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domenica 19 ottobre 2025

CHOPIN - Sonate

 CHOPIN

Sonate


Chopin, nell'arco della sua breve ma intensa esistenza, si è confrontato poche volte con le forme strumentali più estese e codificate (dove per estensione non si intende la mera durata in minuti), anzi per essere precisi solo sei volte, ossia nei due concerti per pianoforte e orchestra e nelle quattro sonate. D'altronde, egli non ha mai fatto mistero in nessun modo di preferire forme brevi e libere, che al massimo siano aderenti a forme musicali speicifiche come polacche, mazurke, ecc., rispetto invece a quelle invece più convenzionali e consolidate dalla tradizione.  
I due concerti per pianoforte e orchestra sono ormai universalmente conosciuti e sono eseguiti di frequente come pietre miliari del repertorio pianistico; invece le quattro sonate hanno ottenuto dei risultati altalenanti, tanto da lasciare titubante lo stesso compositore.
In questa disquisizione, non intendo andare ad analizzare nota per nota le sonate scritte da Chopin, di cui esistono già fiumi di inchiostro molto pregiati al riguardo, quanto piuttosto andare a vedere come il suo linguaggio e il suo pianismo si sono evoluti nel corso della sua vita, scontrandosi contro una forma di scrittura ben precisa e che veniva da quasi un secolo di tradizione. A differenza di molte altre raccolte di forme minori, la forma-sonata ha richiesto uno sforzo inventivo enorme a Chopin, a causa della mole di materiale musicale da inventare di sana pianta, fatto questo che in più di qualche occasione mette in difficoltà il compositore nella gestione complessiva dell'opera, salvo poi il trarsi d'impaccio in modo elegante, cercando di riportare il discorso musicale in un terreno a lui familiare. 
Le quattro sonate coprono tutto l'arco della vita di Chopin, la prima è l'op. 4, un pezzo di studio, con un forte senso di incompiutezza ma al tempo stesso molto sperimentale e con passaggi originali e fortemente drammatici, rarissimamente eseguita. La seconda sonata è l'op. 35, l'unica delle quattro ad essersi veramente imposta anche a chi di musica classica non ne capisce nulla, essendo stata utilizzata in innumerevoli cartoni animati e film, ed è la più originale delle quattro. La terza sonata è l'op. 58, una composizione matura, che vede Chopin cercare strade alternative e più polifoniche al suo pianismo solito. L'ultima, la quarta, è la sonata per pianoforte e violoncello dell'op. 65, un pezzo assai particolare, per non dire strano, di difficile interpretazione e ben di rado eseguita, che ha avuto una sorta di revival nell'era di Youtube e Spotifi

1) SONATA N. 1 OP. 4


La sonata op. 4 è, come accennato prima, un pezzo giovanile, fortemente sperimentale e di cui Chopin stesso non era mai completamente soddisfatto. Venne scritta da un compositore diciasettenne, tra il 1827-28 durante i suoi studi a Varsavia e il primo tentativo di pubblicazione fallì, per varie ragione a noi probabilmente ignote e comunque non importanti. La sonata venne pubblicata solo nel 1851 postuma, in quanto per tutti gli anni a venire della sua vita, Chopin non diede mai il consenso alla pubblicazione, proprio perché la considerava un qualcosa di posticcio. 
Innanzitutto, che cosa ha di così manchevole la sonata n. 1 da sparire dalla circolazione e dalle edizioni per un secolo e mezzo (non che oggi la si possa sentire così spesso, eh)? 
Probabilmente una notevole difficoltà di interpretazione dovuta ad un materiale tematico troppo denso ed eterogeneo, risultato di una commistione di esperienze musicali, non di Chopin, prese, mescolate e poi accostate in vario modo. Anche il pianismo di questa sonata, ossia la tecnica nuda e cruda con cui è stata scritta, è abbastanza incoerente, il che rende l'esecuzione piuttosto difficile, se paragonata alle sonate che seguono. Qui, infatti, Chopin passa da assecondare le melodie che reggono il discorso, ad introdurre effetti simil-orchestrali, a marcare i suoni con ottave pesanti, a ritornare ad ornare le melodie con effetti in modo abbastanza improvviso. Anche per i più grandi estimatori del polacco, questi fatti non devono aver stimolato troppo la voglia di studiare questo pezzo, ed è la probabile ragione che induceva il compositore a voler mettere ampiamente le mani allo stesso, cambiandone radicalmente l'impostazione, cosa che purtroppo non fece mai. 
Malgrado ciò, questa sonata contiene delle perle assolute, ossia dei momenti di lirismo, di innovazione armonica e di uso del linguaggio pianistico molto originali per l'epoca in cui fu scritta e che ritroviamo pari-passo in Schumann, Liszt e Alkan molto tempo dopo, oltre che nello stesso Chopin. 
La sonata è in quattro movimenti e in Do minore e già dall'apertura si sente subito che è qualcosa del tutto particolare. 
Il primo movimento è di chiara derivazione da Karl Maria Von Weber e basta ascoltare le sue quattro sonate per rendersi immediatamente conto che ci sono notevoli affinità, specie con la terza e la quarta. Oggi questi pezzi sono eseguiti assai di rado, ripresi saltuariamente da qualche amatore che ha esaurito tutto il repertorio usuale a disposizione e va cercando qualche novità, ma all'epoca erano ben conosciuti. Ritornando alla sonata in Do minore, il primo movimento si apre con una sorta di invenzione a due voci che definisce il tema principale senza però avere un chiaro secondo tema canonico contrastante col primo. Qui tutto resta nella tonalità di impianto, Do minore e quello che dovrebbe fungere da secondo tema, oltre ad arrivare immediatamente all'inizio del movimento, è costruito su elementi del primo, il che rende tutto quasi un unico flusso di coscienza, che si evolve, cambia, si gonfia e si sgonfia nell'intensità, senza mai uscire dal seminato. 

Inizio op. 4 Chopin
Inizio della sonata op. 4
Secondo tema op. 4 Chopin
Secondo tema


Ora, questa logica può avere benissimo un senso, ma è decisamente lontana dalla logica classica della forma-sonata in cui temi conduttori sono sostanzialmente due personaggi di una scena che va disegnandosi nella mente dell'ascoltatore; qui tutto è un unico monologo, un poco allucinato, che Chopin tiene al suo pubblico. 
Dando uno sguardo alla scrittura, la prima cosa che si nota è che il compositore ha l'horror vacui, non c'è un singolo istante che non sia riempito da un accordo o un abbellimento, sovente presi di salto, il che rende l'insieme un po' pedante. Infatti nelle sonate successive la scrittura si alleggerisce abbastanza e anzi asseconda il carattere dei temi stessi. 

Chopin op. 4
Momento di grande densità sonora

La sonata op. 4 è anche l'unica delle quattro sonate dove Chopin segna un indicazione di metronomo, indicando esplicitamente (almeno nella prima edizione) "Metronomo di Maelzel". Secondo gli studi del prof. Winters, le velocità indicate dal compositore farebbero riferimento ad un'oscillazione completa del pendolo con due battiti per ogni pulsazione, quindi tali indicazioni andrebbero lette a metà. Questo fatto comporterebbe che l'esecuzione della sonata duri un'ora, anziché la mezzoretta scarsa delle poche incisioni disponibili. Sarebbe interessante ascoltare cosa ne risulti, dato che al giorno d'oggi non siamo più abituati a tempi così dilatati e, probabilmente, la sonata acquisterebbe una fisionomia alquanto diversa. 
Il secondo movimento è un minuetto, l'unico scritto da Chopin, in Mi bemolle maggiore, molto sintetico e che ricorda da vicino alcuni movimenti delle sonate di Beethoven, come la n. 1, l'allegretto della n. 14 (Chiaro di Luna), ed altre. E' un movimento molto classico, abbastanza anonimo per gli standard del polacco ma che è impreziosito da una serie di piccoli abbellimenti, come arpeggi sulle doppie terze, che lo rendono gradevole e impegnativo nell'esecuzione. In questo minuetto Chopin cerca, in modo un po' ingenuo, di perseguire una forma di polifonia con dei piccoli giochi di imitazione tra mano destra e sinistra, senza però raggiungere dei veri risultati. Questo genere di composizioni infatti spariranno dai suoi orizzonti fino alla maturità, quando riproverà a percorrere la strada della polifonia, con risultati alterni. 

Minuetto op. 4 Chopin
Inizio del Minuetto

Il minuetto presenta un trio in Mi bemolle minore, come nella sonata n. 4 di Beethoven o nella sonata n. 49 di Haydn. Questo movimento è dunque una sorta di legame col classicismo, introdotto nella sonata come una sorta di movimento di distensione e contrastante col primo per carattere e scrittura.
Il terzo movimento, il Larghetto in La bemolle maggiore, è il vero grande "fallito" della prima sonata di Chopin, ossia un pezzo sperimentale che non troverà mai più riscontro in tutte le altre opere che egli darà alla luce. E' un pezzo in 5/4, misura particolare e che in questo primo ottocento non ha molti, anzi per niente, riscontri in altri compositori. La misura così particolare però, perde il suo effetto ritmico in quanto, primo è un movimento adagio, secondo è costituito da molto materiale eterogeneo volto a formare una specie di tema con variazioni, senza mai dichiarare l'intento apertamente e finendo improvvisamente proprio come era cominciato. Le fioriture in questo pezzo abbondano, anzi sovrabbondano evidenziando ancora una volta che lo Chopin giovane avesse il terrore degli spazi vuoti. 

Larghetto op. 4 Chopin
Tema del Larghetto

Per concludere, questo Larghetto ha una certa assonanza beethoveniana, specie con la sonata n. 12 op. 26, in La bemolle maggiore per l'appunto, il che lascia intendere che sia un esperimento per trasfigurare un pezzo di stile classico in qualcosa di nuovo, oltre ciò che il pubblico era abituato a sentire.
Il quarto movimento, intitolato "Finale" e di agogica Presto, è il più interessante e sviluppato dell'intera composizione, di chiara derivazione beethoveniana, in particolare dalle sonate n. 14 (op. 27 n. 2 "Chiaro di Luna") e n. 23 (op. 57 "Appassionata"). Questo è riscontrabile nei disegni di arpeggi ad "ondate" che sono tipici del finale del Chiaro di Luna, mentre, nel corso dello sviluppo, sono udibili i caratteristici accordi sincopati dell'Appassionata. Qui, Chopin ha voluto costruire un lungo movimento in forma-sonata, stavolta canonica, virtuosistico ed ha esplorato tutte le possibilità timbriche e tecniche che lo strumento gli consentiva di fare all'epoca, ottenendo un pezzo di grande difficoltà ed effetto (allora sicuramente, pure oggi fa la sua figura). Anche la costruzione dei temi, il primo in Do minore e il secondo in Sol minore per non interrompere la drammaticità del componimento, è di chiara ispirazione beethoveniana. 

Chopin op. 4 quarto movimento
Inizio del quarto movimento

Chopin op. 4 sincopi
Tratto degli accordi sincopati

Chopin op.4
Secondo tema

In conclusione, questa sonata, contrariamente a quanto si è sostenuto per molto tempo, non è un'opera di serie b, non meritevole di essere inclusa in edizioni e cataloghi (come purtroppo si legge in certe vecchissime edizioni), ma presenta tratti assai caratteristici con melodie di notevole bellezza e tratti tecnici assai interessanti. Certo, presenta ancora dei tratti acerbi, in rapporto allo Chopin che tutti conoscono, ma non abbastanza da ritenere inadeguata questa composizione. Purtroppo Chopin ha subito nel tempo un'opera di idealizzazione che lo ha portato ad essere il modello incarnato del romanticismo, ossia dell'uomo posto davanti al sublime e che contempla le forze inesorabili del mondo, parlando ai posteri in poesia, tutta una serie di sciocchezze invereconde che si credevano all'epoca ma che sono giunte a portare i posteri a censurare tutto ciò che non si confacesse a tale modello. Ne siamo vittime anche noi ascoltatori a due secoli di distanza, dimenticandoci invece di chi fosse l'uomo dietro le partiture di cui disponiamo.

2) SONATA N. 2 OP. 35


C'è poco da aggiungere alla sonata n. 2 di Chopin che non sia già stato scritto, comprese innumerevoli speculazioni gossippare circa l'origine della Marcia Funebre per un amore interrotto con una contessina polacca (anche se qualcuno oggigiorno sostiene che Chopin fosse gay, mah!). Pertanto, è meglio focalizzarsi su come questa sonata differisca notevolmente dalla precedente e perché essa sia diventata giustamente una pietra miliare del repertorio pianistico. 
Innanzitutto questa sonata arriva dieci anni e trentuno opere dopo la precedente, che nella vita di Chopin rappresentano un intervallo lunghissimo. Dopo due raccolte di studi, una di preludi, due concerti, due scherzi, rondò e polacche per pianoforte e orchestra, un trio e numerose mazurche e una ballata, finalmente egli si sente pronto a buttarsi ancora nella stesura di una sonata per pianoforte. Ovviamente sceglie ancora la forma derivata dalla sinfonia in quattro movimenti. 
Il primo movimento che viene scritto è la Marcia Funebre, oggi celeberrima per l'uso che se ne è stato fatto in innumerevoli occasioni, da Tom e Jerry a Don Camillo "monsignore ma non troppo", poi vengono scritti gli altri tre movimenti di contorno. Una volta, il mio maestro mi disse che la celebre melodia del trio della Marcia Funebre fosse tratto da un duetto di un'opera italiana, ma purtroppo negli anni ho scordato quale opera fosse e non ho più trovato riscontro. 
Ad ogni modo, la scrittura di questa sonata è radicalmente diversa dalla precedente, ridotta all'essenziale, sebbene non facile nell'esecuzione e con un rispetto maggiore della forma.
Il primo movimento, in Si bemolle minore con "Grave - Doppio Movimento", comincia con un grave di quattro battute che funge da introduzione al tema vero e proprio, lungo ed elaborato ma sostanzialmente a due voci, senza abbellimenti di sorta. 

Chopin op. 35 primo tema
Grave e primo tema

Questo tema è un febbrile pulsare di crome con un hochetus, un singhiozzo che le interrompe e conferisce loro un aspetto ritmico interessante e ben distinguibile. A questo concitato primo tema si affianca improvvisamente il secondo, in Re bemolle maggiore come vuole la consuetudine, completamente in contrasto col precedente, fatto di note lunghe, adagiato sul tempo con cui scorre il movimento salvo poi confluire in una coda abbastanza turbolenta, in cui andrebbero analizzati tutti gli accordi per vedere il grado di innovazione apportato qui dal compositore nell'ambito di ciò che si scriveva nel 1837 nel resto del mondo. 

Chopin op. 35 secondo tema
Secondo tema

Lo sviluppo, che vede i due temi combinati in modo arguto, ossia sovrapposti l'uno all'altro, è qui ridotto ad una mera transizione prima dell'arrivo della ripresa che rappresenta anche il momento culminante dell'intero movimento. La scrittura non cede mai alla tentazione di virtuosismi fine a se stessi, anzi resta sempre ridotta all'essenziale ed è sempre molto coerente. Questo primo movimento è il più innovativo in assoluto della sonata ed anche, secondo me, il più gradevole da sentire dei quattro perché sempre originale e poco pedante.
Il secondo movimento è uno scherzo, a cui Chopin non segna nemmeno un'agogica. E' uno scherzo per il suo tempo ternario ma assume le caratteristiche di una sorta di walzer dai toni grotteschi, in Mi bemolle minore e quindi abbastanza cupo, a cui contrasta nettamente il suo trio, in Sol bemolle maggiore, composto da una melodia resa stridente da un urto di semitono sempre messo in evidenza. Lo stesso trio è diviso in due fasi ben distinte, con la prima dominata da un canto su accompagnamento di accordi, mentre la seconda, più breve, con una risposta al basso, funge da breve intermezzo. 

Chopin op. 35 Scherzo
Inizio dello Scherzo

Trio dello Scherzo

Per lunghezza e complessità, questo Scherzo eguaglia il primo movimento, il che induce a pensare che Chopin lo abbia introdotto come seconda parte del primo movimento costituendo con esso il nucleo principale della sonata stessa (si noti che il primo movimento finisce in Si bemolle maggiore, che a sua volta è la dominante di Mi bemolle minore, quindi i due movimenti sarebbero idealmente legati). 
Il terzo movimento è la Marcia Funebre, che nella storia della musica si è imposta come canone di marcia funebre mettendo in disparte anche quelle scritte da Beethoven e di cui questa è diretta discendente, in tutto e per tutto. Ciò che la differenzia da quelle dell'illustre predecessore (la sonata op. 26 e la sinfonia n. 3 Eroica), a parte la melodia del trio, tutta chopiniana, è quel senso di tragica ineluttabilità che la pervade, che non lascia intravvedere speranza alla fine, senza finti eroismi. Contrariamente alla prima sonata, la scrittura pianistica resta qui assolutamente essenziale, ridotta al minimo indispensabile, con un'economia di mezzi quasi mozartiana, che però rappresenta anche il suo tratto comunicativo vincente.

L'inizio cupo della Marcia Funebre

Il quarto movimento, ancora una volta intitolato Finale, in "Presto", è forse il più scandaloso dei quattro, o almeno lo fu all'epoca della composizione. Si tratta di un moto perpetuo con le due mani all'unisono che eseguono un flusso continuo di terzine, in cui la melodia c'è ma è poco evidente e il tutto dà un senso come di indefinito e indefinibile. In verità, analizzando nota per nota il movimento, è possibile notare come il flusso si appoggi di volta in volta sulle tonalità toccate nel corso dei precedenti movimenti e che di volta in volta emergano delle note che richiamano le melodie già esposte, dando un senso di "dejà-vu" al pezzo e rendendolo coerente con il resto della composizione. Il pezzo termina improvvisamente contro un accordo di Si bemolle minore, tonalità di impianto della sonata, dichiarandone improvvisamente la conclusione oltre ogni ragionevole dubbio, senza eroismi e senza neppure momenti particolarmente memorabili.

Finale dell'op.35

Malgrado le diffidenze iniziale questa sonata era avanti di almeno un secolo, per l'epoca in cui fu scritta ma ebbe fortuna e finì per imporsi, giustamente nei repertori. Da questa emerge come il compositore abbia ormai imparato a piegare le forme ai suoi desideri, veicolando il suo messaggio del tutto personale anche a costo di destare scandalo negli auditori, pur rimanendo assai fiscale nei confronti delle forme codificate (molto più di Liszt e Schumann, tanto per fare due esempi). Questa sonata però rappresenta una tappa di passaggio, benché cara al compositore stesso, perché, non molto tempo dopo, rincara la dose.

3) SONATA N. 3 OP. 58


La sonata op. 58, sebbene sia separata da ventitré opere dalla precedente, in verità segue dopo poco tempo l'op. 35 (circa sei anni) ed è scritta di getto nel 1844 a Nohant, ed è un altro pezzo a cui Chopin tiene molto, visto che la menziona esplicitamente nelle sue lettere. Questa terza sonata è più "grassa" delle due che l'hanno preceduta, con uno sviluppo maggiore dei movimenti, una scrittura pianistica meno neo-classica, più evoluta e raffinata e del tutto personale, sempre nei canonici quattro movimenti. 
Il primo movimento, "Allegro Maestoso" in Si minore, è il preponderante dei quattro per lunghezza e complessità. In esso, Chopin sfoggia tutta la sua maestria in una specie di scrittura mista, che ancora non è una vera polifonia, o non completamente (non alla Bach per intendersi) ma che è comunque realizzata su più livelli, le voci, a volte ben distinguibili nel loro ruolo, altre volte in funzione timbrica. I due temi della struttura principale della forma-sonata sono, come nella precedente sonata, ben caratterizzati da un repentino cambio di scrittura: il primo tema, in Si minore, è turbolento, formato da episodi diversi e polifonico, il secondo tema è invece a due voci, un canto e un accompagnamento, in Re maggiore. 

Chopin op. 58 primo tema
Primo tema

Chopin op. 58 secondo tema
Secondo tema, si noti il cambio di scrittura

Entrambi questi temi, sebbene ad un primo impatto possano risultare monolitici e ben enunciati, formano più delle aree tematiche, con tanto di elaborati sviluppi interni, in cui il materiale inventato subisce delle variazioni, degli arricchimenti e abbellimenti (il secondo tema ha pure delle assonanze con la sonata n. 2 di Von Weber, nota al compositore). Dopo l'esposizione, con l'immancabile ritornello (in questo Chopin è anche più ligio di Beethoven nella forma), vi è un breve sviluppo in cui i due temi si combinano insieme a formare una sorta di crescendo che porta ad un punto culminante, una sorta di breve cadenza formata da un arpeggio in cui tutto il discorso si sospende e lascia spazio alla ripresa, che però avviene senza un riepilogo del tema in Si minore, ma solo del secondo, trasportato in Si maggiore. Questo fatto, ossia di non indugiare troppo nel modo minore e di lasciare più ampio spazio al tema più lirico, è l'abile mossa che Chopin mette in campo per scansare l'impegno di introdurre troppa roba nuova in un pezzo già ampio di suo e di mantenersi in un terreno a lui familiare, dove può dominare bene gli elementi da lui creati e cercando di essere il meno pedante possibile, esaurire troppo presto le idee. Dal punto di vista pianistico, questo primo movimento è difficile, complicato e lungo ma riserva anche delle soddisfazioni grazie alle numerose pause melodiche che sono di sicura presa nell'ascoltatore; inoltre Chopin gioca d'astuzia e pone come agogica un "Allegro Maestoso" proprio per ridurre l'impatto della volontà di certi virtuosi che altrimenti finirebbero per sminuire tutta l'architettura che tanto faticosamente ha costruito e diminuendo così la difficoltà complessiva.
Il secondo movimento è uno Scherzo, tipicamente alla Chopin, ossia una miniatura dei suoi quattro grandi scherzi per pianoforte, specie del n. 1 op. 20, caratterizzato proprio dai lunghi arpeggi che abbracciano la tastiera e che generano impressione negli altri grandi pezzi. 

Chopin op. 58 Scherzo
Inizio dello Scherzo col suo flusso costante e impetuoso di note

A differenza delle due sonate precedenti, qui lo Scherzo svolge realmente la sua funzione, è in Mi bemolle maggiore e "Molto vivace", un breve intermezzo allegro e virtuosistico che separa nettamente il primo turbolento movimento dal terzo che gli si contrappone. Questo scherzo ha un Trio in Si maggiore, che richiama vagamente il movimento precedente, dando un senso di ciclicità alla sonata. La scrittura dello Scherzo è molto scarna, ridotta all'essenziale, con i due ritornelli dove ci si concentra praticamente solo sugli arpeggi e con un accenno di polifonia nel Trio.
Il terzo movimento, "Largo" e in Si maggiore, parte subito con un'autocitazione dalla Polacca in Do# minore op. 26 n.1, che fa da introduzione al tema vero e proprio del movimento che in questo caso è un lungo notturno dove Chopin può sfoggiare il meglio di sé nell'invenzione melodica, creando un primo tema vivace ed abbellito a cui si contrappone una sezione centrale con un secondo tema scaturito da ampi arpeggi e che oscilla tra Mi maggiore e Sol# minore, ottenendo qualcosa di molto delicato e commovente, ancora più delicato della Marcia Funebre della sonata precedente. In questo movimento, probabilmente, Chopin tocca il vertice della sua arte come non lo aveva raggiunto da nessun'altra parte. 

Chopin op. 58 Adagio tema iniziale
Tema dell'Adagio con la citazione della Polacca.

Chopin op. 58 Adagio secondo tema

La parte B dell'Adagio in cui emerge il nuovo tema

Dopo la maestria sfoggiata nei primi tre movimenti, con la raffinatezza nella ricerca melodica e sonora che solo lui poteva permettersi, nel panorama musicale di allora (Liszt, Alkan e Brahms arriveranno molto dopo), giustamente ci vuole un momento "trash" che  ricordi a tutti che siamo ancora tra i comuni mortali, ed ecco arrivare il quarto movimento. Esso è un Rondò, in Si minore e in 6/8, introdotto da una sequenza di accordi in "Presto non tanto" prima di lasciare il posto al tema, "Agitato". Come viene eseguito attualmente, esso è un pezzo di notevole difficoltà, dove Chopin introduce ogni genere di ingarbuglio a lui noto pur di renderlo virtuoso, per esempio mettendo quartine all'accompagnamento ottenendo così delle poliritmie in tempo veloce, ampi arpeggi e poi passaggi difficili da diteggiare, salti, chi più ne ha più ne metta. Il punto è che il risultato complessivo, anziché essere drammatico, suona più come una canzone da osteria, quasi come a cantare improvvisamente "e mi, e ti e Toni..." dopo una lunga serie di madrigali appassionati e struggenti, con tanto di dame in lacrime. Probabilmente, e il condizionale è d'obbligo, ha ragione il prof. Winters anche in questo caso, ossia questa musica è stata concepita per essere tutta complessivamente più lenta e più rubata di come la eseguiamo noi oggi, altrimenti questo movimento sarebbe del tutto estraneo al resto della composizione (a meno che non sia uno di quei rari momenti d'umorismo di Chopin, ma dubito). Ad ogni modo, si tratta di un Rondò che, dopo la breve introduzione, ha tre riprese o ritornelli, del tema in Si minore, seguiti da degli sviluppi virtuosistici nel modo maggiore che gli si contrappongono. 

Chopin op.58 Finale
Inizio del Rondò col tema del ritornello

Ad ogni iterazione aumentano anche le difficoltà, fino alla coda brillante che conclude l'intera sonata. E' plausibile che in questo finale Chopin non abbia voluto tentare di replicare il gioco fatto con la sonata precedente ed abbia optato per una soluzione più tradizionale, puntando tutto sulla coerenza formale, piuttosto che sul risultato finale; infatti, esaminando con cura il materiale utilizzato in questo Rondò, ci sono veri richiami ai movimenti precedenti, contribuendo a costruire un ciclo unico di questa sonata. Tuttavia, pare che alla fine si sia reso conto lui stesso che avrebbe potuto fare di meglio, perché prima di morire darà alle stampe la sua ultima opera, che gli costerà un lungo lavoro, parecchie correzioni e che risulterà così complessa e avanguardista che non potrà nemmeno suonarla per intero al pubblico ma che forse è il risultato che ha cercato per tutta la vita, vale a dire la quarta sonata, quella col violoncello.

4) SONATA PER VIOLONCELLO E PIANOFORTE OP. 65


Non passa molto tempo dalla precedente sonata, poco più di un anno, che Chopin si butta a scriverne un'altra, complice l'amicizia col violoncellista Franchomme che lo introduce alle delizie di questo strumento. Sono gli anni 1845-46, egli da alla luce gli ultimi ma assolutamente esemplari lavori quali la Polacca-Fantasia, i due ultimi notturni e delle mazurke. Sebbene completata nel 1846, questa sonata deve avere ancora una lunga gestazione prima di vedere la sua forma definitiva nel 1847, anno della pubblicazione. E' un periodo molto difficile per Chopin, che non ha mai avuto un fisico erculeo, infatti la sua salute peggiora notevolmente e dopo questa sonata solo qualche mazurka e un canto polacco vedranno la luce, senza peraltro essere pubblicati prima della morte del compositore. 
Questa sonata, come lo sono le ultime opere di vari compositori, rappresenta una situazione molto rara ma che sovente accade ad alcuni individui particolarmente sensibili. Come abbiamo visto nel corso di questa disquisizione, Chopin ha avuto per tutta la vita il problema di confrontarsi con forme musicali ampie, codificate (quindi ben riconosciute dal pubblico dell'epoca) e restrittive, che in un qualche modo mettevano in gabbia il suo talento creativo. La prima volta ci si è buttato a capofitto, mischiando insieme vari autori e ricavandone un risultato diseguale nel valore; la seconda volta ha proceduto per sottrazione, ha eliminato le ridondanze e ha estratto un capolavoro utilizzando un linguaggio classico però che peccava questa volta di essere troppo sintetico; la terza volta ha piegato la forma musicale adattandola ai componimenti in cui lui si sentiva ormai maestro, ottenendo un'opera grandiosa ma ancora non del tutto soddisfacente, specie nel finale. Adesso il tempo comincia a stringere, la malattia di Chopin si aggrava ma c'è il tempo di tentare un'ultima volta a scrivere una sonata, più ardita delle precedenti, che riunisca tutto quello che ha sperimentato in precedenza. Per di più c'è anche un altro strumento, con il quale si può instaurare quel dialogo polifonico che egli ha ricercato a lungo nelle composizioni precedenti. Il risultato va oltre quello che Chopin abbia mai raggiunto fino a quel momento, un'opera talmente personale e all'avanguardia che è come se avesse dato uno sguardo oltre la vita stessa e sia tornato indietro per cercare di raccontarlo. Ci sono altri casi, come accennato prima, in cui l'ultima opera di un compositore è qualcosa di talmente estranea ai tempi, tale da risultare sgradevole e incomprensibile per i secoli a venire, salvo poi esercitare una forte attrazione e un senso di smarrimento a coloro che invece ne colgono il significato, molto a posteriori. E' l'esempio di: Bach con la sua "Die Kunst der Fugue", rimasta peraltro incompiuta; Beethoven con il suo quartetto per archi op. 135; Mahler con la sua Decima Sinfonia, peraltro incompiuta; Liszt con le ultime composizioni sacre; Chopin, per l'appunto, con la sua sonata op. 65. Ciò che accomuna queste ultime composizioni è che tutte, ma proprio tutte, dopo un inizio abbastanza tormentato, terminano con un senso di pace e distensione da essere quasi irreale.
Tornando all'op. 65, ancora una volta la sonata è in quattro movimenti con la consueta disposizione primo-Scherzo-Adagio-finale. 
Il primo movimento, "Allegro moderato" in 4/4 in Sol minore, vede l'enunciazione del tema al pianoforte che fa anche da introduzione, prima di una breve cadenza che lascia spazio all'intervento del violoncello. 

Chopin op. 65 Tema
Introduzione dell'op. 65, primo tema


In questo movimento Chopin riesce a realizzare, grazie al secondo strumento, quel dialogo tra due personaggi in scena, fatto di imitazioni, controcanti e scambi che tante volte aveva cercato di realizzare al solo pianoforte. L'insieme del movimento è molto complesso, scritto su quattro grandi "ondate" in cui il clima si ravviva per poi, come se la musica s'infrangesse contro degli scogli immaginari, lasciare ogni volta il posto alla quiete. E' difficile in questo movimento dire esattamente dove finisca il primo tema e dove cominci il secondo, Chopin non usa la consueta relazione minore - relativo maggiore per scriverli, entrambi sono in Sol minore, il primo tema, quello iniziale, lungo e calmo, lascia poi il posto al ben più agitato secondo tema, che arriva improvvisamente e senza un vera e propria transizione, con un incipit in La bemolle maggiore, salvo poi riportarsi a Sol minore mediante un lungo sviluppo in cui trova sfogo la tensione accumulata dall'arditezza delle armonie e dal dialogo molto serrato tra violoncello e pianoforte. 

Chopin op. 65, primo tempo
Climax nella prima area tematica

Chopin op. 65 secondo tema
Passaggio al secondo tema


Più che di un secondo tema, si può parlare di una seconda area tematica che si contrappone al monolitico primo tema e che da sola traina l'intero movimento. Il primo tema interviene invece in fase di chiusura degli episodi che compongono questo primo movimento, che ha uno sviluppo brevissimo, quasi cadenzale, prima di lasciare il posto alla ripresa scritta in forma canonica, alla Beethoven per intendersi, e che si conclude sul primo tema in Sol minore con una coda burrascosa. Finalmente, in questo primo e difficile movimento, Chopin riesce nell'intento di creare l'equilibrio tra la forma canonica e le sue personali invenzioni, soprattutto pianistiche, che messe assieme formano uno spettacolo in cui i personaggi mettono in scena le loro forti passioni, senza perdere la loro identità. Ci sono molte cose che rendono questo movimento innovativo, ma analizzarle nel dettaglio renderebbe questa breve trattazione un dinosauro!
Il secondo movimento è uno Scherzo in Re minore, in cui il virtuosismo fine a se stesso viene abbandonato per lasciare spazio al dialogo serrato tra pianoforte e violoncello. Le due parti A dello Scherzo, che si potrebbero chiamare ritornelli, sono in Re minore, mentre il Trio è in Re maggiore, più lento e con un cantabile struggente del violoncello, quasi fosse un lied. Questo scherzo, per la sua semplicità e per il forte contrasto che si viene a creare tra le sezioni, si potrebbe quasi accostare a quello della sonata op. 35 o allo Scherzo n. 4 op. 54.

Chopin op. 65, Scherzo
Scherzo

Trio op. 65
Trio dello Scherzo


Il terzo movimento, "Largo", in 3/2 e Si bemolle maggiore, è breve e difficilmente classificabile, è quasi un ritorno alle origini dell'op. 4, ossia un breve movimento di intermezzo prima di lasciare il posto al finale, che però mantiene la sua coerente semplicità dall'inizio alla fine. La struttura di questo terzo movimento non è immediatamente visibile ma si tratta di un breve notturno, in forma tripartita A-B-A in cui il tema è formato da un soggetto e un controsoggetto alternati tra pianoforte e violoncello. Si tratta di un breve intermezzo, uno stacco nel marasma di agitazione che pervade l'intera sonata.

Chopin op. 65, Largo
Largo della sonata op. 65

Il quarto movimento, come sempre "Finale" - Allegro in 2/2, torna al cupo Sol minore con uno stato di tensione inusuale nella musica di Chopin. Il movimento che questa volta il compositore pone a coronamento della sua cattedrale musicale è una delle sue opere più complesse, seppur di non lunga durata. Innanzitutto si tratta di un movimento in forma-sonata in cui il primo tema è formato da un elemento melodico ben riconoscibile, è ricavato accostando frammenti tematici del primo movimento, con l'aggiunta di numerose fioriture; a questo segue una zona di sviluppo della melodia. Codesto insieme va a formare un'area tematica in Sol minore che costituisce l'idea portante del movimento, ovviamente costruita con un dialogo serrato tra pianoforte e violoncello, quasi fosse un fugato. Quando l'energia di questo inizio si placa, entra il secondo tema, in Do minore, di carattere opposto al precedente, una semplice melodia al violoncello accompagnata da accordi del pianoforte che acquista vigore via via e che viene chiuso da una coda in Do maggiore, assaggio di ciò che verrà dopo. In questo movimento, sviluppo e ripresa sono fusi insieme, infatti il primo tema rientra immediatamente e viene sviluppato con maggiore enfasi prima del riepilogo anche del secondo tema, questa volta in Re minore, seguito da un lungo episodio virtuosistico in cui i due strumenti si fondono in un unico canto. Alla fine del movimento c'è una lunga coda conclusiva in Sol maggiore, che funge da prosecuzione del secondo tema ma che infonde una sensazione di profonda serenità e ritrovata gioia dopo un lungo e tormentato percorso.

Chopin op. 65 Finale
L'inizio del Finale col tumultuoso tema in Sol minore

Chopin, secondo tema del Finale op 65
Secondo tema del Finale


La coda in sol maggiore


Con questa sonata, Chopin ha finalmente trovato il suo equilibrio, i movimenti tracciano un ciclo in cui dramma e poesia non occupano più spazio del dovuto. Finalmente egli è riuscito a costruire la sua "cattedrale" sonora con la polifonia che per tanto tempo aveva cercato di impadronirsi. La sorte ha voluto però che questa sonata, così elaborata e sofferta, sia stata per lungo tempo l'opera più ignorata del compositore polacco e tutt'oggi non è molto presente nei repertori da concerto, un vero peccato se si considera che rappresenta il coronamento della carriera di musicista di Chopin prima della sua prematura dipartita.

In conclusione a quanto esaminato  in precedenza, autori romantici come Chopin hanno provato ad adattare la forma-sonata, forma tipicamente settecentesca, ad un nuovo modo di sentire e di fare musica, con la precisa volontà di rompere col passato pur senza cestinare ciò che era stato fatto. In questa fase così delicata, ossia quando Chopin scrive l'op. 4, la sovrapposizione tra il classicismo degli anni napoleonici e pre-rivoluzione e il nuovo gusto borghese sono ancora sovrapposti e si nota fin da subito che le forme codificate del passato stanno assai strette alle nuove generazioni di musicisti. Ciononostante, il passato non viene del tutto abbandonato ed etichettato come vecchio, barbarico e superato, ma trasfigurato in qualcosa di nuovo e il lungo studio che Chopin ha condotto sulla forma-sonata lo dimostra. 
Le quattro sonate di Chopin sono dei capolavori, purtroppo non tutte apprezzate in egual misura ma che dimostrano come negli anni il distacco che si frappone tra mondi diversi diventi sempre più veloce e radicale. Se si ascoltano tutte le sonate di Mozart, tutte le suite di Bach e tutte le sonate di Beethoven, si nota una certa uniformità nella scrittura, con un aumento dell'audacia armonica e tecnica solo andando negli ultimi anni dei compositori. In Chopin invece l'evoluzione è rapida e cerca fin da subito una sua individualità rispetto a qualunque modello del passato, segno che il mondo sta accelerando la sua corsa verso il progresso e che, dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione Francese e delle Guerre Napoleoniche, nulla è più lo stesso e il mondo non ha più lo stesso ritmo di prima. 


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venerdì 22 agosto 2025

LA SCALA IMPOSSIBILE DI PENROSE - Nuotando tra le croste del Lefre

LA SCALA IMPOSSIBILE DI PENROSE

Nuotando tra le croste del Monte Lefre


Nella vita si possono fare mille progetti ma quelli che poi andranno in porto sono sempre quelli a cui non si era minimamente pensato. Infatti l'idea di questa nuova e difficile via, nasce pensando a tutt'altra cosa, da tutt'altra parte. E' estate 2024 quando, mentre scendiamo dai Lagorai, il socio Moreno mi fa notare una grande parete grigia che emerge dai colli sovrastanti Ospedaletto. Sulle prime non ci faccio tanto caso, è brutta, è alta e remota ma scatto una fotografia perché non si sa mai. Tornato a casa comincio subito ad informarmi su che montagna sia quella che ho visto ottenendo di sapere solo una quota topografica e una vaga immagine satellitare, sapendo che dovrebbe trovarsi nei pressi di uno sgarrupato sentiero. Studio attentamente la foto che ho fatto e sembra che questa parete grigia abbia un certo interesse, almeno lo credo per sentirmi virile per qualche minuto, così la passo a Frank per sentire il responso, il quale arriva puntuale con un appuntamento a Villa Agnedo per vedere il farsi. Per essere sicuro di trovarci entrambi nello stesso posto stabilisco che ci si troverà l'indomani davanti al cimitero. E' un ottimo posto per cominciare i lavori, soprattutto di buon auspicio, il quale diventa assai desiderato nei momenti di maggiore fatica, in cui si rimpiange di essere nati e si chiede a sé stessi "perché non mi unisco anche io ai giusti?!". Il compare non è immune al fascino del camposanto e mi replica: "bene, almeno se qualcosa andrà storto, avremo già il posto per riposare!".
La mattina seguente ci troviamo al camposanto di Villa Agnedo: la giornata parte deprimente, a parte la vicinanza di coloro che riposano in pace, il meteo è instabile, ha appena smesso di piovere e la nostra parete è avvolta nelle nubi. Io e Frank ci guardiamo dubbiosi, chiacchieriamo di qualche stupidaggine, poi lui se ne esce di punto in bianco con un "andiamo!". Conosco le bizzarrie del socio e mi viene da ridere amaramente pensando alla benzina sprecata per il viaggio a vuoto, però mi allieta l'idea del bar e della birra: "forza, anche gli attrezzi devono andare a passeggio! Ma dove c***o andiamo che è tutto fradicio? - Beh, là!", si gira e mi indica la parete alle mie spalle. Io guardo dove mi indica e poi guardo lui perplesso, la risata mi passa di colpo: "mica sono venuto là per quella, ma per quella là!" e indico dall'altra parte della valle. Frank si gira, guarda l'orrida parete grigia, che adesso è nera e arcigna, accenna una smorfia decisamente schifata e afferma: "bah, là oggi non combiniamo nulla! A parte il fatto che è tutta bagnata, ma è anche bene in su, e mi sembra anche erbosa". Estrae il binocolo e scruta la parete, poi me lo passa e osservo con attenzione cosa ci aspetterebbe: si ha ragione, la parete ha un bell'aspetto se vista da lontano ma è completamente corazzata di cenge e toppe d'erba, segno anche di scarsa inclinazione. A differenza del Collicello, che era comodo vicino alla macchina, questa è pure lontana e l'unico punto promettente è un grande camino con un sinistro conoide ghiaioso alla base. Lasciamo perdere e mi giro a guardare la parete alle mie spalle: dalla nostra prospettiva sembra bella. Il Monte Lefre è una montagna imponente, molto complessa e circondata da muraglie strapiombante alte fino a 500 metri. Peccato che sia anche universalmente noto per essere di una friabilità leggendaria, tanto che ad oggi si ha notizia di una sola cordata che vi si sia avventurata, composta da Melchiori e Saint nel lontano 1954, lasciando una descrizione molto vaga e carica di orrori. Nel 2014 addirittura i comuni sottostanti organizzarono l'esplosione di un intero pilastro pericolante sotto le postazioni della vetta, i cui segni sono visibili ancora oggi. Insomma, parliamo della montagna dei desideri di ogni rocciatore!
Dico a Frank che non è una grande idea mettere le mani sul paretone giallo sotto la bandiera ma lui mi blocca dicendo che ha visto un interesse sulla punta più ad ovest, a forma di cupola e rigata da numerose rigole, di cui una più grande delle altre e con un vistoso tetto. Gliela indico subito e mi replica: "si dai, un bel diedro con anche un tettino, magari alla gente non piacerà ma il tettino è estetico". Anche in questa occasione, cadiamo come due pollastri sempre nel medesimo errore, ossia quello di non considerare la prospettiva nella quale ci troviamo e di prendere invece dei solidi punti di riferimento per calcolare propriamente le distanze che ci dobbiamo trovare a percorrere. Scopriremo, infatti, solo molto dopo che quel tettino era un bestia di svariati metri. In questo momento però non lo sappiamo ancora e ci avviamo in esplorazione con tanto di pesante fardello appresso e senza avere la più pallida idea di come approcciare la parete, ben difesa da un bosco molto fitto. Consulto brevemente Google Maps, che ho imparato essere uno strumento prezioso nelle sue fotografie satellitari, cosa che i nostri nonni avrebbero venduto l'anima al Diavolo per avere, trovando effettivamente una strada che si avvicina abbastanza alla montagna. LA mia visione però cozza inevitabilmente con quella di Frank che ha un momento di ispirazione e "sente" (non so dove ne come) che bisogna prendere la strada per la chiesetta di San Vendemiano. Guardo il Lefre sopra di noi e ho l'impressione che siamo un tantinello fuori rotta ma lascio perdere. Ci prepariamo rapidamente, come prima volta ho portato poco materiale, così ci avviamo nel bosco sopra la chiesetta. Dopo pochi passi che seguono una debole traccia siamo completamente persi: il bosco è molto ripido e fitto e non abbiamo punti di riferimento. Prendo l'iniziativa e mi oriento verso sinistra alla ricerca di uno spiazzo per poter vedere dove siamo e rinvengo una debole traccia che seguo per poco, prima che si perda anche questa. Frank prova a salire alla mia destra passando in mezzo alle ortiche, io lo seguo, bestemmiando e bestemmiandolo per questa scelta, poi ricominciamo a traversare a sinistra sempre su erto bosco. Tra le fronde degli alberi intravvedo qualcosa ma è sempre molto spostato. All'improvviso reperisco un'altra traccia che si fa largo nell'erba alta e passa sotto un gigantesco macigno che forma una grotta, buono come punto di riferimento e poco oltre trovo un ghiaioncino dove il bosco un po' si apre e finalmente riesco a vedere la montagna al di sopra di me: è circondata da diversi avancorpi che dobbiamo provare ad evitare, non ci voleva. Frank mi segue inizialmente lungo il ghiaioncino, poi traversa ancora lungamente a sinistra nel bosco fino a dove la rampa boscosa si fa ancora più ripida, al punto che sbraita: "adesso tiro fuori la corda!" e riprendiamo a salire maledicendo di essere nati. E' una gran fatica, bisogna salire puntando i piedi nella terra e sforzando continuamente gli alluci e i polpacci, due ore sono già passate, abbiamo le gambe finite e ho come l'impressione che oggi portiamo solo gli attrezzi a spasso, per davvero. All'improvviso noto un'altra colata ghiaiosa, meno marcata della precedente, che scende giù da un gruppo di alberi più piccoli e decido di seguirla, mentre Frank prova più a sinistra. Arrancando come un portatore nepalese che mette corde fisse per i suoi padroni, finalmente raggiungo una cengia dove all'improvviso si innalzano i muri rocciosi del Lefre: la vista è rassicurante, ovunque la roccia è grigia e solcata da rigole, mentre alla nostra destra una lunga fessura taglia lo zoccolo del grande diedro che abbiamo visto dal cimitero. Frank mi raggiunge bestemmiando e guarda verso l'alto: "bah, verranno cinque o sei tiri...!", al che io replico: "beh, dopo tutta questa fatica facciamoli, se la via è corta, qualcuno verrà a farla, piuttosto che venti tiri!" - "Si vabbeh, tutto questo bosco per una vietta corta, però dai, c'è il diedro...!". Ci prepariamo e do tutto il materiale da scalata a Frank in quanto voglio decisamente rilassarmi nel boschetto mentre lui esplora, senza scompormi, come un vero impresario che affida i rischi agli altri ma divide le glorie. Ovviamente non avevo la minima idea che in seguito sarei stato severamente punito per questa mia perfidia.
Frank osserva la fessura che si erge al di sopra di noi: è molto piena di erba e ci pare strano che nessuno abbia tentato di salire il diedro più evidente della parete, infatti gli dico scherzando che magari potrebbe trovare un chiodo appartenente a qualche tentativo e gli indico di salire una canaletta appena a destra del punto in cui siamo, così aggiriamo uno zoccoletto inconsistente. Si avvia su molto deciso per circa un metro e mezzo, poi con più circospezione, poi si immobilizza mentre io lo osservo perplesso: "non è per la difficoltà, è per la roccia...! - Si, certo va bene!" e tra me e me penso che la parete non convinca del tutto il compare, che sia troppo poco per lui. Estrae il martello e prova a saggiare la canaletta attorno a sé, come tira un colpo al labbro destro tutto il tratto di parete su cui sta salendo ha un sussulto, oltre al classico suono da cartongesso. Frank impallidisce e io prontamente mi sposto, così giusto per scaramanzia, ben intenzionato a non fare da cuscino umano. Riprova ancora ma tutto ciò che ha attorno è crepato e sobbalza ad ogni martellata, pare che la parete sia quasi fatta di gesso, la roccia si rompe con le dita, così il socio sale un altro metro nutrendo una flebile speranza di piazzare un ancoraggio e trova un punto in cui la roccia suona "piena", o quantomeno è un poco meno peggio che non sotto e fa entrare in azione il trapano. Piantato il primo fix, tiriamo entrambi un sospiro di sollievo, poi il socio sale più facilmente verso una grande scaglia addossata alla parete. Anche in questo caso batte col martello in ogni direzione ma trova solo marciume, al punto che ci domandiamo entrambi se la montagna non sia finta o non stia su per puro miracolo. Guardo la lama che sovrasta Frank e penso che la soluzione più ovvia sia di prendere la fessura di sinistra, ma presenta molta erba, mentre sopra ci sono delle fessurine. Il compare mi urla che vorrebbe proseguire dritto per le fessurine ma come prova a mettere un chiodo, qualcosa si sbriciola. Mentre mi bifonchia qualcosa io sposto lo sguardo a destra verso e vedo un'altra fessura, poco visibile e nascosta da un pino; sembra più pulita della sua gemella e più in linea con la spaccatura che vogliamo seguire, così urlo a Frank di traversare decisamente a destra e provare a raggiungere il pino. Inizialmente non lo vedo molto convinto ma mi ascolta e dopo un po' di battute violente contro la roccia pessima, vola giù una grossa scaglia e si libera un posto solido per piazzare un fix. Dopo averlo fissato si sposta un po' a destra su placca liscia e trova un bel blocco di roccia compatta e solida che chioda senza pietà raggiungendo l'agognata fessura. La vista della crepa è incoraggiante e la roccia migliora rispetto a prima, così egli la segue riempiendola di friend e posizionando qualche chiodo, prima di arrivare in cima alla scaglia e piazzare una bella sosta comoda. Ancora non lo sappiamo ma sarà l'unica di tutta la via. 
Per oggi abbiamo dato più che abbastanza e lasciamo su del materiale, quindi torniamo indietro ravanando ancora nel bosco senza trovare la minima traccia del passaggio fatto all'andata, bestemmiando e con l'ansia del buio in arrivo. Fortuna vuole che, arrivati ad un crinale, io scorgo un segno blu dell'acquedotto che ci riporta sulla giusta traccia per tornare alla chiesetta, altrimenti Frank sarebbe andato dritto fino al versante opposto del monte. Infatti questa volta mi segue senza proferire parola. Arrivati alla macchina incontriamo un tale del luogo che ci guarda con aria commiserevole, pensando che siamo avanzi di manicomio, poi, per pietà, ci spiega che esiste un sentiero che lui stesso ha tracciato e che si porta molto vicino alla nostra meta, il quale si imbocca da una stradina che parte proprio davanti al Castello Ivano. Lo ringraziamo mentre guardo Frank con un misto di odio e biasimo per le ore spese nel bosco ma faccio finta di nulla e ci dileguiamo velocemente, prima che si sparga la voce e al paese chiamino il servizio sanitario per farci un tso. 

Passano i giorni e, ai primi di Novembre siamo nuovamente all'attacco, questa volta seguiamo le indicazioni che l'indigeno ci ha fornito, riuscendo ad arrivare alla base in poco più di un'ora, contro la mattinata intera della volta precedente. Risalgo velocemente fino alla sosta che Frank ha piazzato la volta scorsa, poi lo recupero, insieme depositiamo la corda fissa, gli passo il materiale da salita e gli auguro ogni bene. Frank comincia con un traversino verso destra portandosi su una placca erbosa e poi ricomincia la solita routine: si batte la roccia per trovare un punto solido, si fa il buco, si batte dentro un tassello, si stringe la piastra, poi staffa e via ancora per il prossimo ancoraggio. La differenza con la volta precedente è che l'amico Fritz si arena dopo circa cinque metri in cui tutta, e dico tutta, la parete non suona solo come la gran cassa nella Sesta di Mahler, ma addirittura ad ogni martellata si vedono delle crepe allungarsi e dei pezzi saltare via in punti diversi. Frank mi guarda con un'espressione di chi è incerto se essere disperato e urlare o se essere deluso e incerto sulle proprie capacità. Metto da parte il sadismo che mi è insito e tralascio lo scherno, così lo incito ancora un poco a provare vicino all'erba dove magari c'è una vena di roccia solida ma nulla, tutta la parete è rotta, corazzata di croste pronte a sbriciolarsi appena una punta cominci a forarle. Preso dalla rabbia, il socio vorrebbe bucare tutto con una mitragliata di roba andando dritto su per la placca che lo sovrasta propendendo per la quantità anziché la qualità degli ancoraggi. Lo comprendo, però mi farebbe un tantinello schifo ridurre la nostra via in tale stato, così l'occhio mi cade verso destra dove noto una fessura parallela alla nostra, nascosta dall'erba. Il problema è che è distante da lui parecchi metri e nel mezzo c'è una grande scaglia erbosa inconsistente, seguita da un colatoio. Passato il momento delle risa sono un po' sconfortato, però guardando bene la sua posizione e l'attacco della fessura mi dico che forse c'è una soluzione. Mi rivolgo all'amico e gli dico la mia idea: "senti, prima di mandare all'aria tutto, già che sei lì, allungati con un cordino il chiodo a cui sei appeso, poi mettiti in tensione sulla corda mentre io io ti calo un po' per volta e poi pendola con decisione verso la fessura a destra, là la roccia sembra molto compatta". Devo dire che egli reagisce bene e non devo pregarlo come al solito, forse perché le croste lo avevano intimorito abbastanza, quindi esegue quanto detto e comincia a traversare a destra con la tensione della corda; avanza lentamente un passo dopo l'altro camminando su una crosta fragile come i biscotti da inzuppare nel latte e riprendere a battere col martello. Batte una prima volta e niente, la roccia si crepa; batte una seconda volta più a destra e ancora nulla; traversa in tensione ancora un metro ad uno stillicidio al centro del colatoio e batte per la terza volta trovando finalmente roccia ben compatta. Un fix entra subito in azione e poi si volge alla fessura: è una miseria, erba e croste tenute insieme dalla terra ma c'è anche della roccia compatta. Frank sale lungo la fenditura verticale a suon di chiodi e fix, scaricando una quantità importante di detriti ma alla fine raggiunge una grossa nicchia sotto il camino di uscita della fessura. E' andata, per ora, la via può proseguire. Ha impiegato un intero giorno per venire a capo di soli diciassette metri ma è andata; per fortuna io ero su una sosta relativamente comoda.
Ancora una volta ri-disponiamo tutto il materiale da scalata e scendiamo. Le due riprese seguenti sono senza storia, dedicate alla pulizia di quanto fatto fino ad adesso e al superamento del camino, un altro tratto orrendo per via delle croste ma che alla fine si lascia salire senza troppi patemi d'animo. Il bello sarebbe arrivato solo dopo. Già con le prime passate di scopa e martello, la parete rivela che le croste sono solo superficiali e che a volte sono particolarmente tenaci, fatte di argilla dura come la resina epossidica, che richiedono ore di lavoro di battitura col mazzotto per essere rimosse. Meglio così dunque, vuol dire che non costituiscono un serio pericolo se non per il piazzamento degli ancoraggi di progressione.

Passano alcuni giorni, è ormai Dicembre e nevica. Frank mi scrive che ha il sabato libero e che vuole andare avanti, io mi dimentico completamente di guardare le previsioni meteo in dettaglio e lo seguo, arrivando come di consueto sul luogo dell'appuntamento, trovandomi davanti alla sorpresa di una Valsugana completamente imbiancata e con nuvole basse, oltre ad una bella arietta friccicarella a -8°C. Dico al socio che forse sarebbe meglio scaldarsi al bar e che oggi è andata a finire male ma lui insiste che qualcosa si può fare lo stesso. Non so bene per quale motivo lo assecondo, forse per una questione di ego, ma lo seguo e insieme torniamo sulle corde fisse. La marcia di avvicinamento nel bosco, assai penosa per via del fango, ha l'indubbio pregio di riscaldarmi, così che non senta troppo i diversi gradi sotto zero della giornata. Risaliamo le corde fisse e arriviamo all'uscita del caminetto, su una sottospecie di sosta su di una lastra inclinata, che Frank mi decanta come se fosse un posto al pub. Io non sono affatto convinto e mi allungo quel che basta da poter appoggiare un piede su una motta di fango che ha la parvenza di essere piatta. Non ricordo esattamente quel che succede dopo, solo il fatto che il socio bifonchia qualcosa a cui non do peso e, pur di non dovermi muovere in quell'incubo gocciolante che è la parete come si presenta in questa strana giornata, lo "offro volontario" a partire con armi e bagagli. Quello che accade dopo è, per il punto di vista di un osservatore esterno, qualcosa di assolutamente normale, un primo che scala e il secondo che lo assicura, con pochi scambi di battute per tutto il giorno. Quello che accade davvero per chi invece vive la situazione sulla propria pelle, è un vero castigo, la meritata punizione per la codardia dimostrata nelle fasi precedenti dell'apertura. Tanto per cominciare la partenza: come Frank accenna ad alzarsi dalla sosta per imboccare una sorta di canaletta lungo lo spigolo del diedro, subito una crosta delle dimensioni del nostro sacco di materiale si muove in modo preoccupante e tutto quello che la circonda suona vuoto. Lo spavento è tale che ci diamo una bella scaldata, quasi a sudare, malgrado la temperatura glaciale. Per il momento la lasciamo lì, anche perché correremmo il rischio di farla cadere proprio sul nostro materiale da scalata, il che sarebbe un disastro. Passato questo momento emozionante, inizia la vera lotta: il cielo resta sempre plumbeo, non c'è un raggio di sole e la temperatura che si scalda all'incredibile e piacevole temperatura di -6° C, la parete resta bagnata, umida con la neve che si fa molliccia e si scioglie, malgrado il freddo, per qualche fenomeno termodinamico ignoto alla scienza (evidentemente lo scarso irraggiamento solare è più che sufficiente). Frank procede ad una lentezza quasi esasperante, lungo il solco della canaletta estremamente liscio e umido, io resto in piedi sulla motta di fango guardando verso l'alto. A mano a mano che le ore passano, si alza una corrente d'aria, giusta per peggiorare la sensazione di freddo che mi pervade. Inizialmente permane il calore sviluppato con la risalita e le manovre, poi comincio a patire sempre di più. Mi vesto mettendomi quanto di più pesante abbia a disposizione che però non basta, il freddo mi morde anche dentro il piumino; a questo aggiungiamo che dopo un po' non sono più in grado di stare eretto sulla motta di fango e perciò mi sposto sulla lastra inclinata della sosta, letteralmente appeso come un salame. Col passare delle ore viene il pomeriggio, il vento cresce di intensità, al punto che anche Frank, alcuni metri più su, comincia a battere i denti, si volta, mi guarda e mi dice: "se continua così, non so quanto ancora resisterò!". Mi sento sollevato, di solito procede come un trattore dritto per la sua strada, ma questa volta il freddo è davvero insopportabile. Per ora comunque va avanti, malgrado il vento. Si fa ormai pomeriggio inoltrato e ormai le mie gambe sono rigide e indolenzite, l'imbragatura mi taglia i fianchi e il freddo mi procura crampi alle mani. Fortuna vuole che in quel momento esca il primo spiraglio di sole di tutta la giornata e il vento cessi come d'incanto. Il sollievo è però solo momentaneo e solo per il socio che arrampica, non per me; almeno conclude il tiro su una lastra inclinata pure peggio di quella dove sono adesso. Quando scende e mi raggiunge, mi confida: "guarda, per fortuna che si è scaldato perché c'era un freddo...! Povero te che sei stato su questa sosta di m***a ad aspettare!" (bontà sua!). Posso affermare che questa volta ho pienamente compreso cosa significhi affrontare un'invernale, con lo spirito di una volta; c'è molto romanticismo nella letteratura!!!!

Alla ripresa successiva fa sempre freddo, ma almeno c'è il sole (così promettevano le previsioni), pertanto tutto si svolge come da copione e ci ritroviamo all'ultima sosta piazzata, lungo lo spigolo del diedro. Da questo esso punto appare immenso, dritto come potrebbe esserlo un obelisco, con il famoso "tettino" a sbarrare la strada, che da qui si vede perfettamente essere un ostacolo di prim'ordine. Riprende a salire Frank come di consueto, io mi terrò semmai per la parte successiva più "artificiale" della scalata, Quello che gli tocca oggi è, senza probabilità di dire sciocchezze, il tiro più marcio di tutto il Monte Lefre, di tutta la Valsugana, di tutte le Prealpi italiane, pertanto sono ben contento di starmene in sosta a gustarmi lo spettacolo, anche se ciò significa soffrire. Ancora una volta l'amico si sposta verso destra per cercare un passaggio, saggia la roccia e poi si alza lentissimamente sulla placca sovrastante che è letteralmente corazzata di croste che si sbriciolano solo a sfiorarle col martello. Passano parecchie ore durante le quali il socio si apre la strada in mezzo a tutto il marciume, facendomi piovere addosso di tutto e di più, mentre io lo canzono  di usare le staffe sul terzo grado. Mentre egli procede verso l'alto, il vento si rafforza improvvisamente e il freddo torna a farsi sentire, fortunatamente c'è ancora il sole limpido ma è comunque fastidioso. Per curiosità butto l'occhio oltre lo spigolo del diedro e vedo perché tira vento: una bufera di neve sta arrivando dritta dritta verso di noi, precipitando giù dai Lagorai. Caccio un urlo a Frank dicendogli che tra poco avremo il maltempo addosso e che comunque siamo in Gennaio; lui, col solito fare laconico di chi si rassegna al suo ineluttabile destino mi risponde: "ma tanto le previsioni di Borgo non danno pioggia! Vedrai che non fa niente!". Sarà anche, ma il dubbio è legittimo. Intanto il socio raggiunge una cengetta fuori dalla mefitica placca e comincia a traversare a destra, tirando giù un macigno dietro l'altro, uno dei quali mi passa pericolosamente vicino; io allungo il collo oltre lo spigolo e vedo il cielo farsi scuro, con nuvole di un bianco quasi abbagliante, segno che sono cariche di cristalli di ghiaccio. Mentre il socio è impegnato nella lotta alla rupe, cominciano a fioccare i primi cristalli e, dietro la nostra montagna, i Lagorai spariscono nelle nubi della nevicata. Comincio a diventare impaziente e sollecito il compare a darsi una mossa perché la situazione si sta rinfrescando! Dopo momenti di grave incertezza, in cui le nostre parole si sono perse nei turbini del vento, sento distintamente il richiamo della nuova sosta, ora spetta a me la solita manovalanza di risalita, piazzamento delle corde fisse e dei vari cordoni, almeno mi sgranchisco un po' le gambe dopo un'altra giornata bloccato in posizione improba. Raggiungo Frank nel centro del diedro che ormai è pomeriggio e gli dico cosa si sta scatenando sul versante opposto del monte ma devo anche ammettere che per una volta ha avuto ragione a fare finta di nulla, infatti il vento cala di intensità e la tempesta di neve devia totalmente verso i Lagorai, lasciandoci al sole. Ovviamente mi risponde: "te l'avevo detto che le previsioni di Borgo non davano pioggia!". La vista di ciò che abbiamo di sopra è abbastanza desolante: tutto il centro del diedro che dovremmo seguire è occupato da erba grassa e rigogliosa, che ci costringe quindi da arrampicare con immensa fatica sulle pareti laterali. Frank fa ancora qualche metro prima di lasciare l'impresa a tempi migliori, quindi ci caliamo e torniamo a casa. 

A questo episodio seguono un altro paio di riprese in cui puliamo un po' le lunghezze appena percorse e finiamo di scalare il grande diedro grigio che ci porta direttamente sotto i gialli strapiombi che rappresentano la vera incognita della salita, dopodiché Frank fa una cosa che mi rompe alquanto le tasche, ma su cui taccio perché tutto sommato la via deve proseguire, ossia un giorno infra-settimana se ne va su da solo e chioda un altro tiro. Vabbè, vedremo il da farsi dopo questa nuova sezione. Non passa molto tempo e siamo nuovamente su entrambi, nel cuore del diedro strapiombante. La sosta da cui partiamo è talmente misera, che non ho dubbi nell'identificarla come la peggiore di tutta la via; per di più non c'è spazio per potersi scambiare i ruoli e la risalita delle corde fisse comincia a farsi sentire. Tra l'altro oggi Frank è particolarmente impaziente, pertanto non ho voglia di rogne e gli cedo il passo. Il socio comincia a scalare la fessura giallognola al centro del diedro, intasata di croste e di terra, andando avanti dieci centimetri alla volta, mentre io sono torturato in una posizione assolutamente improba, con un piede su una minuscola tacca, un piede in pressione nel diedro e faccio contrapposizione con la sosta per riuscire a stare in equilibrio, in quanto sono in una strettoia dove non riuscirei a stare appeso. Mentre Frank scala il diedro le ore passano con una lentezza assolutamente esacerbante, quasi da impazzire, l'imbrago mi taglia i fianchi più del solito, lo sento mordere direttamente le mie carni, le gambe stentano a rimanere dritte e i tendini fanno sempre più male. Il punto chiave del tiro che oggi stiamo facendo è un tetto da cui cola uno stillicidio, tutto intorno la roccia è liscia come una lavagna e Frank lo supera riuscendo a martellare due buoni chiodi in minuscoli buchetti. La parte sovrastante, tuttavia, non è da meno e sento distintamente un "c'è la parete che è fatta di segatura!", seguito da una sequenza di bestemmie che si fanno via via più vaghe e informi a mano a mano che la corda fila. Dopo cinque interminabili ore, finalmente sento chiaramente un: "c'è un terrazzino! Aspetta che lo disgaggio!", salvo poi udire un porcone galattico quando sotto la terra e l'erba la parete ritorna liscia come il vetro: "vabbè, la sosta verrà scomoda!". Ma che novità! Intanto però abbiamo raggiunto l'enorme "tettino", che a guardare bene sporgerà di cinque o sei metri dalla verticale ma che lascia intravvedere un passaggio alla sua destra molto logico, senza doverlo affrontare di petto. E' tutto sommato una buona notizia. Risalgo fino a lui con grande fatica, dolente perfino nei gomiti, porto il fardello e sistemo le corde fisse, poi entrambi ci caliamo giù sapendo che la risalita successiva potrebbe essere decisiva. A causa di impegni vari, non riusciamo a trovarci sistematicamente tutti i sabati, tra l'altro si sta avvicinando la primavera e con essa il grande caldo, che renderà impossibile salire la parete, ben peggio che il freddo, quindi diventa adesso imperativo uscire dal diedro e terminare la salita della parete verticale. 

La ripresa decisiva arriva, eccome se arriva! Ci tocca, anzi mi tocca, una levata prima dell'alba, un cospicuo rifornimento di fix, il ritrovo direttamente al parcheggio sotto la via per poi risalire gli ormai trecento metri di corde fisse fino all'ultima sosta lasciata, una risalita lenta e faticosa, resa insidiosa dalle scaglie di roccia che non bisogna toccare. Ci ristabiliamo entrambi sulla sosta appesa che Frank ha preparato la volta scorsa, lo lascio andare nella speranza che si sbrighi, ma soprattutto mi approprio del suo seggiolino e mi appollaio sulla sosta che, per una volta, riesce ad essere perfino sopportabile, rispetto alle torture delle volte precedenti. Il socio chioda una placca liscia ma appoggiata e poi si sposta a destra per aggirare il grande soffitto pervenendo così ad un pulpitino sotto l'ultimo grande tetto del diedro, che da sotto non sembrava nemmeno granché. Lo raggiungo velocemente e porto tutto il materiale, la mattinata è già trascorsa ma c'è ancora tempo per finire l'opera, alla peggio torneremo giù con le pile frontali. Frank riparte lungo la placca gialla liscia e verticale sopra il grande soffitto e comincia a portarsi sotto un tetto nero, orizzontale, che sbarra l'uscita del diedro, proprio quando al di sopra si intravvedono le frasche dei pendii sommitali. A metà tiro il socio vorrebbe chiodare dritto un arcigno strapiombo giallastro ma io insisto che sarebbe più corretto continuare nella compatta incavatura tra placca e parete del diedro, più scalabile e più compatta, scelta che si rivela azzeccata perché la roccia tiene sempre, a parte una breve scaglietta. Dopo la consueta lunga attesa finalmente Frank riesce a piazzare la sosta all'uscita dell'immenso diedro del Lefre, io lo raggiungo velocemente e piazzo le corde fisse per poi studiare l'uscita in un secondo momento. E' fatta, siamo riusciti a finire la scalata della parete in tempi utili, adesso tocca finire la pulizia e cavare tutto il materiale lasciato in parete. Rientriamo soddisfatti dopo la lunga giornata passata appesi nel mare di croste precarie di questa montagna ma siamo riusciti a venirne a capo. E' stata una via continuamente tormentata dall'idea che si giungesse ad un certo punto da cui fosse impossibile poi proseguire a causa della friabilità della roccia, invincibile anche al trapano, ma che alla fine ci ha regalato una linea ideale, tracciata dalla natura, che pochi hanno ancora il privilegio di poter percorrere al giorno d'oggi. 
Nei mesi successivi approntiamo una discesa in corde doppie, valutando l'idea di proseguire lungo l'ultima balza della parete, molto erbosa e friabile, o di terminare la via lì, all'uscita del tratto verticale di parete. Scioglieremo successivamente questo nodo ma per il momento siamo contenti del risultato. Il nome scelto per la via, "la scala di Penrose", fa riferimento alla figura impossibile che il matematico britannico disegnò ed inviò all'amico Moritz Escher, che ne trasse un quadro e che calza alla perfezione alla forma del diedro che abbiamo scalato. 

La scala di Penrose I tiro
Apertura del primo tiro

Uno dei tratti chiave della Scala di Penrose
Apertura del secondo tiro, molto sporco e crostoso

La Scala di Penrose quarto tiro
Apertura della canaletta nella freddissima giornata di Dicembre

Grande diedro del Monte Lefre
Il grande diedro grigio

Strapiombi del Monte Lefre
Il diedro che ha richiesto ben 5 ore ad essere vinto

Tetto finale della Scala di Penrose
Il tetto finale del grande diedro

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