo verso l'alto: i primi sei metri erano una placca levigata con delle fessure cieche, ovviamente senza nulla, poi sopra vi era un tetto bello largo e prominente da cui sporgevano due spit di cui uno molto ruggine e al di sopra si poteva notare il proseguimento della chiodatura in modo irregolare.
Se questa era una via piacevole e molto frequentata c'era di che stare tranquilli!
Passarono altri anni prima di ritrovarmi un giorno col Bocia sotto la medesima parete, a passare la giornata senza pensieri e a fare qualche esperimento di tecnica. Fu allora che provammo a buttare l'occhio sulla Roberta per saggiarne la situazione e trovandola ancora più desolante del previsto: i chiodi sopra il tetto finivano improvvisamente lasciando dei "buchi" che rendevano decisamente ardua la ripetizione della via, per non dire impossibile. Provammo a salire il tiro attiguo incontrando lo stesso problema, dopo il tetto sparivano sempre gli ancoraggi, lasciando intravvedere qualche macchia di ruggine, segno che qualcuno li aveva rotti.
Ci dimenticammo della via e della parete per un periodo fino al giorno in cui il Bocia decise di fare il passo decisivo: acquistare un trapano a batteria e dei fix! Questo atto ci spalancò le porte di un mondo nuovo, finalmente potevamo aprirci la strada senza essere condizionati dalle malefatte altrui e avremmo potuto godere anche noi di queste vestigia del passato. Era un qualche momento nell'estate del 2017 e pensammo che sarebbe stata un'ottima idea restaurare alcune vie già esistenti perché lasciarle nelle condizioni in cui versavano era un autentico spreco: primo occupavano spazio, secondo le loro condizioni erano così distanti dalla prima salita da poterle considerare dismesse.
Adesso occorre fare delle precisazioni: la prima è chi è e di chi è la Roberta dalle Feste, la seconda è cosa significa restaurare una via.
Riguardo al primo punto è presto detto.
Roberta dalle Feste era una ragazza appassionata di alpinismo che si imbarcò con Sergio Lovadina, Paolo de Tuoni e Pierantonio Barbon nella ripetizione dello Spigolo del Velo nelle Pale di San Martino. Era il 9 Ottobre 1973. Quel giorno i quattro furono colti da una bufera con una temperatura minima di -15°, venendo costretti al bivacco. Si salvò solo Barbon. Negli anni dal 1976 al 1980 il loro amico Umberto Marampon, uno dei veri pionieri della valle, aprì tre vie per ricordare i tre compagni morti quell'autunno: una sulla Gusèla di Val Goccia, la Paolo de Tuoni, due sul Covolo di Butistone, la Sergio Lovadina e, per l'appunto, la Roberta dalle Feste. Tutte e tre sono vie di arrampicata mista libera e artificiale, di un certo impegno, anche grazie alla leggendaria distanza tra i chiodi che Marampon era in grado di imprimervi (provare per credere). Si tratta di vie, a mio giudizio, molto belle e meritevoli di ripetizione perché richiedono una buona padronanza di più tecniche insieme e consentono la salita in punti della parete altrimenti inscalabili.
Il secondo punto è cosa significa restaurare una via.
Tanto per cominciare questa è un'operazione che ha senso soprattutto sulle vie di bassa quota che vengono per una qualche ragione abbandonate. Negli anni il riscaldamento globale ha favorito la crescita di piante infestanti a quote sempre più elevate e con sempre maggior vigore, tanto che alcune pareti sono letteralmente sparite sotto l'erba. Le felci e la terra finiscono con l'intasare ogni buco e fessura finché ad un certo punto la scalata con mezzi tradizionali, chiodi e martello tanto per intendersi, non risulta più possibile. Ecco che allora le vie abbisognano di una radicale pulizia e della sistemazione della chiodatura in modo più efficace e duraturo. Le pareti più d'alta quota richiedono meno tale attenzione in quanto si mantengono sempre pulite e gli alpinisti possono ben arrangiarsi, il più delle volte, coi loro mezzi, sempre ammesso che non abbiano subito mutamenti importanti come le frane.
A questo punto si presenta il problema: come fare? A tirare una riga di fix con precisione matematica sono capaci tutti, con il risultato di svilire e modificare in modo irreparabile l'itinerario, ossia cambiandone lo stile di arrampicata rendendolo di fatto un qualcosa d'altro. Purtroppo di operazioni di tal genere ne sono state fatte a bizzeffe e anche su vie ben conosciute e frequentate. Dall'altra parte però non si può essere troppo parsimoniosi con i chiodi perché si finisce a fare un qualcosa che non sia né carne né pesce, lasciando quindi l'itinerario troppo sprotetto e che richiede un camion di materiale per proteggersi adeguatamente, quindi esso resta pericoloso e anziché migliorare il percorso, lo si peggiora notevolmente. Anche di questa seconda situazione purtroppo le nostre Alpi ne sono piene. Detto questo, quindi, la soluzione che abbiamo deciso di adottare è quella del "rinforzo", ossia di valutare attentamente il materiale originale della via e salvarne il più possibile, aggiungendo solo dei fix alle soste e lungo i tiri messi in posizione strategica in modo tale che, in caso di cedimento di un ancoraggio, il volo sia breve e senza conseguenze, ma lasciando obbligatori i passaggi di arrampicata.
Il nostro restauro è stato un susseguirsi di alcuni episodi senza una storia particolare, momenti di arrampicata e chiodatura piuttosto ordinari. Quello su cui vorrei invece soffermarmi è tutta la situazione di contorno, ossia come abbiamo trovato la via e che significato ha avuto restituirla alla posterità in modo da non svilirla ma al tempo stesso evitare tragedie che, con la mentalità della politica odierna, avrebbero potuto avere dei risvolti decisamente imprevisti.
Innanzitutto, perché restaurare la via Roberta dalle Feste?
La stessa domanda la si potrebbe porre anche per la "Nostalgia dei rossi tramonti", risistemata anni addietro. Per prima cosa si tratta di vie pubblicate più volte e decantate per la loro fattezza ma nella realtà dei fatti abbandonate senza una vera ragione, finendo di fatto per essere uno spreco, e io odio gli sprechi!!
La ragione di tale abbandono è misteriosa e nemmeno imputabile al carattere "artificiale" delle vie, ad esempio lo stesso degrado lo subiscono anche molte linee del Pasubio, su roccia buona e difficoltà non disumane che però, con la scarsa frequentazione, sono diventate irripetibili. Probabilmente è solo una questione di moda e del fatto che la massa è formata da una maggioranza individui che raramente pensano con la propria testa ma hanno una propria ragion d'essere solo se e quando si paragonano agli altri simili. E' quindi il naturale destino di tutto ciò che non sia più alla moda, finire dimenticato e lasciato all'incedere di una natura sovrana, la quale piano piano rimangia ciò che l'uomo ha fatto. Un tempo ero anche io così, almeno nell'alpinismo, poi a suon di fregature ho cominciato a guardarmi intorno e a notare che esiste anche altro, che è bello come la roba più blasonata se non di più, e che quindi fosse giunta l'ora di pensare con la propria testa e andare a riscoprire ciò che il mondo offre anche fuori dalle rotte commerciali.
Un altro motivo per risistemare una via aperta da altri è quello di ricavarsi uno spazio a proprio uso e consumo senza interferenze altrui, avendo modo di esprimere in un modo un po' inusuale ciò che si sente dentro. D'altronde, la roccia è pur sempre una risorsa limitata e prima o poi, a forza di aprire e aprire, riempendo di ferro le montagne, lo spazio per le prime finirà, quindi anche giocare sulla roba altrui, per quanto ai più faccia storcere il naso, è un modo per dire la propria. Naturalmente, come detto in precedenza, è un lavoro che richiede dei criteri precisi al fine di restituire al mondo qualcosa di autentico, su cui ci si debba impegnare senza però rischiare in modo serio.
Il criterio da me, anzi da noi adottato l'ho spiegato in precedenza ma è un argomento particolarmente critico. Molte volte mi è capitato di leggere opinioni di autentici estremisti dell'etica che fossero scettiche o aggressive nei confronti di tali lavori. In alcuni casi devo dire che tali riserve erano giustificate ma in altri casi si è trattato come al solito di una moda, un accodarsi a chicchessia in un atteggiamento molto autoreferenziale senza avere la più pallida idea di che cosa si stesse parlando. Come ogni moda poi, anche questa è passata e si è visto che, alla prova dei fatti, solo le vie opportunamente ripulite e rinforzate da ancoraggi solidi (fix, resinati e talvolta anche solo chiodi, purché non troppo vecchi) sono state ripetute con regolarità e sono rimaste nei favori del pubblico. Tutto il resto è stato solo chiacchiera al vento, retaggio di un paio di generazioni di persone che non si sono rassegnate a veder tramontare la propria epoca ed a ritirarsi in gloria.
Bisogna tenere presente che tutte le polemiche sui chiodi a pressione prima e sui fix/spit dopo sono figlie di uno scontro generazionale tra vecchi e giovani, come accade da migliaia di anni a questa parte e che, come ogni contenzioso, è finito quando sono scomparsi i due contendenti, letteralmente. Gli uomini non hanno mai rinunciato ad utilizzare la tecnologia per adempiere ai loro scopi, necessari o ludici che fossero; un tempo le vie si tracciavano con pochi mezzi perché gli strumenti erano rudimentali, i soldi erano pochi e ci si arrangiava con quello che si aveva ma era sempre il meglio che la tecnica aveva da offrire. Rinunciare alla tecnologia solo per tentare un pallido confronto tra epoche diverse è un duello anacronistico e privo di qualsiasi fondamento. A parte qualche squilibrato in cerca dello scandalo facile (tutta finzione), nessuno si sognerebbe di scalare una montagna nudo col solo scopo di mettersi a confronto con la purezza dell'affrontare la natura selvaggia dei Neanderthal.
Dopo tutto questo sproloquio, che mi è costato già un paio di riscritture radicali e tanti ripensamenti tra dire e non dire, posso tornare alla domanda iniziale, perché restaurare la Roberta dalle Feste?
Adesso posso dare una risposta ben determinata: primo perché anche io voglio godere di un bene che mi è stato messo a disposizione da altri; secondo perché voglio farlo senza rischiare stupidamente la mia incolumità e quella del compagno; terzo perché voglio andare contro corrente senza rassegnarmi a seguire delle mode che non mi appartengono ma fare quello che mi piace; quarto per dire la mia in modo più raffinato rispetto a molte aperture di serie b; quinto e ultimo perché la via è pur sempre una testimonianza del passato e se ha richiamato me, probabilmente richiamerà anche qualcun altro.
Io e il Bocia abbiamo iniziato ad interessarci alla Roberta dalle Feste nell'estate del 2017, ma avevo effettuato un pallido tentativo anche anni prima passando nelle vicinanze. La via allora si presentava in uno stato pietoso: la prima lunghezza corda, abbastanza corta e che supera un piccolo ma pronunciato tetto, aveva subito la devastazione di chi aveva cercato di "sportivizzare" il passaggio, ossia col fissaggio di spit per l'arrampicata sportiva e con la rimozione parziale di alcuni vecchi ancoraggi da artificiale. A quel tempo capimmo subito che la salita era stata definitivamente penalizzata da quel pasticcio e che a lungo andare aveva finito per scoraggiare tutti coloro che erano passati per di lì da un tentativo di ripetizione. Stessa sorte era poi capitata anche alla vicina via Sergio Lovadina al punto da essere divenuta inscalabile a causa dei chiodi rotti dopo il primo tetto.
Ecco un esempio circa il discorso fatto in precedenza: un restauro di itinerari storici fatto male, nel tentativo di trasformare la fascia basale della parete in una falesia, modificando in modo irrimediabile il lavoro altrui.
Il primo tentativo lo effettuammo approfittando dell'ombra del mattino, prima dell'arrivo del sole e del caldo torrido, e lo facemmo ripristinando gli ancoraggi mancanti sia prima che dopo il tetto. Studiammo che per lasciare obbligatoria la difficoltà dichiarata bisognasse posizionare i fix in modo tale entrare in libera nella placca iniziale e poi salire sempre in cima alla staffa per acchiappare il chiodo successivo. Quella prima volta si avventurò su il Bocia sperimentando il suo nuovo trapano, poi ripetemmo la stessa operazione anche sul resto della falesia alla base della parete.
Il secondo tentativo lo effettuammo un paio di anni dopo e in quell'occasione fui io a salire, posizionando giusto qualche fix di rinforzo accanto ai chiodi originali per scongiurare voli lunghi in caso di cedimento degli stessi. Con questa ripresa finimmo di sistemare tutta la parte che era stata interessata dal rimaneggiamento sportivo, riportando la via in condizioni di essere almeno tentata e con le difficoltà dichiarate.
Ci portiamo adesso all'autunno 2023, in un momento in cui l'umidità e le colate d'acqua ci hanno indotto a desistere da una puntata al nostro progetto a Collicello (vedi Uomini fragili contro il titano). Il Bocia risale la parte attrezzata in precedenza, poi prendo io il comando. Quel che trovo al di sopra del punto massimo raggiunto anni prima è la via esattamente come era allo stato originario, con chiodi a pressione Cassin tutto sommato ancora in buono stato, per cui mi limito a posizionare dei fix in alterno, e altro materiale molto, ma molto artigianale. Nella parte finale del terzo tiro trovo un cordino che sporge da una lama di roccia; per quanto mi allunghi per cercare di capire a cosa sia legato non mi riesce di avere informazioni più precise, così mi ci affido e mi alzo quel che basta per mettere un fix in posizione strategica. Appena piazzato il detto fix mi alzo e vedo che mi ero appeso a un pezzo di tubo talmente consunto dalla ruggine che aveva retto il mio peso solo perché i bordi taglienti erano penetrati nella terra. Poco sopra, a protezione di un traverso, trovo una clessidra poco rassicurante passata con varie fettucce da tapparella, annerite dal sole e dalla muffa e la lama della traversata completamente rivestita di rovi. Piazzo una sosta nell'unico punto in cui si riescono ad appoggiare i piedi e recupero il Bocia che mi raggiunge poco dopo, poi mi diletto a disgaggiare e rinforzare il traverso. L'ultima ripresa arriva il 22 Maggio 2024 in cui, per finire velocemente il lavoro e non dover risalire più i tiri già sistemati, decidiamo di calarci dall'alto, seguendo sempre i criteri applicati in precedenza. Dopo la discesa lungo l'ultimo tratto delle Traversate, imbraccio l'artiglieria e mi calo verso una ben visibile sosta nel mezzo della placca sottostante. Dopo qualche metro di discesa mi accorgo che ho sbagliato direzione perché il diedro sotto di me si ribalta compiendo una pronunciata curva a sinistra ma, grazie ad un cordino consunto che penzola da un chiodo, riesco a rimediare e a riportarmi in asse.
Guardo con attenzione a cosa sono attaccato: il diedro è attrezzato con vecchi chiodi normali piantati a distanze siderali gli uni dagli altri e per giunta in una fessura di roccia marcia. Aggancio la staffa per tenermi in equilibrio sul chiodo, pare solido ma lo rinforzo ugualmente con un bel fix piazzato in posizione strategica; il chiodo successivo è appena oltre e poi si apre una bella crepa di roccia solida dove lavorano dadi e friend prima di un chiodo a pressione in buono stato.
Mi calo dal chiodo e raggiungo quello sottostante, quasi lo sfilo con le dita ma regge giusto il mio peso per mantenermi in equilibrio e prestamente viene rinforzato da un altro fix. Il resto del diedro lo attrezzo nel medesimo modo e raggiungo la sosta in piena placca ma discretamente comoda. Anche in questo caso lo stato cadaverico della via non si smentisce: la sosta è ricavata da due chiodi piantati nella stessa fessura, di cui uno entrato a metà, e collegati da dei cordoni che sembrano fatti di cartone. Per fortuna che nessuno si è avventurato sulla via da un bel po' di tempo a questa parte perché se uno dei chiodi avesse ceduto, con tutta probabilità la cordata sarebbe finita spiaccicata sulla tangenziale sottostante con tanto di un mese di talk show e post sciacalli su alpinismo si/no. Piazzo altri due fix di rinforzo per risolvere il problema e lascio il posto al Bocia nella lunghezza successiva. Il pezzo sottostante è una placca verticale nemmeno troppo difficile ed è velocemente ripristinata, così come la sosta successiva su vecchi chiodi a pressione artigianali. Scendo a mia volta e termino di sistemare l'ultima sezione, su roccia straordinariamente liscia, arrivando alla congiunzione con la via delle Traversate.
Il lavoro è terminato in quanto la breve sezione di congiunzione tra la parte bassa e questa è molto vegetata e basta aggirare la verdura con un breve traverso per cengia e percorrere un breve pilastrino già ben attrezzato.
Al termine di questa campagna di restauro cosa abbiamo ottenuto?
Una bella via di arrampicata mista, verticale e soddisfacente pronta all'uso e vicinissima alla macchina. Già questa è una soddisfazione. Poi abbiamo sperimentato un metodo per ottenere i risultati desiderati in tempi ragionevolmente brevi, anche questo è un risultato. Inoltre abbiamo reso fruibile anche ad altri un pezzo di storia della Valsugana che era completamente deperito, rendendolo anche un pochino nostro.
Qualcuno potrebbe obbiettare che, con la fatica fatta e i soldi investiti nel progetto si sarebbe potuto tranquillamente aprire una via nuova tutta nostra e fare tutto ciò che volevamo. Al che io rispondo che se tutti avessero ragionato in questo modo nel corso della storia, adesso noi non saremmo qui a raccontarlo, non avremmo un passato a cui guardare per prendere ispirazione e non avremmo nemmeno l'arte in generale. E' ovvio che non si può rifare l'intera Valsugana e che tanto andrà perduto ma, quando si può, bisogna provare a salvare qualcosa dall'oblio, per il nostro stesso bene.
Richiodatura del primo tetto
Un chiodo a pressione originale
Terzo tiro appena richiodato
Placche del settimo tiro
Diedro rovescio richiodato
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