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lunedì 14 febbraio 2022

IL CAMPANILE NICOLA E SOFIA

 IL CAMPANILE NICOLA E SOFIA


Novembre 2019 è stato un mese di pioggia ininterrotta, abbastanza da smuovere in maniera vistosa la grande frana del Rotolon. 
Durante l'unica pausa nel maltempo, un pomeriggio di non ricordo quale giorno vado a trovare Moreno, assorto nella contemplazione del suo nuovo attrezzo, il drone Mavik, costato un pezzo di rene e un litro di sangue e quindi assolutamente da usare e  andiamo a provarlo in Val Posina dove, a detta sua, c'era una torretta che meritava la nostra attenzione. 
Arrivo quasi verso sera rilassato, immerso nella magia delle vedute sublimi che solo la montagna può regalare, con un clima ideale per le riprese: la valle è gelida, il cielo è coperto e uggioso e soffia una brezza umida che penetra dentro il cappotto, dentro la canottiera e perfino nelle mutande, fino alle ossa! Malgrado questo "trascurabile inconveniente ci ritroviamo verso Piovene Rocchette e proseguiamo alla volta di Griso, nella magra speranza di un miracoloso squarcio. Anche se sono assai scettico riguardo l'esito dell'operazione, l'entusiasmo del compare è alle stelle e mi contagia come un'influenza (la pandemia arriverà tra non molto) e una volta arrivati estraiamo il drone. 
Eccolo lì quindi, scintillante, ruggente e profumante ancora di fabbrica, quasi ad invitarci ad abusarne. Moreno fissa una torre erbosa che si perde nella nebbia, alta sopra di noi, con lo sguardo vitreo di chi ha vissuto tante battaglie ma deve nascondere la preoccupazione per le sorti del costoso mezzo meccanico: "te vedarè, i xe zentottanta metri, se poe 'nar su par deà dove che xe pi buttà e po far eo spigolo. Aa gavevo vista 'na 'olta e so n'dà a vedare la sotto, l'è roccia bona, credime!" (Vedrai, sono 180 m, possiamo salire dove la parete è adagiata. Una volta sono andato a vedere ed è solido...!)
Io guardo la guglia che continua ad essere incappucciata dalle nuvole, sembra uno spirito imprigionato nella roccia all'alba del mondo: il suo basamento è strapiombante, giallo, segue poi uno spiovente di erba ripida sopra cui s'erge uno spigolo affilato grigio e verticale che sparisce nel bianco lattiginoso della nebbia. Assecondo il socio ma sono scettico.
Il drone viene attivato, ronza violentemente e si alza in volo rapidissimamente sparendo in qualche secondo dalla nostra vista. Arrivano sul telefono le prime immagini delle pareti rocciose (i comandi sono sul telefono, n.d.A.), verticali, rotte da cornici erbose. Il drone arriva alla quota massima di 500 m e non è neanche a metà della guglia che continua ad innalzarsi perdendosi nel nulla; Moreno mi guarda con l'espressione di qualcuno a cui hanno appena rubato il pane di bocca e non proferisce parola, io resto perplesso sulla fattibilità dell'impresa e soprattutto sul suo effettivo valore. 
Ad un tratto, mentre il drone sorvola in semicerchio le pareti ripide ed erbose, l'occhio cade su una torretta laterale che si distingue poco dalla strada ma che con la ripresa appare nettamente staccata dal corpo principale della montagna ed esco: "cossa pensito se inveze 'ndem a far chel cazzetto de piera lì? Mi par pi puita, curta e fazie dea torre granda, anche pi comoda. Par mi sirà 80 m, in do volte ea femo"-"Disito? Anca secondo mi ea merita de pi delo spigolo, speta che vardo pi da vizin".
(Cosa dici se andiamo invece a salire quella torretta lì in basso? Mi sembra più pulita, corta e comoda di quella grande. Secondo me saranno 80 m, la possiamo fare in 2 volte! Dici? Anche secondo me merita di più).
Il drone vola vicino alla guglietta e rivela un bel sasso con una parete liscia e a placche grigie, che si alza direttamente dal bosco, facile da trovare perché posta accanto a un canalone. Il velivolo filma da distanza ravvicinata la formazione e ci fornisce tutti i dettagli di cui abbiamo bisogno. A riprese fatte nessuno dei due proferisce parola per alcuni minuti, non serve dire nulla: il nuovo progetto è già in cantiere!
Nei giorni successivi, nei momenti di pausa, faccio delle ricerche per cercare di avere più informazioni sul gruppo montuoso, impresa ostica dato che alla biblioteca del Cai non c'è nessuna pubblicazione sull'area (e quando mai!), la cartografia è imprecisa (e si che l'Italia dovrebbe essere un paese civilizzato...) e le uniche note sono in un librettino introvabile distribuito per passaparola solo a livello locale (classico: poi gli indigeni si lamentano che nella zona non ci va nessuno, c'è la crisi, la montagna si spopola e altre cazzate simili). Scopro, da alcuni commenti in internet e dalla lettura di un libretto sulla guerra in montagna, che è stato un punto fortificato dalle truppe italiane durante la Grande Guerra per sbarrare la Val Posina e che vi si sono svolte alcune azioni di contatto tra gli eserciti e una grande battaglia nel 1916 che ha coinvolto tutto il massiccio del Monte Maggio, con migliaia di vittime tra morti e feriti. Nel frattempo Moreno fa un sopralluogo ravanando nel bosco, per individuare l'approccio migliore e mi manda tutto il repertorio fotografico.

Arriva il Dicembre 2019 e con esso il freddo dell'alta pressione, assieme ad un pallido di sole a confortare la montagna. Con noi c'è anche il terzo di cordata, Bruno, lo storico socio di Moreno in questo genere di operazioni e che è anche un paio di spalle in più per portare il fardello. Bruno ha anche un altro grosso pregio quando bisogna stare in parete: fa sembrare ogni momento, anche il più cupo, una bevuta all'osteria, così si ride molto, si bestemmia di più e si piange poco. 
Ci avviamo nel bosco carichi come schiavi nell'antico Egitto, io sudo come un uomo colpevole in attesa del verdetto, Moreno prende il via a razzo come un missile per arrivare cinque minuti prima di me con la faccia di chi ha disertato la Legione Straniera e Bruno arriva coi discorsi dipinti sulle labbra, senza il fiato per pronunciarli; il bosco è così ripido che potrei toccarlo col naso ad ogni passo. Lungo il tragitto rinvengo qua e là resti della Prima Guerra Mondiale, come qualche pezzo di filo spinato, e scatolette. Finalmente, dopo ingiurie, bestemmie e lamentazioni come le donne al capezzale del morente raggiungiamo la base della guglia, al punto che Moreno aveva indicato come possibile inizio: è una placca liscia come uno specchio! 
Io propongo di attaccare per l'unica fessura che interrompe la continuità di tutte quelle placche ma ciò vorrebbe dire anche superare due tetti a suon di chiodi e staffe, gli altri due invece vogliono arrampicare, forse perché sono più orripilati all'idea del tetto che della placca ma tant'è. Va bene, si comincia sulla placca a destra degli strapiombi, non senza un mio velo di rammarico.
 
Vorrei cominciare io ma Moreno insiste per partire e quindi si carica il trapano sul groppone, piglia i fix e comincia a salire il primo metro della placca baldanzoso come coloro che si illudono che la guerra sarà breve (così dicevano cento anni fa!!). 
Appena sopra quel fatidico primo metro e dopo parecchi minuti riviviamo una situazione di stallo simile a quella della Grande Guerra: Moreno è sempre nella stessa posizione, intento a capire se sia colpa sua, della cena della sera prima o della montagna che è parte di un mondo crudele; io e Bruno intanto lo guardiamo e lo incitiamo come si incita il fante ad andare all'assalto frontale della trincea avversa mentre i nostri piedi sono ben posati a terra. Il tempo passa senza che nessuno se ne renda davvero conto. 
Dopo un po' egli si rende conto che se aspetta che la natura lo faccia uscire dall'impasse spontaneamente potrebbe raggiungere l'età della pensione e così fa entrare in azione un gancetto, tastando la roccia al di sopra fino a trovare un minuscolo forellino e potendo così alzarsi di qualche prezioso centimetro. Successivamente prende  il trapano e in equilibrio molto precario apre un foro nella roccia, facendo seguire l'ingresso di un fix nello stesso, guadagnando così un altro metro nella placca. Seguono un altro gancetto, un chiodo piantato a metà e un altro fix. Moreno procede lentamente, molto lentamente ma riesce ad avanzare, mentre io e Bruno lo fissiamo strappare un centimetro alla volta alla placca compatta e levigata che ci sormonta arcigna e beffarda, senza un minimo di compassione per quei poveri disperati che non hanno nulla di meglio da fare se non stare lì a lavorare anche nei giorni di riposo. 
Tutta la mattina passa tra gancetti e fix, arriva l'ora di pranzo e passa pure quella, anonima e silenziosa, mentre i progressi sono molto lenti e Moreno è ancora sulla placca che al centro oppone circa quattro metri compattissimi ed estremamente lisci. Moreno prova ancora con un chiodo, lo martella fin quasi a distruggerlo ed esso entra appena in una piccola ruga, lo avvolge con un cordino per sfruttare quel centimetro che è entrato e si innalza abbastanza da mettere un altro fix con cui riesce finalmente a raggiungere una stretta cornice orizzontale; le difficoltà cominciano a calare.
Dopo un'attesa interminabile finalmente guadagna un minuscolo gradino sotto a un tetto, scomodo per una persona e figuriamoci per tre ma che è comunque un approdo in mezzo a tanta verticalità. Finalmente Moreno tira il fiato mentre io e Bruno prepariamo il sacco per rifornirlo di materiale e ci approntiamo a salire il tiro appena chiodato: io salgo staffando per essere più veloce, Bruno invece cerca di salirlo subito in libera scoprendo a sue spese perché è costato mezza giornata di lavoro; dopo il primo fatidico metro infatti comincia a emulare Tarzan saltando da un fix all'altro mentre le braccia fumano. 
Raggiungiamo Moreno alla stretta sosta quando accade qualcosa che non ci voleva: trafficando con le corde, lo zaino coi chiodi cade a terra! Gli occhi cadono su di me, che ho ben presente cosa voglia dire scendere e risalire le mezze corde in pieno strapiombo e, mentre sento il peso della responsabilità che mi viene affidato, offrendomi in sacrificio alla riuscita dell'impresa, mi viene in mente che l'operazione porterebbe via troppo tempo e, visto che la guglia è corta, si potrebbe tranquillamente ritornare con calma. Bisogna dunque proseguire con quello che resta. 
Moreno traversa a sinistra, sempre con difficoltà e raggiunge la fessura che partiva dalla base, adesso ben al di sopra dei tetti: la verticalità non diminuisce, anzi adesso aggetta pure ma almeno accetta del materiale meno oneroso dei fix; comincia quindi a lavorare di friend per guadagnare terreno e risparmiare ancoraggi. A metà della fessura il sole scende oltre il Pasubio e cala quasi istantaneamente il vento di caduta dalle cime; dapprima è una leggera brezza ma poi il freddo si fa insopportabile e a ciò si aggiunge che tra non molto farà buio. Messo un ultimo fix ci caliamo tutti e tre a terra allegri per la giornata svolta, tentando di nascondere la sonora bastonata nei denti che ci siamo presi sottovalutando fino a questo punto le difficoltà a cui saremmo andati incontro. 
Bene, il primo tentativo è andato.

Tentativo numero due: passa una settimana e ritorniamo decisi e sollevati, il terreno è conosciuto e le difficoltà presto caleranno lasciando spazio a rocce a gradoni. Ancora una volta risaliamo il bosco, sudando come buoi che trainano l'aratro sotto il sole di giugno ma con molti meno preamboli della volta passata ci leghiamo e tutti e tre ci riuniamo alla prima sosta. Riparte Moreno deciso a finire la fessura e risale al punto massimo raggiunto la volta precedente e comincia a pulire la crepa, tirando giù un sacco di sassetti incastrati e rotti. Ricomincia la danza del trapano, seguono altri friend ma la fessura non molla tanto facilmente, infatti al di sopra c'è uno strato do rocce rotte ed erbose che preclude l'accesso ad un terrazzino piuttosto comodo. Mentre l'amico Fritz è su che lavora io sono alla sicura comodamente appollaiato sulla tavola di legno appositamente portata e predisposta per stare appeso, mentre Bruno è affisso alla sosta nel suo imbrago che dopo un po' comincia a penetrargli le carni e la sua faccia, da allegra si contorce nell'espressione di qualcuno che sta andando al Golgota.
Passa l'ora di pranzo e finalmente abbiamo la chiamata alla risalita: le mie staffe entrano di nuovo in azione ma appena passata la sosta qualcosa va storto e faccio un capitombolo a pendolo poco più sotto. Nulla di serio a parte lo spavento e in breve risalgo alla cornice e poi alla fessura, seguo Bruno fino alla sosta sul terrazzo in una nicchia gialla in cui possiamo stare tutti e tre. Il cielo comincia a velarsi.
Moreno a questo punto toglie il disturbo e si sposta a sinistra lungo una cengetta per attrezzare una sosta dove alla fine, dopo tanto lavoro e insperatamente, mi cede il passo.
Preparo l'armamentario col ghigno di chi dice "adesso vi faccio vedere io come si fa", ordino i chiodi, i fix e i cliffhanger e parto lungo lo spigolo verticale mentre gli altri due mi guardano dubbiosi, con una punta di compassione.
Mi innalzo lungo una parete con prese piatte su cui i ganci lavorano a meraviglia e seguo una sequenza di tacche spostandomi proprio sul filo dello spigolo che divide la parete sud dalla ovest quando sento: "varda che se te meti zo un spit xe mejo seto!" (Guarda che se posizioni un ancoraggio è meglio). Effettivamente ho già fatto qualche metro molto aleatorio quindi il primo fix viene piazzato e posso tirare un sospiro. Proseguo, cerco di vedere se i chiodi normali entrano da qualche parte ma niente, è tutto compatto; continuo a cliff e posiziono un paio di altri fix puntando a una cornicetta poco alla mia sinistra. Poco sotto di essa la roccia è marcia: ecco una battuta di arresto. Batto in tutte le direzioni ma la parete suona come un tamburo, spostarmi a destra in piena placca è senza senso perché la roccia è ad appigli rovesci e perciò decido di insistere. Una bugna un po' arrotondata che suona vuoto accoglie un gancetto piuttosto precario, che devo caricare con molta attenzione; trattengo il fiato per illudermi di pesare meno e guadagno un mezzo metro, riprendendo a battere la roccia col martello in tutte le direzioni. Finalmente un quadrato di roccia suona pieno e immediatamente lo foro col trapano per piazzare il fix (come sulla Marcolin quando abbiamo trovato lo strato marcio; chi è lo scemo arrogante che dice che a trapanare si ammazzano l'alpinismo e l'avventura? Stupidaggini di chi si vuol mettere in mostra con fraudolenza sminuendo l'operato altrui) così mi innalzo sul gradino che è irrimediabilmente inclinato verso il basso e molto scomodo. Poco male, qui posso tirare il fiato. Dal basso mi gridano che non vale la pena fermarsi lì e che sarebbe meglio proseguire per guadagnare altri metri (mortacci loro!!!). 
Insisto lungo lo spigolo e sorpasso un altro tratto di roccia marcia che mi obbliga a passi molto cauti sui ganci e mi riporto in parete in direzione di una bella nicchia; la roccia ritorna ottima e posso proseguire chiodando con più allegria. Mentre sono in azione mi giunge dal basso un richiamo lamentoso che mi strappa dalla trance in cui stavo vivendo, mi volgo verso il basso e capisco: Moreno sta cambiando colore verso una sfumatura a metà tra il biancastro e il turchese, Bruno trema come se avesse le convulsioni di chi ha gestito contemporaneamente Mortal Kombat, Outlast e un porno sadomaso. Per di più, il sole è velato e sta per scomparire dietro il Pasubio, i due poveri tapini sono immobili e sferzati dal vento gelido, serrati dalle cinghie delle imbracature come salami messi a stagionare.
Sono spietato e decido di proseguire perché la meta è ormai vicina, appena qualche metro sopra oltre la nicchia; vedo già l'erbetta spuntare il che segna la fine della tribolazione. Chiodo in traverso a destra ancora qualche metro di ruvida placca, sopportando i bollori che mi derivano dal lavoro e dalla tensione nervosa quando mi giunge ancora: "varda che se tornèm n'altra volta non ci dise mina gninte nussun! A no ghea fem pi a star al fredo!" (guarda che se torniamo ancora nessuno ci dirà nulla, non ce la facciamo più). I loro volti sono imploranti e il buio avanza, così piazzo un fix circa un metro a sinistra della nicchia lasciando l'incomodo di attrezzare la sosta per bene alla volta successiva e mi faccio calare giù recuperando tutto il materiale, poi tutti e tre scendiamo alla base della torre. Non abbiamo lasciato corde fisse perciò dovremo escogitare qualcosa per il ritorno. 

Tentativo numero tre: passa una settimana e con essa il Capodanno 2020, il tempo resta bello e scompare anche la fastidiosa velatura della volta precedente. Rieccoci nuovamente a Griso a risalire il ripido bosco fino alla base della torre. La giornata è bella, limpida e calda e abbiamo l'ottimismo in cuore che questa volta chiudiamo i conti con la torretta. 

Giunti alla base pensiamo a un modo per raggiungere la cima e terminare gli ultimi metri della via dall'alto: la guglia è staccata dal corpo della montagna e saldata con essa da una piccola forcellina da cui scendono due ripidi canali; in alto si vede una cengia ma è molto più sopra della vetta sul corpo principale della montagna e sembra difficile scendere per un pendio di erba verticale. Insisto che dovremmo scalare il canalino di destra perché al contrario di quello di sinistra non presenta un alto sbarramento di massi incastrati e muschiosi e porta fino alla forcelletta che separa la nostra torre dal monte. Gli altri due non sono convinti e vorrebbero andare in qualche modo fin sulla cengia però me la gioco bene dicendo che abbiamo molta meno strada da fare e potremmo esplorare anche il versante opposto attrezzando due itinerari sulla medesima punta. Il mio discorso sembra ottenere l'effetto sperato e mi sento Mefistofele.
Come al solito parte Moreno che si sciroppa un canale di terra ripido e schifoso e va a recuperarci su una radice secca ma ancora robusta. Tutti e tre buttiamo l'occhio a sinistra: la parete sopra di noi è strapiombante e fa ancora più defecare del canale sottostante ma verso sinistra si intravede un caminetto che suggerirebbe una via di uscita rapida e poco dolorosa.
Parte Moreno, primo perché più di noi sente la fine dell'impresa ma soprattutto perché ha già il trapano pronto e nessuno di noi due gregari ha voglia di sobbarcarsi il fardello. Comincia a traversare posizionando due ottimi fix sulla placca verticale raggiungendo il camino; dopo qualche istante gli parte una sequela di bestemmie mentre ogni tanto ci guarda con la faccia di chi non sa decidersi se buttarsi di sotto e porre così fine alle sue sofferenze o darsi all'alcol. 
Piazza un altro fix senza nessuno scrupolo e poi lavora di chiodi i cinque metri del camino, di slancio, con la cattiveria di chi è stufo di essere menato per il naso.
Moreno sbuca sul crinale e attrezza il recupero su un buon albero poi Bruno ed io partiamo molto vicini per evitare di scaricarci dei sassi sulla zucca; tutto va bene fino a quando, giunti entrambi al camino, io mi abbarbico al fondo facendo forza sulle lame che lo chiudono. 
Improvvisamente ho un sussulto di quelli che non vorrei mai avere: tutta la parete sinistra del camino sta crollando! Allungo il braccio e la gamba sinistra fulmineamente trattenendo i pietroni in precario equilibrio mentre Bruno si accosta alla parete opposta e scansandosi dalla loro traiettoria. Mi abbarbico al chiodo che Moreno ha piantato e mollo la presa con delicatezza, trattenendo il fiato per avere l'illusione di fare meno danni. Miracolosamente la parete regge e resta in posizione, Bruno guadagna un altro metro e si cava d'impaccio mentre io mi ritrovo ad estrarre il chiodo con le mani, semplicemente rimuovendo i sassi sotto cui era incastrato. 
Raggiungiamo entrambi Moreno ed io gli racconto l'accaduto, ancora teso come una corda di violino e tutti e tre ci facciamo una risata pensando a chi sarà quel volenteroso che ripeterà questa nuova via, aperta per sbaglio per andare in cima alla guglia e calarsi di sotto (tanti auguri a lui!!!).
Dopo un facile tratto di cresta senza più alcun pericolo raggiungiamo infine la vetta della torre: c'è una pace irreale, nessun rumore a parte noi, nessuna macchina lungo la strada del Passo Borcola, solo il silenzio e il piacevole tepore del sole invernale nel cielo terso.
Appronto la sosta proprio sul roccione di vetta e la predispongo affinché si possa cominciare la discesa. Moreno si cala col trapano e tribola cercando di seguire la roccia in mezzo all'erba, poi seguo io che estirpo un po' di radici fastidiose per il recupero e infine Bruno. Moreno ricomincia la discesa mettendo alcuni fix lungo una paretina e poco sotto  si ritrova nella nicchia dove io mi ero fermato: da sopra io e Bruno sentiamo un grido di liberazione: finalmente è finita, è fatta! 
La nuova linea ha preso forma lungo la parete sud di una torre dimenticata in un posto dimenticato perfino dai locali.
Rientriamo alla base sollevati, soddisfatti e con l'idea di affogare la stanchezza in una ben meritata cena, come lupi che si avventano sulla vacca indifesa bramandone le carni grasse.

Tentativo numero quattro, la vendetta e la pulizia! Passa un mese e torniamo a finire il lavoro sulla guglietta di Griso: è vero che la via è finita ma è ancora molto sporca ed erbosa, perciò bisogna dare una sistemata, altrimenti sarebbe una via senza nessun interesse. 
Partiamo e saliamo con una leggerezza quasi difficile da credere, niente trapano, batterie, fix chiodi, niente solo attrezzi agricoli per il giardinaggio estremo, felici come se fossimo nel cartone di Heidi. Questa volta non ripetiamo l'itinerario schifoso attraverso il canale e il camino ma seguiamo una traccia di sentiero che porta inaspettatamente ad una scala di pietra, costruita in tempo di guerra e coperta dalle foglie e dalla terra, che mena ad un terrazzamento oltre l'altezza della nostra torre. Sulla sinistra diparte la cengia che vedevamo dalla vetta la volta scorsa, che comincia dopo un canalino esposto e la seguiamo fino a sormontare la guglia. Da un albero provvidenziale ci caliamo in corda doppia fino al forcellino e risaliamo in vetta per poi cominciare a calarci lungo la via.
Si cala per primo Moreno che ha brama di roccia, per secondo mi calo io, specialista dell'erba e infine Bruno a chiudere il tutto; Moreno comincia a prendere a picconate la crestina finale buttando giù tanta di quella terra da farci un giardino nuovo e poi passa ai macigni, ne cava due delle dimensioni di un comodino che nella caduta spezzano a metà gli alberi sottostanti. Il fatto lo filmiamo riguardandolo con soddisfazione quasi sessuale, specie nel sentire il tonfo che i macigni fanno al di sotto. Successivamente scendo io a spazzolare le prese e togliere le scaglie, godendomi l'emergere della roccia dallo schifo che la sommergeva.
Arriviamo alla base che sembriamo dei Golem di argilla da quanto schifo abbiamo cavato dalla parete (e che ovviamente è finito addosso a noi) ma ora la via è definitivamente pronta. Scelgo di chiamarla "eterno ritorno" perché siamo tornati ben quattro volte per un lavoro che forse ne richiedeva due e scelgo anche di dedicare la guglia, di cui non ho trovato nessuna informazione, a due ragazzi scomparsi in montagna, uno dei quali era Nicola Tassoni; non potevano avere monumento migliore.

Dopo questa via nuova viene il Covid 19 che ci blocca per lungo tempo, ci riempie di ansia ogni volta che ci dobbiamo muovere e che si porta via il mondo che ricordiamo, o almeno una parte di esso.


Il Campanile Nicola e Sofia


Due immagini dell'apertura della prima, difficile placca grigia, passo chiave della via

secondo tiro del Campanile Nicola e Sofia
La fessura del secondo tiro

La parete della via normale, scalata durante il terzo tentativo



vetta del Campanile Nicola e Sofia
Vetta del campanile



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